How I met your father e gli spin-off di (In)successo

How I met your father e gli spin-off di (In)successo

How I met your father e gli spin-off di (In)successo

Breve riflessione di un’appassionata di sit-com e serie tv romanticamente stupide.

È da poco uscito uno degli spin-off forse più attesi degli ultimi tempi, How I met your father. Serie che riprende lo schema narrativo della ben più famosa How I met your mother, sit-com dei primi anni 2000, che narra le vicende romantiche e a tratti assurde di un gruppo di amici newyorkesi. In particolar modo la storia gira intorno al racconto del protagonista, Ted Mosby che in un non troppo lontano futuro racconta ai propri figli come, per l’appunto, ha conosciuto loro madre. Si basa quindi tutto su un gigantesco flashback continuo, in cui si intrecciano moltitudini di storie, di fidanzate, e serate passate nel famigliare e sicuro pub MacLaren’s. Il nuovo spin-off targato Disney+ procede allo stesso modo e con lo stesso espediente narrativo del racconto ai figli. Noi spettatori, quindi, ci ritroviamo ad osservare e rivivere la storia di Sophie, che in una New York contemporanea si destreggia tra appuntamenti di Tinder e incontri alla “vecchia maniera”.

COSA FUNZIONA E COSA NO

Parto con una doverosa premessa, le sit-com che strizzano piacevolmente l’occhio al trash e al romanticismo più smielato sono uno dei miei guilty pleasure più grandi e imbarazzanti. Detto questo, mi deresponsabilizzo da ogni opinione discutibile e non proprio oggettiva, ho il cuore tenero, mea culpa. Partiamo ora con le considerazioni di base e a mio parere che potrebbero mettere d’accordo quasi tutti, le risate registrate e montate in sottofondo sono orribili. Non c’è altro modo per dirlo, sono vecchie e creano solo un’atmosfera cringe e a tratti quasi triste. È come un gigantesco cartello che ti impone moralmente di ridere e ti fa notare appunto che non è quello che sta accadendo. Stonano e creano una dissonanza disagiante. Proprio per questo sono rimasta molto delusa dal fatto che in HIMYF venissero utilizzate così spesso, mi sembrava sempre di più che non avessero senso.

Passiamo invece ora alle cose che più mi sono piaciute e che forse potreste trovare discutibili. I richiami alla serie originale gli ho trovati geniali e ben collegati, sia i più nascosti che quelli più palesi ed evidenti. Mi sono sembrati dei buoni espedienti per abbracciare i fan di lunga data e allo stesso tempo creare una buona base per far partire la storia e proiettarla su una propria strada, che richiamasse quella originale, ma non ne fosse una fotocopia sbiadita e venuta male.
I personaggi potrebbero essere meglio approfonditi, a tratti risultano stereotipati, ma penso che questo sia principalmente colpa della brevità della prima stagione, composta da soli dieci episodi, in cui di conseguenza deve succedere tutto e subito. Se si riesce però a immergersi subito nella storia, ci si affeziona anche velocemente ai personaggi, alle loro vicende assurde e ai loro modi di fare bizzarri. Ho apprezzato molto che la composizione sociale del gruppo fosse molto diversa da HIMYM, diverso il numero di personaggi, diverse le dinamiche relazionali e la composizione delle coppie. Ovviamente ci sono delle similitudini narrative col passato, ma come detto sopra, fanno breccia nel mio cuoricino tenero e smielato, e non posso quindi fare altro che adorarle.

PROBLEMI DI NOTORIETÀ

Tirando un po’ le fila dei miei ragionamenti su HIMYF credo di aver individuato dei punti cardine applicabili a tutta una serie di spin-off rimasti per lo più sconosciuti se non al peggio terribilmente criticati dagli spettatori. Perché alla fine ammettiamolo, noi come pubblico non siamo mai troppo indulgenti sulle serie figlie di quelli che consideriamo cult del piccolo schermo. Prendiamo ad esempio A casa di Raven, qualcuno di voi ne ha mai sentito parlare? Io non credo. Serie per un pubblico principalmente adolescenziale se non più piccolo che però punta troppo sull’effetto malinconia che invece potrebbe invogliare un pubblico oramai cresciuto e non più interessato. Non c’è quindi un equilibrio tra passato e presente. È stato preso un determinato format e copiato tale e quale, senza pensare invece alle richieste e al cambiamento del nuovo pubblico a cui il prodotto dovrebbe essere indirizzato.

