“Tutto è iniziato da”…l’incipit della mia storia d’amore con la scrittura

“Tutto è iniziato da”…l’incipit della mia storia d’amore con la scrittura

“Tutto è iniziato da”…l’incipit della mia storia d’amore con la scrittura

Dai miei primi passi nel mondo della scrittura fino all’approdo in IOVOCENARRANTE, il tutto raccontato a un gruppo di studenti e studentesse

Tutto è iniziato da una pausa.

Ero infatti in camera mia, alla scrivania e vagavo con la mente durante una pausa dallo studio.

A un tratto, scrollando la bacheca di Facebook, noto un post. Era un annuncio in cui si presentava una rivista online nata da poco: Iovocenarrante.

Si cercavano nuovi partecipanti.

Così, tra me e me, dissi: “Perché no?”.

Quindi risposi e da quel momento varcai la soglia di un meraviglioso universo di possibilità.

Diventai pertanto inviata di Iovocenarrante. Avrei approfondito la categoria del teatro, ma avendo l’opportunità di spaziare tra mille altri ambiti.

Ebbene sì, la rivista mi aveva consentito di realizzare un sogno che portavo nel cuore: scrivere.

Quindi ho assistito a conferenze, a spettacoli teatrali, ho intervistato artisti e persone estremamente arricchenti.

Tali vite si sono intrecciate alla mia, in un barlume di esistenza. Ho così dato voce al mio cuore tramite gli articoli che realizzavo.

Tuttavia, non sapevo che un’altra avventura sarebbe stata lì pronta ad attendermi.

Così, tutto è iniziato con un atto di fiducia.

Infatti, un’amica, Chiara Lavenoni, insegnante di materie umanistiche presso la Scuola Secondaria di Primo Grado Giovanni XXIII di Rudiano (Bs) avanza la proposta di un’iniziativa.

Una magnifica iniziativa!

Avrei dovuto, infatti, presentare la mia esperienza di inviata e di scrittrice di articoli per Iovocenarrante. Il mio pubblico sarebbe stato un gruppo di alunni e alunne aderenti al progetto del Giornalino scolastico, da lei stessa ideato.

Così varcai la soglia della scuola, arrivando in loco un’ora in anticipo, tanta era l’ansia mista a felicità da cui ero pervasa!

Ecco: gli alunni e le alunne, dodicenni, fanno il loro ingresso nella classe adibita. Mi osservano con i loro occhi attenti e vispi. Nelle menti si diramava la curiosità più luminosa.

Le loro espressioni sono inestimabili.

In seguito, la Professoressa Lavenoni e il Professor Sberna, docente di matematica, mi presentano con fiducia.

Un respiro. Sono pronta.

Inizio a raccontare chi sono, compiendo un viaggio indietro nel tempo.

E narro loro del colpo di fulmine tra me e la scrittura, avvenuto a casa dei miei nonni, in un giorno d’estate.

Riporto quindi alla memoria la promessa fatta a me stessa, anni prima: scrivere per il mio cuore, liberandomi dal timore del giudizio altrui.

Così la narrazione cresceva e, come un albero, piantava radici e prendeva respiro con mille rami.

E il vento che muoveva le fronde erano le domande acute e brillanti del mio giovane pubblico.

In seguito, ho mostrato il sito di Iovocenarrante, il sistema di WordPress, alcuni dei miei articoli. Il palcoscenico e il backstage.

Ebbene in quel momento mi sono resa conto di quanto il mondo della rivista mi abbia dato la possibilità di migliorare il mio stile.

Mentre la mia vita cambiava, cambiava anche la mia scrittura, legata ad essa.

Così ho compreso quanto Iovocenarrante sia un trampolino di lancio, che consente di intrecciare la propria esistenza ad altre vite meravigliose, come in quel caso.

Porterò sempre nel cuore l’immagine di quelle mani alzate, di quei germogli di futuro verso i quali nutro la più genuina fiducia e la più profonda gratitudine. Come compito, infatti, avrebbero realizzato un articolo riguardo questo incontro.

E poi…una domanda: “Prof, Maria tornerà ancora da noi?”.

E poi…Gioia pura.

