Ho sceso dandoti il braccio: una dolce ed eterna unione

Ho sceso dandoti il braccio: una dolce ed eterna unione

Ho sceso dandoti il braccio: una dolce ed eterna unione

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale è forse uno dei testi più profondi e toccanti di Eugenio Montale. Attraverso un delicato dettato ad essere descritta è la profondità di un’unione che oltrepassa i limiti del tempo e della vita. Due amanti si danno il braccio e più segretamente le loro anime si intersecano e fondono.

Dedicata a “Mosca”

Appartiene a Xenia, raccolta pubblicata nel 1971 da Eugenio Montale, il testo di Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale. Si tratta di un componimento breve e caratterizzato da una spiccata sensibilità. Fu dedicato a Drusilla Tanzi, meglio nota nei testi di più affettuoso slancio dell’autore con l’appellativo di “Mosca”, per via della miopia di cui era affetta e degli occhiali dalle spesse lenti che era costretta a portare. Il componimento fornisce al lettore una fugace ma vivida immagine: quella del poeta e della donna che insieme tenendosi per braccio scendono il numero iperbolico di almeno un milione di scale. È il poeta che aiuta la donna nella discesa che, per via della propria miopia, fatica nella messa a fuoco del percorso fisico. È un gesto dolce e cavalleresco quello compiuto da Montale, che attesta una profonda unione che lo lega alla donna: nel gesto altruistico ti tendere il braccio sta l’amorevole invito a compiere una vita insieme. Le scale da percorrere sono infatti le “scale della vita”, metafora di un percorso lungo e talvolta tortuoso che viene affrontato sulla scorta del reciproco rapporto di sostegno che regge la coppia. Tuttavia il verbo ho sceso delinea una condizione passata: Drusilla infatti non c’è più (morì nell’ottobre del 1963), di lei resta solo il ricordo e la devozione che l’uomo le deve.

Uno sguardo pessimistico

Se infatti la donna fatica nella messa a fuoco del percorso concreto, molto più lucido sembra lo sguardo di lei sulle cose del mondo. La realtà non è infatti solo quella che si vede, è qualcosa che va oltre i contorni fisici. Le pupille sebbene offuscate della donna erano le uniche per il poeta capaci di vedere davvero. Vedere cosa? La realtà è un ente effimero e inconsistente agli occhi del poeta, insondabile a pieno, ed è l’acutezza della donna che la distingue dagli altri e rende oggetto di venerazione da parte di colui che l’ama.

Drusilla è concepita da Montale come una sorta di guida interiore, in possesso di un più penetrante sguardo sul reale. Tuttavia è proprio la presente assenza della donna a rendere la condizione del poeta ancora più desolante: Xenia si articola infatti intorno alla percezione da parte dell’uomo della solitudine dell’esistere e dell’insondabilità del mondo. Gli “xenia” costituivano nell’Antica Grecia i “doni fatti all’ospite”, la raccolta è anch’essa un dono fatto alla donna per omaggiarla e innalzarla a figura-guida. Sulla scorta della concezione dantesca di una funzione salvifica della donna, allo stesso modo Mosca si era resa salvezza per il poeta e strumento di superamento di un senso di vuoto, solitudine e disorientamento, nella comune scelta di un cammino di vita insieme.

Una comunicativa semplicità

È una dichiarazione d’amore quella di Montale ora che, senza la donna, a ogni gradino vede soltanto il vuoto. Nessuna immagine sublimatrice è presente nel testo, è la dimensione della quotidianità a dominare. L’immagine classica del viaggio come metafora della vita è resa attraverso un lessico semplice, piano e quotidiano. Non c’è più ricerca di ermetismo o complessità di dettato, è nell’andamento colloquiale del discorso che il poeta trova la possibilità di esprimere un senso che va oltre i confini dell’esistere. Il poeta si rivolge infatti a un “tu” che non ha più nulla da spartire con il mondo terreno, eppure c’è ancora qualcosa da dire. Ciò che ancora non è stato espresso è un senso di tristezza, quasi un messaggio mai pronunciato dal vivo che impone ora il bisogno di essere comunicato.

Quello di Eugenio Montale in Ho sceso dandoti il braccio è un grido di malinconia e gesto di ringraziamento: la donna nel suo essergli stato accanto si è resa compagna di un percorso che ora, suo malgrado, il poeta dovrà condurre solo.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Paul Gauguin, l’arte capace di accettare l’inesorabile decorso dell’esistenza umana

Paul Gauguin, l’arte capace di accettare l’inesorabile decorso dell’esistenza umana

Paul Gauguin, l’arte capace di accettare l’inesorabile decorso dell’esistenza umana 

Conosciuto per la bellezza innocente delle sue donne polinesiane, Paul Gauguin seppe coniugare nella sua arte amore per la vita e accettazione della condizione terrena. Punte di spiritualismo e colori vividi descrivono un percorso interiore in costante equilibrio tra sentimento e lucida analisi.