Per citare altri spin-off sconosciuti potremmo parlare di Once upon a Time in Wonderland, dove a mio parere è stata semplicemente pessima la strategia pubblicitaria dedicata a questa serie, ovvero inesistente. Neanche molti dei fan più sfegatati della serie originale sono a conoscenza di questa piccola chicca. Stessa sorte è anche toccata a Joey, spin-off del famosissimo Friends. Non era sicuramente al pari della serie originale, ma almeno qualche possibilità in più di quelle che le hanno dato poteva meritarsela.
Passiamo poi invece alle serie tv, di cui il poco entusiasmo rimane per me un mistero. Young Sheldon e Human Resources, figlie rispettivamente di The Big Bang Theory e Big Mouth. Queste due serie tv sono dei piccoli gioielli, in modo unico e completamente diverso tra loro. Hanno un ottimo collegamento con le proprie serie madri, ma sono riuscite a prendersi il loro spazio e raccontare qualcosa che fosse nuovo rispetto alla storia originale. Hanno dei buoni tempi comici e fanno sinceramente ridere, la prima più per tenerezza, la seconda decisamente per irriverenza. Per quanto io trovi una qualità il fatto che siano storie che hanno trovato la propria strada è probabile invece che per il grande pubblico questo sia stato percepito come un difetto, poiché non ha suscitato abbastanza la loro curiosità e il loro entusiasmo. Sarebbe forse servito un po’ più di fan service?
Chiudiamo invece in bellezza, con lo spin-off che ha decisamente sbaragliato la concorrenza, Better call Saul, che è considerata dai più appassionati bella e spettacolare alla pari (se non di più) dell’originale Breaking bad, serie definibile come l’apri pista per le serie tv come le conosciamo oggi.

di Valentina Nizza

 

Inventing Anna: quando l’apparenza ing-Anna davvero

Inventing Anna: quando l’apparenza ing-Anna davvero

Inventing Anna: quando l’apparenza ing-Anna davvero

È disponibile dall’11 febbraio 2022 la nuova serie Netflix Inventing Anna, scritta da Shonda Rhimes e prodotta dalla sua Shondaland, la casa di produzione che l’anno scorso a Natale ci ha regalato Bridgerton, la cui seconda stagione è in uscita sulla stessa piattaforma il 25 marzo.

L’intera storia è completamente vera, ad eccezione di tutte le parti che sono totalmente inventate”.

Con questa frase inizia ciascuna delle 9 puntate che compongono la miniserie televisiva di genere true crime dal titolo Inventing Anna, che in una settimana ha conquistato il pubblico di spettatori della piattaforma dello streaming Netflix.
Sin da subito capiamo che la confusione tra verità e inganno è la protagonista indiscussa della storia di una giovane ereditiera tedesca, sbarcata in America, e più precisamente a New York, che in poco tempo è riuscita inspiegabilmente a truffare l’élite della Grande Mela.
Tutta la serie parte e si regge su una sola, fondamentale domanda: chi diavolo è Anna Delvey?
Ereditiera o truffatrice? Donna d’affari o criminale? E se fosse tutto questo insieme?

Tratto da una storia “vera”

La vicenda che ruota introno ad Anna Delvey, conosciuta anche come Anna Sorokin (iniziamo con gli pseudonimi), è tratta da una storia vera, quella della “reale” Anna Delvey-Sorokin (“reale” che qui equivale a “inventata”, aiuto).
In breve, Anna si è spacciata per una ricca ereditiera tedesca per truffare molte persone dell’alta società, star e socialite, protagonisti della vita mondana di New York, ma soprattutto ricchi e straricchi. E non si è fermata qui, perché la scia di sangue (sarebbe meglio dire “di debiti”) si è estesa a numerosi hotel e diverse banche. Ma come ha potuto fare tutto questo? Come pagava i vestiti, gli eventi, i jet, le suite private, i massaggi, le vacanze, la bella vita che faceva se non aveva neanche un centesimo in tasca?
Seguendo le macerie che si è lasciata dietro si arriva dritti dritti in prigione, dove la ragazza viene sbattuta dopo l’ennesimo saldo insoluto di un albergo dove alloggiava. Anna è stata arrestata nel 2017 e poi condannata nel 2019 per 8 capi di imputazione (tra cui truffa, tentato furto e appropriazione indebita) a 12 anni di carcere. Uscita a febbraio 2021, è stata nuovamente arrestata sei settimane dopo perché il suo visto era scaduto.
La serie di Shonda Rhimes si basa sull’articolo “Come Anna (Sorokin) Delvey ha ingannato la gente di New York” scritto da Jessica Pressler del New York Magazine. La sua incredibile storia è stata già raccontata nel libro scritto dalla sua ex amica Rachel Williams, “My Friend Anna”, e verrà ancora tratta in una serie HBO che deve ancora andare in onda, in un documentario realizzato con la Bunim Murray Production a Los Angeles, in un libro della stessa Anna sul suo periodo trascorso in prigione, e in un podcast. Poi speriamo che Anna si lasci questa storia alle spalle.