Maria Baronchelli

Sono Maria Baronchelli, studio Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Milano. La lettura e la scrittura hanno da sempre accompagnato i miei passi. Mi nutro di regni di carta, creandone di miei con un foglio e una penna, o una tastiera. Io e i miei personaggi sognanti e sognati vi diamo il benvenuto in questo piccolo strano mondo, che speriamo possa farvi sentire a casa.

I Sillabari di Goffredo Parise: un’occasione imperdibile per inabissarsi nel mondo

I Sillabari di Goffredo Parise: un’occasione imperdibile per inabissarsi nel mondo

I Sillabari di Goffredo Parise: un’occasione imperdibile per inabissarsi nel mondo

Con la scrittura dei Sillabari Goffredo Parise porta alla luce un prezioso glossario di sentimenti e ne riscopre l’intima essenza.

Goffredo Parise, nato a Vicenza l’8 dicembre 1929, appartiene alla specie degli scrittori curiosi e riflessivi, che rivendicano un rapporto viscerale con l’esistenza, calandosi fortemente nelle circostanze contingenti.

Nel suo personale capolavoro, Sillabari (1972-1982), due serie di racconti – o, come preferisce chiamarle, «poesie in prosa» – in ordine alfabetico, lo scrittore vicentino annota spontaneamente le considerazioni derivanti da tutto ciò che lo circonda, lasciandosi trasportare dal flusso autentico, schietto delle sue percezioni. Non ci sono analisi cliniche o indagini psicologiche, ma una forte empatia, una sincera vicinanza umana verso chi gli capita di osservare. L’imperfezione e il disordine del mondo diventano fondamento della bellezza del quotidiano.

L’attenzione di Parise è tutta nei particolari, in quelle «scarpette di vernice nera» o in quei capelli del colore «delle carote sporche di terra» o ancora nella deliziosa colazione a base di kripferl caldi e cappuccino con «una spolveratina di cacao». Attraverso uno stile fresco e cinematografico, l’autore rianima fragili istanti, momenti fugaci, gesti inaspettati, che possono essere assaporati a piccoli bocconi, degustati pazientemente perché sono olfattivi, tattili, visivamente appaganti.

Un senso di indeterminatezza, però, impregna le pagine dei Sillabari, soprattutto per ciò che concerne la deissi temporale. I singoli testi vengono introdotti da espressioni estremamente vaghe, quali «Una domenica d’inverno», «Un giorno d’estate», «Un pomeriggio d’agosto», che proiettano il lettore verso atmosfere sognanti, in cui si mescolano dolci memorie e immagini sfumate.

Alle delicate nuances dei singoli testi fa da sostegno il tema dominante dell’intera raccolta: la solitudine – non stupisce affatto che la versione inglese dei Sillabari sia stata tradotta come Solitudes: short stories. Questa si rivela l’anello che unisce le catene di racconti, in cui l’autore, chiudendosi nella sfera strettamente personale della propria intimità, si riconosce allo specchio.

Il senso di solitudine in P. si esplicita in diverse forme: in Famiglia riaccende la scintilla della mancanza di un solido nucleo familiare; in Solitudine, scritto che, non a caso, suggella l’opera, si traveste da compagna di vita subdola, cinica, implacabile; in Estate declina verso la nostalgia di un amore passato.

Amavo soprattutto la sua solitudine. Quando lo incontravo per strada, nel vederlo venire avanti mi sembrava che la solitudine si fosse stampata sulla sua persona, non già come una condizione di sventura ma come uno strumento di conoscenza. […] Dalla sua estrema solitudine, sono nati i racconti dei «Sillabari». Ogni racconto è il disegno di una fisionomia umana in un momento di solitudine assoluta e totale, un momento in cui il mondo le appare sguarnito di tutte le idee che vi sono incrostate sopra”. (N. Ginzburg, Eravamo diversi, ma gli volevo bene)

Parise individua l’intima fragilità di un mondo che sembra fatto di cristallo e che contempla attraverso una sensibilità rara e preziosa, riposta con cura tra le pieghe del proprio animo. Il “poeta dell’addio” – così soprannominato da Geno Pampaloni – sfiora i vasti panorami dell’uomo e sospira con uno sguardo di congedo, lasciandosi cullare da quell’inconfondibile malinconia, che costituisce il tratto distintivo della sua scrittura.

Non resta che tuffarsi nella lettura e tornare a galla con i preziosi tesori che si sono raccolti sul fondo cartaceo di questo libro immersivo e profondissimo.

