Quando la gastronomia fa la storia: l’Unesco e il cibo italiano

Quando la gastronomia fa la storia: l’Unesco e il cibo italiano

Quando la gastronomia fa la storia: i patrimoni Unesco legati al cibo italiano

Se sono le nostre azioni a determinare chi siamo, allora è altrettanto vero che “siamo ciò che mangiamo”. L’Unesco lo sa e ha inserito questi elementi dell’italianità nella lista dei suoi patrimoni.

I siti patrimonio Unesco nel mondo sono 1.067 e l’Italia, con ben 54 targhe, detiene il primato assoluto superando la Cina e la Spagna. Un record che ci fa onore e che tiene conto di una parte fondamentale della nostra cultura: l’alimentazione. O meglio, la ritualità a essa legata. Ebbene sì, perché non basta una pietanza a far alzare le orecchie all’Unesco, ma tutto il suo contorno. L’Organizzazione annovera in questa lista le tradizioni, le espressioni orali, l’arte e l’artigianato locali che esprimono il genius loci di un determinato angolo del mondo e tutte quelle attività che ne favoriscono l’affermazione, la trasmissione e la conservazione. Azioni umane distintive di un luogo e una cultura, in poche parole. Vediamo allora quali sono le eredità italiane patrimonio immateriale dell’umanità.

L’arte del “pizzaiuolo” napoletano

L’arte del pizzaiolo napoletano era stata oggetto di una petizione nel 2015 e due anni dopo si è conquistata l’ambito riconoscimento. Una tradizione trasmessa da maestro ad apprendista all’interno delle botteghe, oltre che molto diffusa a livello domestico, e che ha una precisa funzione sociale di aggregazione e condivisione. Il sito dell’Unesco sostiene che “la preparazione della pizza alimenta la convivialità e lo scambio intergenerazionale e assume il carattere di spettacolarizzazione con il Pizzaiuolo al centro della bottega mentre mostra la sua arte”.

Sono oltre tremila i pizzaioli attivi oggi a Napoli e Coldiretti stima che l’ingresso dell’arte della pizza nell’elenco delle Nazioni Unite abbia contribuito sensibilmente all’aumento della produzione del fatturato legati a questo prodotto: dopo il riconoscimento Unesco, infatti, si contano 127mila pizzerie rispetto alle 125.300 censite nel 2015.

La coltivazione della vite di Zibibbo ad alberello di Pantelleria

La vite ad alberello è parte integrante del paesaggio tipico dell’isola siciliana di Pantelleria, esattamente come lo sono le spiagge rocciose e i famosi dummusi, le abitazioni in pietra. Diretta conseguenza del clima fatto di sole, vento forte e scarse risorse idriche, la coltivazione della vite dello Zibibbo da cui si ricavano i celeberrimi passiti di Pantelleria segue ancora oggi la tecnica antica ed è celebrata da riti e festeggiamenti che animano l’isola da giugno a settembre.

Il procedimento prevede che lo stelo della vite venga piantato all’interno di una conca e accuratamente tagliato affinché produca sei rami in forma di alberello. Tenuto basso da una buona potatura, questo arbusto viene protetto da terrazzamenti di pietra: la stessa pietra che viene rimossa dal suolo prima della piantagione. Un metodo di coltivazione sostenibile che coinvolge circa 5mila abitanti e che nel 2014 è stato ufficialmente dichiarato patrimonio culturale dell’umanità.

La dieta mediterranea

L’iscrizione all’Unesco della dieta mediterranea, modello alimentare e simbolo della tradizione enogastronomica italiana e non solo, risale al 2013. Oltre all’Italia, la dieta mediterranea coinvolge infatti anche altri Paesi come Cipro, la Croazia, la Spagna, la Grecia, il Marocco e il Portogallo. E oltre al cibo – composto principalmente di grano, pesca e allevamento – l’Unesco riconosce alla dieta mediterranea anche il merito della convivialità. Non è solo ciò che si porta in tavola ad essere importante, quanto lo è invece la modalità con cui viene consumato: mangiare tutti insieme è la base per la creazione di un’identità comune, di una socialità estesa che va oltre le barriere di genere, età e provenienza. La dieta mediterranea enfatizza i valori dell’ospitalità, della vicinanza, del dialogo interculturale e della creatività, e un modo di vivere guidato dal rispetto per la diversità”. In questo caso, quindi, il patrimonio non è nel singolo prodotto, ma nell’esperienza e in quello che porta con sé, compresi il rispetto per la stagionalità degli alimenti e la tutela di usanze e tradizioni artigiane correlate (come, ad esempio, quella della produzione ceramica di piatti e oggetti da cucina).