La vera Anna Delvey-Sorokin a destra

Stiamo pagando una criminale mentre vediamo Inventig Anna?

Anna di certo non è una Lannister, perché la sua strada è lastricata di debiti insoluti. Durante il processo, si è stimato che la ragazza abbia rubato circa 275mila dollari.
A fronte di tutto ciò, il magazine statunitense Insider ha riferito che Netflix ha pagato a Sorokin la somma di 320mila dollari per avere i diritti della sua storia da adattare nella serie di Shonda Rhimes. Un bel gruzzolo da consegnare a una truffatrice. Per fortuna, quei soldi Anna li ha usati per iniziare a pagare i suoi debiti e i rimborsi. Si parla di 198mila dollari dovuti alle banche che il tribunale le ha imposto, 24mila dollari di multe statali, senza contare le spese legali a suo carico dopo la condanna. Speriamo che non finiscano in altri vestiti e vacanze di lusso, non sarebbe la prima volta. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, si dice, no?

 

Il giudizio sulla serie, senza spoiler

Tornando alla serie, Inventing Anna racconta una versione romanzata della vicenda. Il fatto che sia “tratta da una storia vera” non significa che sia meglio di una storia totalmente inventata. E questa in realtà lo è, perché – lo abbiamo ormai capito – in realtà Anna Delvey non esiste. O meglio, esiste ma non è quella che aveva portato tutti a credere che lei fosse. Confusi? Bene, vuol dire che siamo sulla strada giusta.

In virtù del “romanzato”, tratteremo Inventing Anna come ciò che è, cioè una serie con personaggi, trame e sottotrame, attori, costumi e tutto il resto.
La protagonista, Anna Delvey, è interpretata da Julia Garner, già vincitrice due Premi Emmy come miglior attrice non protagonista in una serie drammatica (Ozark), e notata dalla critica per la sua prova nel film The Assistant, per il quale ha ottenuto una nomina agli Independent Spirit Awards.
Il personaggio di Anna o si ama o si odia, ma più frequentemente suscita un misto tra i due estremi. All’inizio si è portati quasi ad ammirarla: la sua storia è avvolta nel mistero (un motivo che aumenta ancor di più l’attrattiva nei suoi confronti), emergono solo la sua acuta intelligenza, il fiuto per gli affari, il gusto per l’arte e la sua straordinaria e inspiegabile capacità di stregare tutti coloro che le stanno intorno. La sua ascesa sembra puntare molto in alto, mossa da un proposito che appare artistico e filantropico, quasi illuminato: la creazione della Fondazione Anna Delvey, un santuario super esclusivo per artisti selezionati e mecenati amanti dell’arte. Ovviamente, per realizzare questa visione le servono soldi, tanti soldi, sottoforma di donazioni o prestiti.
All’inizio quindi Anna sembra avere uno scopo, tanto grande quanto difficilmente realizzabile. Poi, man mano che procede la storia, la giovane socialite scade in quella che, brutalmente, chiameremmo “patetica scroccona”. Se ne sta lì in panciolle, ad aspettare che le venga approvato il prestito di 40 milioni che ha richiesto per la sua fondazione (a questo punto, chiara copertura per far finire i soldi direttamente nelle sue tasche). E nel mentre spende e spande soldi degli altri (ad esempio, della sua amica Rachel a Marrakkech), soldi che lei non possiede.
All’inizio della storia la troviamo già dietro le sbarre, e la sua avventura viene ricostruita tramite continui salti temporali dal presente al passato, sfruttando lo stratagemma delle interviste realizzate dall’altra protagonista della serie, la giornalista Vivian.


