I musei del cibo di Parma: guida all’enogastronomia emiliana
La patria della gastronomia italiana celebra la sua cultura con otto musei del cibo. La guida definitiva per scovarli e apprezzarli.
Salumi, formaggi, vino e pasta fresca sono gli alimenti a cui pensiamo immediatamente quando ci viene citata l’Emilia Romagna. Gli emiliani lo sanno bene e per celebrare la propria cultura enogastronomica sono stati progettati nel 2000 dall’Amministrazione Provinciale di Parma – città UNESCO della gastronomia – non uno, ma ben otto musei del cibo. Non solo cibo e bevande, ma anche spazi mozzafiato fuori dalle principali rotte turistiche: non a caso, infatti, i musei del cibo sono dispersi per la campagna parmense e hanno sede nei sotterranei di castelli (come il Museo del Salame di Felino), antiche corti (come il Museo del Culatello di Zibello) oppure in vecchi caseifici (come il Museo del Parmigiano Reggiano). Insigniti del premio Food Travel Award 2021, i Musei del Cibo sono considerati la migliore destinazione enogastronomica in Italia.
Museo del Parmigiano Reggiano
Il Museo del Parmigiano Reggiano ha sede nel complesso Castellazzi, una delle più preziose pertinenze del castello Meli-Lupi di Soragna. Un complesso di origine settecentesca composto dalla casa colonica che mantiene intatta una splendida stalla e a lato il prezioso caseificio di forma circolare, con a margine edifici minori quali rustici e ricoveri per attrezzi. L’antico caseificio è stato prescelto per divenire sede del Museo per la particolare conformazione della struttura a pianta circolare con un locale unico, dotato di tutti gli strumenti e gli attrezzi anticamente impiegati per la lavorazione del formaggio.
Il Parmigiano Reggiano è un inno alla tradizione, a differenza di altri formaggi blasonato non può essere “fabbricato” industrialmente, ma lo si fa solo con le mani esperte del casaro. L’unica differenza fra un Parmigiano Reggiano del XIII secolo e una forma attuale è nel controllo qualità che, grazie al Consorzio di Tutela preposto a questo D.O.P., assicura il rispetto di rigidi capitolati di produzione. Alle mucche da latte della zona tipica del Parmigiano Reggiano – Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna e Mantova – è riservata una dieta esclusiva di foraggi selezionati provenienti dai pascoli della zona: ecco l’elemento di spicco che contraddistingue la qualità di questo formaggio. La seconda peculiarità del Parmigiano reggiano è che, a differenza di quasi tutti gli altri formaggi, non contiene assolutamente conservanti. Fantastico, no?
Museo della Pasta
Presso la stupenda corte agricola medievale di Giarola, posta sulla sponda destra del fiume Taro, in asse con quella Via Francigena che conduceva i pellegrini verso la Città eterna, a fianco del già esistente Museo del Pomodoro, viene allestito il Museo della Pasta. La pasta secca di semola di grano duro, di origine mediorientale, ha trovato in Italia la patria d’elezione, sviluppandosi nei secoli in diverse aree del Paese: in Sicilia, in Liguria, a Napoli, a Bologna. Nell’Ottocento inizia a Parma l’attività di Barilla, oggi leader mondiale del settore, che ha contribuito in maniera determinante alla nascita del museo dedicato in sei sezioni, alla conoscenza storica, tecnologica e culturale della pasta.
Museo del Pomodoro
Situato accanto al Museo della Pasta, anche il Museo del Pomodoro si trova presso la Corte di Giarola. Giarola sorge sulla riva destra del Taro all’incirca a metà strada tra Fornovo e Pontetaro. Il significato e l’origine del toponimo sono di facile decifrabilità: Glarola, cioè la ghiaietta del Taro, in epoca romana o altomedievale.
Fino a tutto il Rinascimento le salse, a base di pane, aceto, vino e abbondanti spezie, avevano una uniforme colorazione bruna. Ma nel corso del Seicento, nella grande cucina di Versailles, grazie alla béchamel e alle sue applicazioni, i piatti del Re Sole si tingono di bianco, come bianco sarà il condimento degli spaghetti a Napoli, insaporiti con il Parmigiano grattugiato e resi più appetitosi da una spruzzata di pepe nero, quasi ad imitare il cono del Vesuvio. Sarà il pomodoro a cambiare – e per sempre – colori, sapori e profumi della cucina di molti Paesi. Un cambiamento, tuttavia, lento e discreto, che deve il suo esordio all’arrivo della rossa bacca in Europa sulle navi dei conquistatori spagnoli al seguito di Hernán Cortès di ritorno dalle Americhe.