Langhe-Roero e Monferrato: i paesaggi vitivinicoli del Piemonte

Culla del vino rosso per eccellenza, quest’area conserva ancora oggi il patrimonio della produzione vitivinicola piemontese. Tra i vanti della regione spiccano in particolare il Barolo, il Barbaresco, il Barbera d’Asti e l’Asti Spumante, tutti originali della zona che comprende la Langa del Barolo, il Castello di Grinzane Cavour, le colline del Barbaresco e il Monferrato con i tipici infernòt, locali sotterranei scavati nella roccia arenaria e destinati alla conservazione delle bottiglie. Una concentrazione di tradizione e gusto che trova anche nel paesaggio conferma della sua ricchezza: dolci colline ricoperte di vigne costellate da torri e castelli medievali, l’incontro perfetto tra storia, natura e artigianato.

La città di Parma, prima italiana nella rete delle città Unesco

La rete delle città creative dell’Unesco – divisa nei sette settori culturali di Musica, Letteratura, Artigianato e Arte popolare, Design, Media Arts, Cinema e Gastronomia – è stata fondata nel 2004 con l’obiettivo di incentivare la collaborazione tra i comuni più virtuosi per uno sviluppo urbano sostenibile. Sono settantadue i paesi che rientrano nella rete e l’Italia può contare su due città afferenti all’area della gastronomia, in cui il cibo diventa fattore e motore di impresa e la sua cultura è al centro delle politiche di crescita locale.

La prima è Parma, in un certo senso la patria del cibo italiano patrimonio dell’Unesco. La città emiliana è stata identificata come sede di un’eccellenza e di un patrimonio agroalimentari unici, salvaguardati e raccontati dall’imprenditoria locale. Sono le aziende come Barilla, Mutti, Parmalat e dai vari consorzi del Parmigiano, del Prosciutto e del Culatello a ottenere di recente che fosse proprio Parma la sede del IV Forum dell’Unesco sulla cultura alimentare.

Alba, la città del tartufo bianco e delle nocciole

Anche Alba fa parte del network delle città creative Unesco per la sua ricca tradizione enogastronomica. Tre i prodotti simbolo della capitale delle Langhe:

  • Il tartufo bianco d’Alba, per cui è nota in tutta il mondo e che attira visitatori sia dall’Italia che dall’estero;
  • Le nocciole piemontesi, con cui vengono create numerose specialità locali a cominciare dal gianduiotto fino al torrone, passando per la Nutella;
  • La toma, formaggio tipico delle Langhe che ben si accompagna ai numerosi vini locali, simbolo dell’arte casearia che caratterizza tutta la zona.

Non stupisce, quindi, che la regione in cui sono nate esperienze come quella di Slow Food e dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo sia sinonimo di creatività e innovazione culinaria.

E ora?

La lista dei cibi e delle tradizioni italiane legate all’Unesco non può certo terminare qui. Non a caso, siamo ancora in attesa del verdetto sul prosecco, candidato di recente come possibile Patrimonio dell’Umanità: la bollicina presenterebbe infatti tutti i requisiti per essere inclusa nella lista, grazie alla riqualifica del territorio e all’economia veneta avvenute con il nascere di questa produzione.

Prosecco, ma non solo. È stato avviato anche un progetto per il riconoscimento dell’amatriciana, una delle ricette più dibattute degli ultimi tempi, nonché il faro di speranza per la popolazione colpita dal terremoto tra 2016 e 2017. Lo stesso varrebbe per il caffè espresso, poiché in Italia se ne consumano tre miliardi di tazzine al giorno, la filiera dà lavoro a 10.000 addetti e vale 5 miliardi di euro. Tre realtà che ci rendono orgogliosi di ciò che siamo, ma soprattutto di quello che mangiamo.

di Gaia Rossetti

I Musei del Cibo di Parma: guida all’enogastronomia emiliana

I Musei del Cibo di Parma: guida all’enogastronomia emiliana

I musei del cibo di Parma: guida all’enogastronomia emiliana

La patria della gastronomia italiana celebra la sua cultura con otto musei del cibo. La guida definitiva per scovarli e apprezzarli.