Il personaggio prende vita grazie all’attrice Anna Chlumsky. Vivian è una cacciatrice di storie implacabile. Incinta, tiene alla sua carriera forse più della nascitura in arrivo da lì a poche settimane. Farà di tutto per salvarla (la sua carriera, non la nascitura), dopo uno scandalo di presunto “cattivo giornalismo” che l’aveva vista coinvolta tempo prima. Per farlo si aggrappa alla storia di Anna, sicura di aver trovato qualcosa di importante e d’impatto da raccontare.
Nel corso delle puntate, Vivian ricostruisce il passato della misteriosa ereditiera-criminale incontrando e intervistando i suoi amici, le sue conoscenze, i suoi partner in affari, e creando un rapporto diretto con lei, andando a trovarla periodicamente in carcere (e comprandole riviste e mutande griffate).

“Vip è sempre meglio”

Inventing Anna ha spaccato quasi a metà la critica: alcuni apprezzano la forza e la portata sopra le righe dei personaggi, soprattutto femminili, su cui si basa la storia; altri tacciono la serie di non aver trovato un modo che funzioni davvero per far empatizzare lo spettatore con i vari personaggi, che appaiono così lontani, assurdi e sgradevoli.
Per non parlare delle accuse secondo le quali la serie dipinge Anna Delvey come una donna d’affari che ha mancato il successo, un personaggio brillante, quasi una sorta di modello da ammirare, nonostante le sue intricate truffe per ottenere milioni di dollari, le continue bugie ai suoi amici, lo sprezzo del valore della fiducia, e tutte le altre cose criminose che ha compiuto.
La recitazione di Garner e quella di Chlumsky è molto valida, l’ambientazione è quella di una New York alla Sex And The City (o forse sarebbe meglio dire, in questo caso, alla Scam And The City), anche se la trama presenta alcune debolezze in certi punti (perché nessuno conosce la ricca famiglia di Anna? Possibile che nessuno abbia pensato di googlarli? Va bene che stanno in Germania, ma non è mica Atlantide).

Il senso della vita è essere o possedere? Anna è entrambi, o meglio, vuole esserlo. Come un Mattia Pascal che vuol fuggire dalla sua vita mediocre (ops, piccolo spoiler), e si inventa un Adriano Meis che vince grandi somme al casinò di Montecarlo, frequenta belle donne e si da alla “bella vita”. Chi è arrivato in fondo al celebre romanzo di Pirandello sa come è andato a finire Pascal-Meis. Una sorte non così diversa da quella di Delvey-Sorokin, quasi vinta dal rischio di essere dimenticata da tutti, il suo più grande incubo, dietro le sbarre di una prigione. Ma Anna ha un’ultima chance per essere ciò che più brama: ricca e famosa. E Vivian (o è Shonda Rhimes?) è lì per quello.

In definitiva, forse dovremmo chiederci non “chi è Anna?”, ma “qual è la storia di Anna?”. E non “come ha fatto a rubare tutti quei soldi?”, ma “come ha fatto a non farsi beccare per così tanto tempo?”. Non vi resta che vedere la serie per scoprire le risposte.

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Martina Costanzo

Sono Martina Costanzo, laureata in lettere moderne all'Università degli Studi di Milano e attualmente insegnante di italiano alle scuole medie e superiori. Oltre alla lettura, la mia grande passione è il cinema. Per IoVoceNarrante scrivo le recensioni dei film e delle serie tv di successo appena usciti, e classifico i migliori prodotti da vedere. Nessuno è mai rimasto deluso da un mio consiglio, provare per credere.

Euphoria: tra make-up e psicologia

Euphoria: tra make-up e psicologia

Euphoria: tra make-up e psicologia

Se anche voi siete appassionati della serie tv americana Euphoria, di cui è da poco uscita la seconda stagione, allora questo è l’articolo che fa per voi!

Il 10 gennaio 2022 è arrivata in Italia la seconda stagione dell’amatissima serie televisiva Euphoria, teen drama che ha conquistato l’America e che racconta la storia di alcuni liceali alla continua ricerca di uno stato di benessere (dell’euforia appunto) tra eccessi e squilibri, il tutto arricchito da colpi di scena, tradimenti e segreti. L’arduo compito di descrivere questo mondo così controverso non è stato assegnato solo agli attori (responsabili dell’interpretazione), ma soprattutto a Doniella Davy, riconosciuta make-up artist di Los Angeles che è riuscita a far trasparire la psicologia dei vari personaggi tramite il make-up.