L’incontro fra “Maccheroni e Pommarola” è fortunato ma non decisivo: parallelamente alla pasta, il pomodoro conquista anche la pizza. Nel 1835 Alexandre Dumas (1802-1870) descriveva vari tipi di pizza, quasi tutti ancora “in bianco”: con olio e aglio, con pesciolini e, variante minore, col pomodoro. Una ventina d’anni più tardi il napoletano Emanuele Rocco conferma questa ricetta, aggiungendo la mozzarella, abbinando prosciutto e pomodoro. La conquista si estende ovunque, a segnare di rosso quella che nel 1950 verrà definita “Dieta Mediterranea”: la Spagna propone, con il Gazpacho, una zuppa fredda con pomodoro e la Provenza fa delle Tomates un simbolo gastronomico.
Museo del Vino
La “Cantina dei Musei del Cibo” è allestita al centro di una zona vocata da secoli alla produzione vitivinicola, nelle suggestive cantine della Rocca di Sala Baganza. Un percorso espositivo e sensoriale, inserito nel più ampio circuito dei Musei del Cibo della provincia di Parma interamente dedicato al vino di Parma, alla sua storia e alla sua cultura.
La prima sala, allestita in collaborazione con il Museo Archeologico Nazionale, è dedicata alla archeologia del vino nel parmense, con oggetti e immagini provenienti dagli scavi del territorio, che testimoniano come sia nato proprio in questa zona, introdotto dalle popolazioni celtiche, il modo “moderno” di bere il vino, abbandonando l’uso greco e latino di vini annacquati e speziati.
La seconda sala approfondisce gli aspetti legati alle caratteristiche della pianta della vite e alla viticultura presentando anche attrezzi e oggetti d’uso del secolo scorso e un filmato sulla tecnica della vite “maritata” agli alberi in filari, tipica della zona. La terza sala racconta, attraverso attrezzi e oggetti antichi, la vendemmia e la preparazione del vino.
Nella ghiacciaia rinascimentale immagini a 360° raccontano il ruolo della vite e del vino nel rito, nella storia e nell’arte, immersi in una cultura millenaria ricca di tradizioni. Nella sala delle botti invece si scopre la storia dei contenitori per il vino e dei mestieri ad essi correlati: il vetraio e il bottaio, ma si approfondisce anche la storia del tappo in sughero e del cavatappi, quella poco nota dell’etichetta e per conoscere le “parole chiave” legate al vino. Infine, la sesta sala presenta i frutti della viticultura parmense: i pionieri del settore, le varietà coltivate, i vini prodotti, perfetti per essere abbinati al formaggio e ai salumi d’eccellenza del territorio, le cantine da visitare nella zona, il ruolo del Consorzio dei Vini dei Colli di Parma a salvaguardia della qualità di un prodotto in continua crescita.
Museo del Salame di Felino
Il Museo del Salame di Felino, ubicato nel meraviglioso Castello di Felino, è testimone del rapporto privilegiato instaurato nel tempo tra il prodotto unico che conosciamo e il suo territorio d’origine. Felino rende così omaggio al suo “figlio” più amato, la cui storia è finalmente a degna dimora nei magnifici locali settecenteschi delle cantine del castello di Felino.
Il Museo rappresenta un’occasione per far conoscere ed apprezzare non semplicemente l’essenza di quello che è stato definito il principe dei salami, ma il territorio e la comunità di cui è espressione, a partire dalla qualità delle materie prime fino alla sapienza delle mani che continuano a lavorarlo.