 

Di Ilaria Zammarrelli

A lezione da Luigi Malerba: l'(in)utilità come cura per l’anima

A lezione da Luigi Malerba: l'(in)utilità come cura per l’anima

A lezione da Luigi Malerba: l'(in)utilità come cura per l’anima

Malerba ci insegna a seguire l’ “ideologia del superfluo” per guardare la realtà dalla sua prospettiva (in)utile e rivalutare la scala delle nostre priorità.

“Servire a”, “fare per”, “ricavare da” sono i phrasal verbs imperanti di questo tempo. Ogni giorno veniamo sommersi da una valanga irrefrenabile di pareri non richiesti, dalla smania di rendere qualsiasi cosa efficace, proficua, funzionante. Da qui, allora, come un gesto sovversivo, parte la riscoperta dell’inutilità, di ciò che – stando a quanto dice il dizionario – non dà vantaggio, ma resta inconcludente, infruttuoso. Da qui, ancora, quel libriccino postumo che supera di poco le centoquaranta pagine e che, con acuta lungimiranza, già nell’aprile 2008, Luigi Malerba sistemava e riordinava prima di darlo in pasto alle stampe: Consigli Inutili.

A quattordici anni dalla sua scomparsa (8 maggio 2008), lo scrittore emiliano continua a stupire e a dimostrarsi più attuale che mai.

Luigi Malerba, all’anagrafe Luigi Bonardi, nasce nel 1927 a Pietramogolana, in provincia di Parma, ma, alla giovane età di ventitré anni, si trasferisce a Roma per seguire la naturale passione per la cinematografia. È proprio la Capitale, ricca di stimoli e ribollente di opportunità, a ispirargli l’esordio letterario, La scoperta dell’alfabeto, inevitabilmente “contaminato” dalla costituzione del Gruppo ’63. Dai principi propugnati dal movimento letterario neoavanguardistico, Malerba recupera il culto per i testi anarchici, “senza capo né coda”, che non trovano posto in nessuna categorizzazione o standardizzazione.

All’impresa pretenziosa del romanzo realistico che obbliga alla verosimiglianza, M. risponde con la decostruzione del canone attraverso forme di scrittura marginali, “inutili”, come i racconti brevi, gli pseudo-trattati, le biografie immaginarie.
Come si lascia la giacca all’ingresso, così è opportuno far sostare in limine libris trame complicate e storie ingarbugliate perché fin da subito emerge a chiare lettere la voglia di sfuggire ai condizionamenti inquinanti della logica.

Pare che sia venuta l’ora di rinunciare alle cause efficienti e agli effetti coerenti […]. Si tratta della utilizzazione del superfluo, programmata allo scopo di dare un significato diverso alle cose e di goderne le qualità finora trascurate e in qualche caso segrete”. (L. Malerba, Prefazione a Consigli Inutili)

Le “storielle” divertenti scorrono piacevolmente e non seguono uno schema fisso, piuttosto restano sospese tra la leggerezza dei contenuti e la giocosità del tono impiegato. Realtà e finzione si mescolano fino a diventare inscindibili; il lettore viene preso per mano e accompagnato, durante l’intera lettura, a guardare con occhi curiosi, ascoltare con orecchie tese e a liberare una fantasia ormai assopita.

Lunatici, matti, ‘animi sensibili’ sono allo stesso tempo gli ispiratori e i destinatari di questo tipo di letteratura, adatta a chi pensa che forse, davvero, ‘non ci sono regole, c’è solo l’intuito, la sensibilità dell’homo faber’. Se il lettore è ‘dotato di pazienza’ come il ‘coltivatore di querce’, può dedicarsi alla lettura, altrimenti ‘se ha fretta che coltivi i carciofi’. Perché ‘anche al buio chi ha sensibilità e sentimento si accorge’ della presenza dell’Amica ombra e potrà evitare ‘lo sgomento della solitudine’, senza dimenticare che ‘al tramonto anche gli uomini piccoli e depressi fanno le ombre lunghe’”. (V. Cuccaroni su ARGO)

Probabilmente, concederne appena un assaggio è il modo migliore per presentare un libro tutto da gustare e per nulla da spiegare. Consigli Inutili è, forse, un biglietto da visita azzardato e bizzarro per far conoscere un grande sperimentatore del linguaggio come Malerba, ma il richiamo dell’“ideologia del superfluo” e del “culto dell’inutilità” insegnano più di quanto si possa pensare, avvertendosi come una profonda urgenza in un mondo in cui tutto non smette mai di essere capitalizzato.