Salumi, formaggi, vino e pasta fresca sono gli alimenti a cui pensiamo immediatamente quando ci viene citata l’Emilia Romagna. Gli emiliani lo sanno bene e per celebrare la propria cultura enogastronomica sono stati progettati nel 2000 dall’Amministrazione Provinciale di Parma ­– città UNESCO della gastronomia ­– non uno, ma ben otto musei del cibo. Non solo cibo e bevande, ma anche spazi mozzafiato fuori dalle principali rotte turistiche: non a caso, infatti, i musei del cibo sono dispersi per la campagna parmense e hanno sede nei sotterranei di castelli (come il Museo del Salame di Felino), antiche corti (come il Museo del Culatello di Zibello) oppure in vecchi caseifici (come il Museo del Parmigiano Reggiano). Insigniti del premio Food Travel Award 2021, i Musei del Cibo sono considerati la migliore destinazione enogastronomica in Italia.

 

Museo del Parmigiano Reggiano

Il Museo del Parmigiano Reggiano ha sede nel complesso Castellazzi, una delle più preziose pertinenze del castello Meli-Lupi di Soragna. Un complesso di origine settecentesca composto dalla casa colonica che mantiene intatta una splendida stalla e a lato il prezioso caseificio di forma circolare, con a margine edifici minori quali rustici e ricoveri per attrezzi. L’antico caseificio è stato prescelto per divenire sede del Museo per la particolare conformazione della struttura a pianta circolare con un locale unico, dotato di tutti gli strumenti e gli attrezzi anticamente impiegati per la lavorazione del formaggio.
Il Parmigiano Reggiano è un inno alla tradizione, a differenza di altri formaggi blasonato non può essere “fabbricato” industrialmente, ma lo si fa solo con le mani esperte del casaro. L’unica differenza fra un Parmigiano Reggiano del XIII secolo e una forma attuale è nel controllo qualità che, grazie al Consorzio di Tutela preposto a questo D.O.P., assicura il rispetto di rigidi capitolati di produzione. Alle mucche da latte della zona tipica del Parmigiano Reggiano – Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna e Mantova ­– è riservata una dieta esclusiva di foraggi selezionati provenienti dai pascoli della zona: ecco l’elemento di spicco che contraddistingue la qualità di questo formaggio. La seconda peculiarità del Parmigiano reggiano è che, a differenza di quasi tutti gli altri formaggi, non contiene assolutamente conservanti. Fantastico, no?

Il Museo del Parmigiano Reggiano a Soragna

Museo della Pasta

Presso la stupenda corte agricola medievale di Giarola, posta sulla sponda destra del fiume Taro, in asse con quella Via Francigena che conduceva i pellegrini verso la Città eterna, a fianco del già esistente Museo del Pomodoro, viene allestito il Museo della Pasta. La pasta secca di semola di grano duro, di origine mediorientale, ha trovato in Italia la patria d’elezione, sviluppandosi nei secoli in diverse aree del Paese: in Sicilia, in Liguria, a Napoli, a Bologna. Nell’Ottocento inizia a Parma l’attività di Barilla, oggi leader mondiale del settore, che ha contribuito in maniera determinante alla nascita del museo dedicato in sei sezioni, alla conoscenza storica, tecnologica e culturale della pasta.