Per Felino, l’assoluta simbiosi con il maiale e la sua storia risale all’età del bronzo, come documentano i frammenti ossei rinvenuti tra i reperti del villaggio terramaricolo di Monte Leoni, situato sulle colline che sovrastano il paese. In particolare, il primo documento relativo al Salame rintracciato a Parma risale al 1436, quando Niccolò Piccinino, condottiero al soldo del duca di Milano che qui aveva una delle sue basi operative, ordinò che gli si procurassero ‘porchos viginti a carnibus pro sallamine’, ovvero venti maiali per fare salami. Nell’Ottocento l’allevamento suino iniziò a concentrarsi presso i caseifici del territorio: Felino si orientò decisamente verso la trasformazione della carne più che sull’allevamento dei maiali, tanto che all’epoca in paese erano registrati più produttori di salumi che in ogni altro comune del parmense. In questo stesso periodo i salumi parmigiani erano anche inviati in Lombardia: è attorno al 1897 che a Milano il salame genericamente definito di “Parma” verrà dichiarato “di Felino”, a sottolineare la sua qualità di prodotto preparato con maiali di montagna nutriti con ghiande.
Museo del Prosciutto di Parma
Il Museo del Prosciutto e dei salumi parmigiani ha la sua sede a Langhirano, patria d’elezione del Prosciutto di Parma, nella vasta struttura dell’ex Foro Boario. L’area oggi occupata dal Foro Boario è il risultato di un intervento urbanistico dei primi decenni del Novecento, finalizzato alla regimentazione dell’alveo del torrente Parma e alla costruzione del muro di difesa dell’abitato.
La fama del Prosciutto di Parma, esclusiva specialità dei Lardaroli Parmensi, affonda le sue radici in tempi ancor più lontani, all’epoca romana. Parma, allora situata nel cuore di quella che era la Gallia Cisalpina, era rinomata, come ricorda Varrone nel De Re Rustica, per l’attività dei suoi abitanti che allevavano grandi mandrie di porci ed erano particolarmente abili nel produrre prosciutti salati. Lo stesso Catone delinea già nel II secolo a. C., nel suo De Agri Coltura la tecnologia di produzione, sostanzialmente identica all’attuale. Riferimenti gastronomici al Prosciutto di Parma si trovano nel Libro de Cocina della seconda metà del Trecento, nel menù delle nozze Colonna del 1589, nel prezioso testo del Nascia, cuoco di Ranuccio Farnese nella seconda metà del XVII secolo. Il Prosciutto fa capolino tra le rime del Tassoni e nei consigli dietetici del medico bolognese Pisanelli.
La denominazione di Prosciutto di Parma è attribuita in relazione alla zona di origine degli animali (Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Toscana, Umbria, Marche, Lazio Abruzzo, Molise) unita alle inimitabili condizioni microclimatiche ed ambientali di una delimitata area collinare della provincia di Parma, dovute all’azione dell’aria che giunge dal mare della Versilia e che, addolcendosi tra gli uliveti e le pinete della Val di Magra, asciugandosi ai passi appenninici ed arricchendosi del profumo dei castagni, arriva a prosciugare i Prosciutti di Parma e a renderne la dolcezza esclusiva.
A salvaguardia della qualità delle materie prime e dell’osservanza delle scrupolose norme di lavorazione, nel 1963 è sorto il Consorzio del Prosciutto di Parma incaricato dallo Stato, con provvedimento del 3 luglio 1978, di esercitare il controllo sul prodotto e di garantirne la corrispondenza con gli standard richiesti dal disciplinare, attraverso l’apposizione del noto marchio con la corona sulla cotenna delle cosce. Il Consorzio, che svolge anche funzione di promozione e valorizzazione del prodotto, è stato riconosciuto in ambito europeo ed è abilitato alle operazioni di controllo anche da Paesi terzi, come gli USA. Il Prosciutto di Parma è stato insignito del marchio di Denominazione di Origine Protetta DOP della Comunità Europea.
Museo del Culatello di Zibello
Alla metà del XIII secolo Uberto Pallavicino detto il Grande, Vicario Imperiale per la Lombardia, dopo aver ricevuto l’investitura del feudo di Polesine, ordina la costruzione di una fortificazione per il controllo militare del porto sul Po, l’esazione dei dazi e la custodia del sale proveniente dalle saline di Salsomaggiore. La fortificazione sorge proprio dove si trova oggi il Palazzo delle due torri. Successivamente Rolando Pallavicino “il Magnifico”, invece di restaurarla, erige una nuova rocca, meglio munita e più vicina al fiume. Negli anni Ottanta del Novecento però, dopo anni di vicissitudini non sempre felici per l’immobile, il degrado è tale che la proprietà decide di venderlo. Viene acquistato nel gennaio 1991 dai fratelli Spigaroli – in omaggio alle tre generazioni della famiglia succedutesi sul podere – che iniziano i lavori di restauro e restituiscono la dignità perduta a questa antica residenza Pallavicina ricca di storia e di fascino.