Espressione dell’Io

I look proposti nella serie saltano immediatamente all’occhio: glitter, colori sgargianti e brillantini vengono utilizzati ripetutamente per simboleggiare la crescita dei vari adolescenti che si avvicinano sempre di più all’età adulta. Questa consapevolezza però ha un prezzo: essa porta con sé disillusione. Subito notiamo che ogni personaggio ha caratteristiche diverse, un’emotività singolare e un background altrettanto personale segnato da esperienze e traumi di vario genere. Vediamo insieme dunque come la psicologia giochi un ruolo fondamentale nella scelta del trucco che ha fatto innamorare milioni di telespettatori. La narratrice della storia Rue si presenta sempre struccata a scuola, mentre quando esce sfoggia un trucco scuro e glitterato nella parte inferiore degli occhi come lacrime, sintomo del dolore che prova costantemente.

Al contrario, Jules ostenta spesso un make-up molto colorato e femminile proprio come i suoi look: questa sua tendenza a marcare l’aspetto femmineo rappresenta la ricerca incessante di una sicurezza che, nonostante l’aspetto esteriore azzardato, viene tradita dal linguaggio del corpo.

Un personaggio che acquisisce sempre più consapevolezza del proprio corpo è Kat, inizialmente la ragazza “acqua e sapone” che successivamente si ribella agli stereotipi fisici ed esibisce degli outfit decisamente sopra le righe, con tanto di trucco stile glam rock.

Parliamo adesso di Cassie, cheerleader molto popolare per la sua bellezza che cerca di sedurre i ragazzi della sua scuola utilizzando il trucco in maniera sgargiante e sexy, ma molto più convenzionale rispetto agli altri make-up sfoderati dalle sue coetanee e amiche.

Ultima, ma non per importanza, Maddie: migliore amica di Cassie e fidanzata di Nate (il ragazzo più toxic che avrete l’occasione di conoscere), sfodera sempre dei look esagerati contraddistinti da ciglia finte, eyeliner impeccabile, strass e ombretti brillanti. Questa sua cura quasi maniacale verso l’aspetto fisico ci mostra una Maddie fragile, che utilizza l’esteriorità come una sorta di protezione verso il giudizio altrui, ma cela soprattutto insicurezza.

Detto questo, non ci resta che vedere questa seconda stagione in cui ci sarà una grande evoluzione da parte di tutti i nostri personaggi, cambiamenti e stravolgimenti che ci lasceranno sicuramente a bocca aperta.

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Cecilia Gavazzoni

Ciao, sono Cecilia e studio Lettere Moderne. Adoro scrivere e spesso fingo di essere anche esperta di moda (un’altra mia grande passione). Ah, a volte do anche consigli di Lifestyle e pareri non richiesti. Ma niente di serio, non vi preoccupate.

Euphoria-mania: ritorna la serie dell’esagerazione

Euphoria-mania: ritorna la serie dell’esagerazione

Euphoria-mania: ritorna la serie dell’esagerazione

L’eccesso è la sua cifra stilistica. O la ami o la odi, ma una cosa è certa: non puoi smettere di parlarne. Dopo una pausa forzata dettata dalla pandemia, è finalmente tornata sugli schermi l’attesissima seconda stagione della serie tv Euphoria, distribuita in Italia da Sky Atlantic a partire dal 16 gennaio 2022.

È dalla seconda metà di quell’anno infausto che è stato il 2020 che chiunque, in un modo o nell’altro, ha sentito parlare di Euphoria, pur non sapendo magari di cosa si trattasse. Tra i tanti fattori che hanno fatto scalpore riguardo questa serie ha sicuramente avuto una certa eco l’Emmy vinto da Zendaya, la più giovane di sempre a portarsi a casa il premio come miglior attrice protagonista di una serie drammatica.

Euphoria è una di quelle serie talmente esagerate e travolgenti che o si odiano visceralmente o si amano alla follia. I contenuti e i modi con cui sono mostrati hanno scatenato, ad esempio, una tempesta di critiche da parte del Parents Television Council. Una delle accuse che vengono mosse allo scandaloso teen drama è il mostrare a un’audience di adolescenti frequenti scene di sesso esplicito e di nudo (in un episodio sono apparsi sullo schermo quasi trenta peni), per non parlare dello stupro subìto da uno dei personaggi.

Euphoria è solo questo? Certamente no. La serie tv statunitense, trasmessa dal network HBO e in Italia da Sky Atlantic, si basa sull’omonima miniserie israeliana del 2012. La sceneggiatura è di Sam Levinson, che ha dichiarato di essersi spesso ispirato alle proprie vicende di adolescente e alla personale lotta contro la tossicodipendenza. Parlandone in senso generale, la serie è un dramma adolescenziale che racconta di un gruppo di liceali alle prese con l’amore, l’amicizia, l’identità, i traumi, il sesso e la droga.