Il Museo della Pasta nella Corta di Giarola

Museo del Pomodoro

Situato accanto al Museo della Pasta, anche il Museo del Pomodoro si trova presso la Corte di Giarola. Giarola sorge sulla riva destra del Taro all’incirca a metà strada tra Fornovo e Pontetaro. Il significato e l’origine del toponimo sono di facile decifrabilità: Glarola, cioè la ghiaietta del Taro, in epoca romana o altomedievale.
Fino a tutto il Rinascimento le salse, a base di pane, aceto, vino e abbondanti spezie, avevano una uniforme colorazione bruna. Ma nel corso del Seicento, nella grande cucina di Versailles, grazie alla béchamel e alle sue applicazioni, i piatti del Re Sole si tingono di bianco, come bianco sarà il condimento degli spaghetti a Napoli, insaporiti con il Parmigiano grattugiato e resi più appetitosi da una spruzzata di pepe nero, quasi ad imitare il cono del Vesuvio. Sarà il pomodoro a cambiare – e per sempre – colori, sapori e profumi della cucina di molti Paesi. Un cambiamento, tuttavia, lento e discreto, che deve il suo esordio all’arrivo della rossa bacca in Europa sulle navi dei conquistatori spagnoli al seguito di Hernán Cortès di ritorno dalle Americhe.
L’incontro fra “Maccheroni e Pommarola” è fortunato ma non decisivo: parallelamente alla pasta, il pomodoro conquista anche la pizza. Nel 1835 Alexandre Dumas (1802-1870) descriveva vari tipi di pizza, quasi tutti ancora “in bianco”: con olio e aglio, con pesciolini e, variante minore, col pomodoro. Una ventina d’anni più tardi il napoletano Emanuele Rocco conferma questa ricetta, aggiungendo la mozzarella, abbinando prosciutto e pomodoro. La conquista si estende ovunque, a segnare di rosso quella che nel 1950 verrà definita “Dieta Mediterranea”: la Spagna propone, con il Gazpacho, una zuppa fredda con pomodoro e la Provenza fa delle Tomates un simbolo gastronomico.

Il Museo del Pomodoro

Museo del Vino

La “Cantina dei Musei del Cibo” è allestita al centro di una zona vocata da secoli alla produzione vitivinicola, nelle suggestive cantine della Rocca di Sala Baganza. Un percorso espositivo e sensoriale, inserito nel più ampio circuito dei Musei del Cibo della provincia di Parma interamente dedicato al vino di Parma, alla sua storia e alla sua cultura.
La prima sala, allestita in collaborazione con il Museo Archeologico Nazionale, è dedicata alla archeologia del vino nel parmense, con oggetti e immagini provenienti dagli scavi del territorio, che testimoniano come sia nato proprio in questa zona, introdotto dalle popolazioni celtiche, il modo “moderno” di bere il vino, abbandonando l’uso greco e latino di vini annacquati e speziati.
La seconda sala approfondisce gli aspetti legati alle caratteristiche della pianta della vite e alla viticultura presentando anche attrezzi e oggetti d’uso del secolo scorso e un filmato sulla tecnica della vite “maritata” agli alberi in filari, tipica della zona. La terza sala racconta, attraverso attrezzi e oggetti antichi, la vendemmia e la preparazione del vino.
Nella ghiacciaia rinascimentale immagini a 360° raccontano il ruolo della vite e del vino nel rito, nella storia e nell’arte, immersi in una cultura millenaria ricca di tradizioni. Nella sala delle botti invece si scopre la storia dei contenitori per il vino e dei mestieri ad essi correlati: il vetraio e il bottaio, ma si approfondisce anche la storia del tappo in sughero e del cavatappi, quella poco nota dell’etichetta e per conoscere le “parole chiave” legate al vino. Infine, la sesta sala presenta i frutti della viticultura parmense: i pionieri del settore, le varietà coltivate, i vini prodotti, perfetti per essere abbinati al formaggio e ai salumi d’eccellenza del territorio, le cantine da visitare nella zona, il ruolo del Consorzio dei Vini dei Colli di Parma a salvaguardia della qualità di un prodotto in continua crescita.

Museo del Salame di Felino

Il Museo del Salame di Felino, ubicato nel meraviglioso Castello di Felino, è testimone del rapporto privilegiato instaurato nel tempo tra il prodotto unico che conosciamo e il suo territorio d’origine. Felino rende così omaggio al suo “figlio” più amato, la cui storia è finalmente a degna dimora nei magnifici locali settecenteschi delle cantine del castello di Felino.
Il Museo rappresenta un’occasione per far conoscere ed apprezzare non semplicemente l’essenza di quello che è stato definito il principe dei salami, ma il territorio e la comunità di cui è espressione, a partire dalla qualità delle materie prime fino alla sapienza delle mani che continuano a lavorarlo.
Per Felino, l’assoluta simbiosi con il maiale e la sua storia risale all’età del bronzo, come documentano i frammenti ossei rinvenuti tra i reperti del villaggio terramaricolo di Monte Leoni, situato sulle colline che sovrastano il paese. In particolare, il primo documento relativo al Salame rintracciato a Parma risale al 1436, quando Niccolò Piccinino, condottiero al soldo del duca di Milano che qui aveva una delle sue basi operative, ordinò che gli si procurassero ‘porchos viginti a carnibus pro sallamine’, ovvero venti maiali per fare salami. Nell’Ottocento l’allevamento suino iniziò a concentrarsi presso i caseifici del territorio: Felino si orientò decisamente verso la trasformazione della carne più che sull’allevamento dei maiali, tanto che all’epoca in paese erano registrati più produttori di salumi che in ogni altro comune del parmense. In questo stesso periodo i salumi parmigiani erano anche inviati in Lombardia: è attorno al 1897 che a Milano il salame genericamente definito di “Parma” verrà dichiarato “di Felino”, a sottolineare la sua qualità di prodotto preparato con maiali di montagna nutriti con ghiande.

