Attilio Bertolucci: fra impressionismo e memoria
Attilio Bertolucci, poeta emiliano, suscita col proprio stile conto, ma limpido, stupore se rapportato alla crudità del Novecento, il secolo orribile.
La voce di Attilio Bertolucci si segnala per una delicatezza disarmante che ai più, immersi nell’epoca della retorica pomposa del consumismo e del fallace eroismo, resta impercettibile, nonché scomoda.
Esordi e poetica
Attilio Bertolucci nacque vicino a Parma il 18 novembre 1911, dopo la laurea in lettere a Bologna comincia ad insegnare storia dell’arte e a dirigere una collana di opere straniere tradotte in Italia.
La voce poetica si manifesta assai precocemente, se si tiene conto che la prima raccolta, Sirio, venne pubblicata già nel 1929, all’età di diciotto anni. E proprio dal ‘29 occorrerebbe partire per comprendere le implicazioni della poesia di Bertolucci sul seculum horribile del Novecento: dalla crisi del ‘29 al montare dei totalitarismi fino alla Seconda guerra mondiale, lo sguardo di Bertolucci si staglia su un universo governato dall’insensatezza e dalla violenza cui il poeta stesso oppone una poesia nitida, raffinatamente semplice, dimessa, dal taglio descrittivo e che rifugge toni fastosi.
In La rosa bianca, tratta dalla raccolta La capanna indiana (1951), Bertolucci scrive:
Coglierò per te
l’ultima rosa del giardino,
la rosa bianca che fiorisce
nelle prime nebbie.
Le avide api l’hanno visitata
sino a ieri,
ma è ancora così dolce
che fa tremare.
È un ritratto di te a trent’anni,
un po’ smemorata, come tu sarai allora.
Le nebbie della poesia rimandano al paesaggio tipico della pianura Padana cui Bertolucci fu tanto avvezzo: gli elementi naturali, dalla rosa bianca alle api avide, si saldano perfettamente nella lirica dal tono lirico e impressionistico, marcando un tratto costante della poesia di Bertolucci; a ben vedere, gli ambienti domestici, le atmosfere contadine e campagnole fanno da sfondo ad uno sguardo acuto e scrutatore alla ricerca di marche elegiache, ricollegandosi alle linee già tracciate da Pascoli e Saba.
Il secondo dopoguerra
La poetica di Bertolucci subisce, nel secondo dopoguerra, un drastico cambiamento dettato dallo scorrere della Storia cui nulla può opporsi: se in un primo momento gli ambienti dimessi possono rappresentare una protezione, un’alcova ideale di riposo dell’animo, con l’inizio dell’era consumistica, che raggiunge il suo apice fra anni Sessanta e Settanta, la semplicità e primigenia essenza del mondo rurale padano si dissolve di fronte alla mesta sensazione di disgregazione.
Nella descrizione impressionistica della natura fa capolino un certo sentore di negatività che acuisce lacerazioni latenti, già esacerbate dal suo trasferimento a Roma, città avvertita estranea alla propria intima essenza di poeta:
Non posso più scrivere né vivere
se quest’anno la neve che si scioglie
non mi avrà testimone impaziente
di sentire nell’aria prime viole.
Nella prima strofa di Pensieri di casa, tratta dalla raccolta In un tempo incerto (1955), la condizione esistenziale è strettamente connessa all’attività della scrittura. E la scrittura di Bertolucci trae la propria ispirazione proprio da quelle nevi periture annunciatrici della primavera: è chiaro il rimando al paesaggio padano, avvertito tuttavia lontano, sia geograficamente in quanto negli anni ‘50 Bertolucci si trasferì a Roma, sia sentimentalmente: una sensazione di finitudine inevitabile aleggia sulla poetica del poeta emiliano, il quale si rifugia oramai nella memoria, ultima spiaggia di una morte figurata presagita:
Come se fossi morto mi ricordo
la nostra primavera (…).