 

Non il solito teen drama

A quasi due anni dalla prima stagione, è assolutamente necessario fare un ripasso prima di iniziare a vedere le nuove puntate. Il personaggio di Rue Bennett (Zendaya), in veste di narratore, può essere considerato il fulcro della storia. In realtà ogni puntata tende a soffermarsi su ciascuno degli altri personaggi, in una sorta di racconto corale pilotato dalla protagonista. Se Rue fosse una medaglia, l’altra faccia sarebbe certamente Jules Vaughn (Hunter Schafer). Le due creano un forte legame prima di amicizia e poi romantico che, nel finale della prima stagione, si spezza drammaticamente: Jules se ne va lasciando Rue spiazzata sulla banchina del treno. È stato così che l’ultima puntata della serie aveva lasciando gli spettatori, totalmente in dubbio sul futuro delle due ragazze.

Uno degli aspetti più lodevoli della serie è la qualità dell’interpretazione degli attori. La prova di Zendaya nella parte di Rue le è valso il Premio Emmy, ma anche il resto del cast riesce a sostenere il peso recitativo di questi personaggi che vivono di esagerazione e tormento emotivo. L’interpretazione di Hunter Schafer nei panni di Jules ha suscitato un altissimo apprezzamento; Jacob Elordi, Nate Jacobs nella serie, invece era già noto per aver recitato nel film di Netflix The Kissing Booth e nel sequel.

La critica ha apprezzato la fattura del prodotto in generale: un’ottima regia, una fotografia visivamente stupenda, accompagnate da una travolgente colonna sonora. Ecco il mix perfetto che rende Euphoria un prodotto eccellente.

L’estetica esagerazione di una drammatica età

Si sa, l’adolescenza non è affatto un periodo “tutto rose e fiori”. Alle classiche crisi sui cambiamenti in atto, i conflitti con le figure genitoriali e la ricerca della propria identità, nel mondo di oggi i ragazzi devono affrontare una quantità di nuove sfide che li possono facilmente portare sull’orlo di un abisso.

La dipendenza è il filone principale che segue il personaggio di Rue, mentre Jules si barcamena in un limbo identitario e amoroso. Quest’ultima, infatti, è una ragazza trasgender che si trasferisce in una nuova città dove ricominciare tutto da capo. È dotata di una sessualità molto libera, destinata però a scontrarsi con l’affetto che prova per la sua amica e il peso emotivo nel sostenerla nel suo percorso di (tentata) disintossicazione.

La spietata chimera dell’amore è ovviamente onnipresente e costituisce un forte innesco per tutte le altre sottotrame: la relazione tossica e violenta tra Nate e Maddy (Alexia Demie), il percorso per scoprire la sessualità e amare il proprio corpo di Kat (Barbie Ferreira), l’incompatibilità tra i sentimenti e le scelte del passato di Cassie (Sydney Sweeney) e McKay (Algee Smith).

 

Dove e come ci eravamo lasciati

Il vero ultimo episodio con cui la serie aveva lasciato, con il fiato sospeso, i suoi spettatori è stato “Fuck Anyone Who’s Not A Sea Blob”. Questo è il titolo della seconda puntata speciale di Euphoria, incentrata interamente su Jules. Le riprese della seconda stagione sarebbero dovute iniziare nella primavera del 2020, ma a causa della pandemia di Coronavirus erano state sospese e non ancora programmate ufficialmente.

Nel settembre dello stesso anno sono comunque stati girati due episodi special che fungono da raccordo con la stagione successiva. Part 1: Rue (Trouble Don’t Last Always) è andato in onda il 6 dicembre 2020 e dal 23 gennaio 2021 era disponibile anche la Part 2. Questo episodio è stato speciale anche perché è il primo a essere co-scritto da Levinson e dall’attrice Hunter Schafer.

Al termine della prima stagione, Rue lasciava Jules dalla banchina di un treno mentre l’amica, rimasta a bordo, si allontanava per raggiungere New York. Tale rottura ha fatto presagire una ricaduta di Rue nella droga e un destino incerto per Jules. L’episodio speciale su Rue è stato un intenso e toccante dialogo tra la ragazza tossicodipendente e il suo sponsor Ali (Colman Domingo), seduti in una solitaria tavola calda durante la notte della Vigilia di Natale.

Anche la Part 2 si apre con una conversazione, questa volta tra Jules e la psicologa. Seduta sul divano nello studio della terapeuta, la ragazza si lascia andare a un flusso di coscienza, parlando della sua identità, della spasmodica ricerca della femminilità, del rapporto complicato con la figura materna e di quello speculare con Rue.