L’ultima sala del Museo del Salame di Felino

Museo del Prosciutto di Parma

Il Museo del Prosciutto e dei salumi parmigiani ha la sua sede a Langhirano, patria d’elezione del Prosciutto di Parma, nella vasta struttura dell’ex Foro Boario. L’area oggi occupata dal Foro Boario è il risultato di un intervento urbanistico dei primi decenni del Novecento, finalizzato alla regimentazione dell’alveo del torrente Parma e alla costruzione del muro di difesa dell’abitato.
La fama del Prosciutto di Parma, esclusiva specialità dei Lardaroli Parmensi, affonda le sue radici in tempi ancor più lontani, all’epoca romana. Parma, allora situata nel cuore di quella che era la Gallia Cisalpina, era rinomata, come ricorda Varrone nel De Re Rustica, per l’attività dei suoi abitanti che allevavano grandi mandrie di porci ed erano particolarmente abili nel produrre prosciutti salati. Lo stesso Catone delinea già nel II secolo a. C., nel suo De Agri Coltura la tecnologia di produzione, sostanzialmente identica all’attuale. Riferimenti gastronomici al Prosciutto di Parma si trovano nel Libro de Cocina della seconda metà del Trecento, nel menù delle nozze Colonna del 1589, nel prezioso testo del Nascia, cuoco di Ranuccio Farnese nella seconda metà del XVII secolo. Il Prosciutto fa capolino tra le rime del Tassoni e nei consigli dietetici del medico bolognese Pisanelli.
La denominazione di Prosciutto di Parma è attribuita in relazione alla zona di origine degli animali (Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Toscana, Umbria, Marche, Lazio Abruzzo, Molise) unita alle inimitabili condizioni microclimatiche ed ambientali di una delimitata area collinare della provincia di Parma, dovute all’azione dell’aria che giunge dal mare della Versilia e che, addolcendosi tra gli uliveti e le pinete della Val di Magra, asciugandosi ai passi appenninici ed arricchendosi del profumo dei castagni, arriva a prosciugare i Prosciutti di Parma e a renderne la dolcezza esclusiva.
A salvaguardia della qualità delle materie prime e dell’osservanza delle scrupolose norme di lavorazione, nel 1963 è sorto il Consorzio del Prosciutto di Parma incaricato dallo Stato, con provvedimento del 3 luglio 1978, di esercitare il controllo sul prodotto e di garantirne la corrispondenza con gli standard richiesti dal disciplinare, attraverso l’apposizione del noto marchio con la corona sulla cotenna delle cosce. Il Consorzio, che svolge anche funzione di promozione e valorizzazione del prodotto, è stato riconosciuto in ambito europeo ed è abilitato alle operazioni di controllo anche da Paesi terzi, come gli USA. Il Prosciutto di Parma è stato insignito del marchio di Denominazione di Origine Protetta DOP della Comunità Europea.