Si narra che già nel 1332, al banchetto di nozze di Andrea dei Conti Rossi e Giovanna dei Conti Sanvitale, si facessero apprezzare alcuni Culatelli recati in dono agli sposi e che, più avanti, i Pallavicino avessero offerto omaggi di Culatello a Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano.
È certo che la “nascita” del culatello sia da collegare strettamente alla costituzione del feudo dei Pallavicino, che governarono i territori di Busseto, Zibello e Polesine dal 1249 fino all’epoca napoleonica, per più di mezzo millennio e che favorirono l’agricoltura e l’allevamento dei suini. Non è un caso che i colori argento e rosso del loro blasone siano stati oggi ripresi nel marchio del Consorzio di tutela del Culatello di Zibello.
Museo del Fungo Porcino di Borgotaro
L’ottavo e ultimo Museo del Cibo è dedicato al Fungo Porcino di Borgotaro. Fin dalla preistoria – come testimoniato dai reperti conservati al Museo Archeologico di Parma – i funghi entrano nell’alimentazione del popolo delle Terramare. I funghi erano conosciuti per le loro caratteristiche organolettiche già nell’antica Roma dove se ne faceva largo consumo, in particolare nei banchetti imperiali dei “Cesari”. Ne è prova il nome di Amanita Caesarea attribuito all’ovulo buono, considerato fin da allora fra i più prelibati.
Anche il Porcino di Borgotaro vanta una fama gloriosa in cucina, apprezzato dai duchi Farnese e impiegato magistralmente dal cuoco Carlo Nascia (XVII-XVIII sec.) nel trattato Li quattro banchetti alla Corte di Parma.
I Boleti sono oggetto di commercio con l’estero, pratica che è ancora ben presente sul finire dell’Ottocento, ad opera dei numerosi montanari costretti ad emigrare verso l’America o l’Inghilterra. I Porcini sono una risorsa per l’economia: le donne li raccolgono e li vendono freschi o secchi ai paesi vicini. Del 1893 è il libro di Tommaso Grilli Manipolo di cognizioni con cenni storici di Albareto di Borgotaro, nel quale si parla in maniera diffusa di raccolta e produzione di funghi: «quando comparisce questo vegetale carnoso, quasi tutte le famiglie vi attendono per raccoglierne quanto più possono con tutta la cura; e tagliato in fette sottili lo fanno seccare al sole, oppure al calore della fiamma del fuoco nelle cucine, e dopo lo vendono per lo più ai mercanti di Tarsogno che lo trasportano a Genova». Alla fine dell’Ottocento a Borgo Val di Taro prima il dr. Colombo Calzolari e poi Lazzaro Bruschi iniziarono l’attività di lavorazione – secco, sott’olio e fresco – e commercializzazione dei Porcini.
Nel 1928 venne pubblicato a Borgo Val di Taro il regolamento per il mercato dei funghi, probabilmente il primo in Italia. Anche a Bedonia nel 1920 ha inizio con buoni risultati e per molti anni l’attività di lavorazione di funghi Porcini conservati presso la ditta “La Mirtillo”, voluta da Primo Lagasi con la collaborazione di Colombo Calzolari. Nel 1964 il Consorzio delle Comunalie Parmensi istituiva una riserva per la raccolta sostenibile dei funghi. Il riconoscimento di Indicazione Geografica protetta giunse nel 1996.
L’interesse per questo alimento è ad oggi sempre molto vivo, sia per il pregio dei suoi profumi e sapori che per la sua importanza gastronomica, valorizzata dai ristoranti del territorio.
Le immagini e molte delle informazioni sono prese dal sito ufficiale dei Musei del Cibo della Provincia di Parma.
Gaia Rossetti
Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.