Finalmente, in questo episodio si assiste all’attesissimo scavo psicologico di Jules, una ragazza all’apparenza spensierata ma profondamente combattuta. Come lei stessa racconta, il suo costante vivere in uno stato ossimorico spesso si sfoga nell’autocritica e nelle fantasie romantiche con amanti immaginari, in un vortice di autoerotismo e senso di colpa in cui è difficile ricordarsi cosa è reale e cosa non lo è.

Il colorato mondo di Jules diventa a tinte fosche non appena dischiude la sua mente. Lo spettatore è travolto dalle fantasie, dalle paure e dai desideri della ragazza anche visivamente, grazie a una regia che sa dosare in modo eccellente l’aspetto artistico con quello comunicativo. La puntata è, come tutte le altre, un piccolo scrigno di bellezza, ma pesante come il piombo.

 

Euphoria è certamente una serie che merita una visione, anche se per qualcuno può essere difficile da digerire. È un viaggio a tratti orribilmente psicadelico, a tratti delicatamente dolceamaro, inferno e paradiso insieme senza mezze misure, come è l’adolescenza. La chiave di lettura è tanto l’onestà quanto l’empatia: nella spietata “terra di mezzo” tra l’infanzia e l’età adulta è difficile sopravvivere; l’unico modo per uscirne tutti interi è aggrapparsi a un appiglio sicuro, sperando di non esserlo per qualcuno che ha un bagaglio ancor più pesante.

Martina Costanzo

Sono Martina Costanzo, laureata in lettere moderne all'Università degli Studi di Milano e attualmente insegnante di italiano alle scuole medie e superiori. Oltre alla lettura, la mia grande passione è il cinema. Per IoVoceNarrante scrivo le recensioni dei film e delle serie tv di successo appena usciti, e classifico i migliori prodotti da vedere. Nessuno è mai rimasto deluso da un mio consiglio, provare per credere.

Si può amare uno stalker? Il tema dello stalking in “You” tra verità e leggerezze

Si può amare uno stalker? Il tema dello stalking in “You” tra verità e leggerezze

Si può amare uno stalker? Il tema dello stalking in “You” tra verità e leggerezze

Istruzione e distruzione del tema dello stalking, questi i propositi di You. Joe non è uno psicopatico, non è uno stalker. È innamorato!” è ciò che afferma Millie Bobbie Brown, dimostrando quanto può essere rischioso romanzare la figura di uno stalker.

Nessuno potrebbe mai aspettarsi che un innocuo libraio, un dolce ragazzo amante della lettura, possa rivelarsi uno stalker sanguinario, un voyeur ossessivo e maniacale. Questo è proprio Joe Goldberg, il controverso protagonista di You, serie TV spopolata sugli schermi dal 2018 e basata sull’omonimo romanzo di Caroline Kepnes. Eppure Joe riesce a conquistare il cuore e la stima dello spettatore perché gli ideatori della serie, Greg Berlanti e Sera Gamble, riescono a fornirne un ritratto amabilissimo. Sin dall’episodio pilota, siamo immersi nella mente di Joe, ascoltiamo la sua voce, una voce narrante che descrive come il suo sguardo si posi su scene, situazioni e donne. Abbiamo così accesso ai meccanismi di pensiero di Joe e vediamo le cose attraverso i suoi occhi. Parallelamente, la realtà distorta esperita da Joe è riprodotta sul piano visivo. Ogni inquadratura è sfocata e indefinita lungo i bordi come a riprodurre un’atmosfera onirica che rispecchia a pieno la mente turbata e nebulosa di uno stalker.

L’adozione della voce narrante e la tecnica dello sfocato sono, perciò, funzionali alla rappresentazione della figura dello stalker e dunque a una sua maggiore comprensione da parte del pubblico. Il problema di You è che l’intento di ottenere la comprensione e l’empatia dello spettatore verso Joe superano il limite. Il protagonista, infatti, incarna le vesti di una figura spregevole, di un individuo ossessionato, totalmente assorbito nel pensiero della donna oggetto di desiderio, quello “you” eletto a titolo e che rappresenta il centro del suo mondo. Tuttavia nella serie ogni azione di Joe si redime dietro la maschera dell’amore.