Museo del Culatello di Zibello

Alla metà del XIII secolo Uberto Pallavicino detto il Grande, Vicario Imperiale per la Lombardia, dopo aver ricevuto l’investitura del feudo di Polesine, ordina la costruzione di una fortificazione per il controllo militare del porto sul Po, l’esazione dei dazi e la custodia del sale proveniente dalle saline di Salsomaggiore. La fortificazione sorge proprio dove si trova oggi il Palazzo delle due torri. Successivamente Rolando Pallavicino “il Magnifico”, invece di restaurarla, erige una nuova rocca, meglio munita e più vicina al fiume. Negli anni Ottanta del Novecento però, dopo anni di vicissitudini non sempre felici per l’immobile, il degrado è tale che la proprietà decide di venderlo. Viene acquistato nel gennaio 1991 dai fratelli Spigaroli – in omaggio alle tre generazioni della famiglia succedutesi sul podere – che iniziano i lavori di restauro e restituiscono la dignità perduta a questa antica residenza Pallavicina ricca di storia e di fascino.
Si narra che già nel 1332, al banchetto di nozze di Andrea dei Conti Rossi e Giovanna dei Conti Sanvitale, si facessero apprezzare alcuni Culatelli recati in dono agli sposi e che, più avanti, i Pallavicino avessero offerto omaggi di Culatello a Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano. 
È certo che la “nascita” del culatello sia da collegare strettamente alla costituzione del feudo dei Pallavicino, che governarono i territori di Busseto, Zibello e Polesine dal 1249 fino all’epoca napoleonica, per più di mezzo millennio e che favorirono l’agricoltura e l’allevamento dei suini. Non è un caso che i colori argento e rosso del loro blasone siano stati oggi ripresi nel marchio del Consorzio di tutela del Culatello di Zibello.

Il Museo del Culatello di Zibello

Museo del Fungo Porcino di Borgotaro

L’ottavo e ultimo Museo del Cibo è dedicato al Fungo Porcino di Borgotaro. Fin dalla preistoria – come testimoniato dai reperti conservati al Museo Archeologico di Parma – i funghi entrano nell’alimentazione del popolo delle Terramare. I funghi erano conosciuti per le loro caratteristiche organolettiche già nell’antica Roma dove se ne faceva largo consumo, in particolare nei banchetti imperiali dei “Cesari”. Ne è prova il nome di Amanita Caesarea attribuito all’ovulo buono, considerato fin da allora fra i più prelibati.
Anche il Porcino di Borgotaro vanta una fama gloriosa in cucina, apprezzato dai duchi Farnese e impiegato magistralmente dal cuoco Carlo Nascia (XVII-XVIII sec.) nel trattato Li quattro banchetti alla Corte di Parma.
I Boleti sono oggetto di commercio con l’estero, pratica che è ancora ben presente sul finire dell’Ottocento, ad opera dei numerosi montanari costretti ad emigrare verso l’America o l’Inghilterra. I Porcini sono una risorsa per l’economia: le donne li raccolgono e li vendono freschi o secchi ai paesi vicini. Del 1893 è il libro di Tommaso Grilli Manipolo di cognizioni con cenni storici di Albareto di Borgotaro, nel quale si parla in maniera diffusa di raccolta e produzione di funghi: «quando comparisce questo vegetale carnoso, quasi tutte le famiglie vi attendono per raccoglierne quanto più possono con tutta la cura; e tagliato in fette sottili lo fanno seccare al sole, oppure al calore della fiamma del fuoco nelle cucine, e dopo lo vendono per lo più ai mercanti di Tarsogno che lo trasportano a Genova». Alla fine dell’Ottocento a Borgo Val di Taro prima il dr. Colombo Calzolari e poi Lazzaro Bruschi iniziarono l’attività di lavorazione – secco, sott’olio e fresco – e commercializzazione dei Porcini.
Nel 1928 venne pubblicato a Borgo Val di Taro il regolamento per il mercato dei funghi, probabilmente il primo in Italia. Anche a Bedonia nel 1920 ha inizio con buoni risultati e per molti anni l’attività di lavorazione di funghi Porcini conservati presso la ditta “La Mirtillo”, voluta da Primo Lagasi con la collaborazione di Colombo Calzolari. Nel 1964 il Consorzio delle Comunalie Parmensi istituiva una riserva per la raccolta sostenibile dei funghi. Il riconoscimento di Indicazione Geografica protetta giunse nel 1996.
L’interesse per questo alimento è ad oggi sempre molto vivo, sia per il pregio dei suoi profumi e sapori che per la sua importanza gastronomica, valorizzata dai ristoranti del territorio.

Il fungo porcino di Borgotaro

 

Le immagini e molte delle informazioni sono prese dal sito ufficiale dei Musei del Cibo della Provincia di Parma.

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.