Paul Gauguin ricorre a tre lapidarie domande esistenziali per dare il titolo a ciò che è messa in scena di un ciclo di esistenza universalmente condiviso e al contempo testamento spirituale di un artista.

La lettura, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, comincia a partire dalla sezione destra della tela. È posta una prima domanda: Da dove veniamo? Un bambino dorme, il suo sonno è spensierato e privo di angosce, due donne vegliano su di lui. Poco più indietro, una figura accovacciata si volta con sguardo attonito verso due giovani assorte nel riflettere, forse sul loro destino. Ma ecco che incalza una nuova domanda: Chi siamo? Al centro della scena, un giovane nel pieno del vigore della giovinezza, raccoglie un frutto, carpendo con esso i piaceri della vita. Il balzo è rapido, perché segue immediato un ultimo e più doloroso interrogativo: Dove andiamo? Un’anziana donna tiene tra le mani il volto, la carnagione è spenta, accanto a lei siede una giovane. Forte è il contrasto tra due distinte età della vita. L’anziana tuttavia accetta il proprio destino, futili sarebbero vuote parole consolatorie, la cui inutilità è ben resa dall’uccello bianco che trattiene inesorabilmente tra le zampe una lucertola. Dietro di loro sta Hina, dea lunare polinesiana simbolo di femminilità e vitalistica creatività.

Dodici figure si distribuiscono complessivamente sulla scena di Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? secondo un perfetto equilibrio di disposizione che contrappone e accosta insieme le diverse età della vita.
Sullo sfondo dai toni magico-religiosi si interseca un simbolismo che in parte si rifà a riferimenti biblici. Il giovane al centro coglie un frutto, il suo gesto evoca alla mente quello compiuto da Eva nel giardino dell’Eden. In parte attinge dal primitivismo di realtà incontaminate come la Polinesia e l’isola di Giava, come evidenzia sullo sfondo la figura a petto nudo di Hina.
Realizzata intorno al 1897 su tela, l’opera Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? si configura come una ricerca di spiritualità priva di adesione mimetica alla realtà.
Scrive Gauguin:
«Prima di morire ho trasmesso in questo quadro tutta la mia energia, una così dolorosa passione in circostanze così tremende, una visione così chiara e precisa che non c’è traccia di precocità e la vita ne sgorga fuori direttamente».
L’opera manca di prospettiva geometrica. In primo piano stanno i colori più caldi, un giallo acceso contrasta ai blu, verde e azzurro dello sfondo. Manca il chiaroscuro. La tecnica adottata prende il nome di cloissoniste: zone di colori intensi sono delimitate da nette linee di contorno.

Testamento spirituale di Gauguin, l’opera ne assomma i principali motivi stilistici ed espressivi, summa di un’arte antinaturalisita per eccellenza, precorritrice di Simbolismo, Fauvismo ed Espressionismo primonovecenteschi. Si tratta di un modo di fare pittura marcatamente soggettivistico. Gauguin elabora uno stile che fa del colore uno strumento evocativo di sentimenti ed emozioni. Su quella linea diventata nota come post-impressionismo, l’opera d’arte riproduce la natura non per come è vista, ma per come è sentita dall’autore. Il colore e le immagini diventano esternazione rielaborata dell’interiorità dell’artista, acquistano un potere evocativo capace di esprimere un’acuta sensibilità.

Gauguin desidera evadere dalla società per ritrovare un mondo più puro e incontaminato. Convinto del fatto che la vita moderna arrechi all’uomo un disagio esistenziale, questi ormai assorbito dal caos della modernità, assiste a uno sgretolarsi di ogni rapporto autentico e profondo.
Questa percezione, fortemente sentita dall’artista, ne giustifica la fuga verso una civiltà incorrotta quale era quella della Polinesia.
Nato a Parigi nel 1848, Paul Gauguin trascorre i primi anni della sua infanzia in Perù. Tornato in Europa, ha contatti con l’Impressionismo e stringe in particolare amicizia con Vincent Van Gogh con il quale trascorre un lungo periodo ad Arles. Un rapido susseguirsi di eventi quali la rottura con Vincent, le crescenti difficoltà economiche e la morte della figlia Aline, spingono l’artista a scegliere di abbandonare definitivamente l’Europa alla volta della Polinesia. Qui trascorrerà il resto della propria vita sino al 1903, dove muore nel carcere dell’isola di Hiva Oa, dopo essersi opposto alla politica razzista allora vigente.

Quella di Paul Gauguin è un’arte permeata di simbolismo, evocatività, bisogno di evasione e capacità di riflessione. Un mondo riprodotto con lo sguardo di chi in grado di osservare al di là dell’apparenza, rielabora i contorni della realtà attingendo alla superficie più profonda della propria interiorità.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.