LA MASCHERA DELL’AMORE

Joe cerca informazioni sulle proprie partner online, le segue, fa appostamenti fuori dalle loro abitazioni per osservare più del dovuto, colleziona loro oggetti intimi, assassina ex-fidanzati o figure scomode, eppure sembra fare tutto ciò ‘solo perché è innamorato’. La stessa Millie Bobbie Brown, conosciuta per il suo esordio cinematografico nella serie Stranger Things, dichiara superficialmente su Instagram: “Joe non è uno psicopatico, non è uno stalker. È innamorato!”. La Brown, sommersa dalle critiche, smentirà le proprie parole poco dopo, ma il suo è un esempio eclatante dei pericoli derivanti dalla romanticizzazione di un personaggio di questo tipo.

Le azioni di Joe vengono continuamente giustificate: invade la privacy delle donne e uccide “per amore” e per i traumi infantili che lo hanno segnato profondamente. È un po’ come parlare di “delitti passionali”, espressione retrograda e imprudente che scagiona la pazzia e violenza degli assassini perché spinti da un sentimento nobile come l’amore. Sicuramente il procedimento che discolpa Joe, e successivamente la moglie e concorrente in omicidi Love Quinn, è volto a garantire una maggiore godibilità del prodotto cinematografico. La serie TV, nonostante le tematica cruda e sensibile, rende sempre interessanti i personaggi e i loro gesti estremi, tanto che, nella terza stagione, si rivela quasi più fastidiosa la superficialità dei coniugi Conrad piuttosto che il turbinio di delitti compiuti da Joe e Love.

Rappresentazione della mente di uno stalker e giustificazione delle sue azioni non sono però gli unici elementi costitutivi del ritratto offerto da You. Lo stalking è una piaga che affligge pesantemente il nostro paese. Le statistiche riportano che quasi un italiano su dieci è stato vittima di stalking e le interessate sono principalmente giovani donne che ingombrano ancora le menti malate dei propri ex partner (fonte: leurispes.it).

STALKING: IL PARADOSSO DI UN “REATO” RECENTE

Numerosi sono i problemi e le complicazioni legate a questo reato (considerato tale solo dal 2009). Per cominciare, la serie illustra chiaramente come sia agevole per chiunque reperire informazioni online che, non tanto incredibilmente, siamo noi stessi a rendere pubbliche. La privacy digitale è oggi probabilmente morta, l’ossessione al condividere su ogni tipo di piattaforma social ha innescato conseguenze preoccupanti. Il cyberstalking oggi è diffusissimo e avvalersi di profili fake o identità diverse è divenuto sin troppo facile. Lo stesso Joe nel corso della serie cambia ben tre identità, da Joe diventa Paul nelle sedute con lo psicologo di Beck e nella seconda stagione, a Los Angeles, si fa chiamare Will. A prescindere dalla presenza di tali individui, preservare la propria privacy è importante, ma ormai non sembra più essere una priorità. Tra i singoli utilizzatori di rete e social networks, infatti, va via via diffondendosi un senso di ‘privacy fatigue’, una rinuncia generalizzata al tentativo di proteggere i propri dati perché ritenuto impossibile.

Inoltre, altri due sono i motivi che caratterizzano la figura dello stalker nella serie. Innanzitutto Joe e Love appartengono alla categoria degli “insospettabili”. Sono un libraio e una pasticcera, dal primo ci si aspetta cultura, ricchezza interiore, sensibilità, dalla seconda dolcezza e delicatezza, sicuramente non ti immagini che ti possa tramortire al suolo con un mattarello. Infine, i due protagonisti riescono sempre a farla franca, a rimanere impuniti. Nella serie per la loro intelligenza, nella realtà perché spesso gli stalker sono figure che riescono a restare nell’ombra, che non vengono denunciati perchè si avvalgono di ricatti con cui intrappolano le proprie vittime. 

You è dunque una serie che costruisce un quadro su modi e meccanismi dello stalking, che rende lo spettatore quasi complice delle sporche azioni di Joe e Love. Tuttavia resta un prodotto di intrattenimento condannose voragini colme di messaggi impliciti sbagliati e troppo leggeri per un pubblico giovane.

 

Matilde Vitale

Mi chiamo Matilde e sono una laureata in Lettere moderne. Nella scrittura ho trovato la simbiosi perfetta tra le tre ‘c’ che regolano e orientano la mia vita: conoscere, creare e criticare. Sono tre c impegnative e dinamiche, proprio come la mia mente e personalità che corrono sempre troppo veloci. Se ti interessa scoprire qualcosa di me o di ciò che scrivo non ti resta che iniziare a leggere, buona lettura!