 

Di Ilaria Zammarrelli

 

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Giorgio Manganelli: quando la parola diventa feticcio

Giorgio Manganelli: quando la parola diventa feticcio

Giorgio Manganelli: quando la parola diventa feticcio

In Manganelli la parola diventa lo strumento attraverso cui la letteratura si esprime, emblema del suo carattere marcatamente menzognero.

Giorgio Manganelli, autore funambolico, caleidoscopico e dalla penna inconfondibile, si staglia sulla scena letteraria con una certa autonomia nella seconda metà del ‘900, esordendo alla tardiva età di quarantadue anni con il volumetto oscuro Hilarotragoedia. Inevitabilmente assorbe, quindi, le idee avanguardistiche e rivoluzionarie propugnate dal Gruppo ‘63, attorno al quale però – va detto – si limita unicamente a orbitare.

Uno dei topoi letterari della sua produzione è senza dubbio la centralità della parola. L’arte è dialettica, è la forma della contraddizione, della coesistenza di valori inconciliabili. L’arte è linguaggio e con il linguaggio si può creare qualsiasi realtà. Gli infiniti mondi danno vita a infiniti libri. La feroce immaginazione di Manganelli si rivela il motore per impressionanti acrobazie intellettuali, che conducono la narrazione a farsi opulenta, trimalcionica, delirante. Di conseguenza, la lingua si fa incalzante, provocatoria e la prosa si caratterizza per un’instancabile e puntigliosa ironia.

A tal proposito, nonostante sia un termine rischioso da maneggiare, “feticcio”, accostato a “parola”, risulta particolarmente calzante per la doppia accezione che abbraccia nell’universo manganelliano. Il “Manga” – così amava essere soprannominato dai più – considera il processo scrittorio come una sorta di rituale, un cerimoniale vero e proprio, durante il quale lo scrittore deve necessariamente eclissarsi, sparire, per lasciare il posto al fool, al saltimbanco, colui che parla e straparla, fabula e affabula fino a esaurire l’intensa attività creativa in fatuo esibizionismo, ampolloso vaniloquio, illogica pantomima.

La parola rètore […] era sacra a Manganelli. E poi, ‘il rètore è un fantasma’, assimilabile al mago e all’alchimista, al negromante e al giocoliere, e soprattutto al fool, al buffone, e ‘si consuma tutto nelle sue frasi’”. (E. Sanguineti, Il linguaggio di Manganelli)

Se da una parte la parola rappresenta un vero e proprio oggetto di culto da venerare durante la cerimonia della scrittura, dall’altra è dalla parola che il fool trae piacere; un piacere esclusivo, da cui dipende, intende dipendere e che insegue attraverso un ossessivo accumulo di termini, parole, lessemi, tanto da metamorfizzarsi in un “dizionario impazzito” che non ha la pretesa o l’intenzione di comunicare un messaggio preciso.

Una parola può parlare soltanto di sé. Semplicemente, non c’è nient’altro di cui potrebbe parlare. E poiché parlare significa usare parole, significa anche muoversi nella realtà, l’unica realtà possibile, ossia il linguaggio. […] L’idea che un’opera letteraria comunichi, per me, è pura follia. Che cosa mai dovrebbe comunicare? Semmai crea uno spazio linguistico, nasce un conglomerato, una sorta di proliferazione verbale”. (G. Manganelli, La ditta Manganelli)

La scrivania si trasforma nello spazio in cui si condensano le idee più assurde e geniali, il luogo in cui il “Manga”, nella sua “tenuta da lavoro” di fool non descrive, ma inventa, non conosce il vero, anzi lo disprezza. Pertanto, le pagine che verranno consegnate al lettore saranno totalmente disancorate dalla necessità di una narrazione coerente, lineare, realistica.

La parola diventa lo strumento attraverso cui la letteratura si esprime, emblema del suo carattere marcatamente menzognero. La letteratura è menzogna non esattamente perché inganna il lettore, piuttosto perché è altro da ciò che socialmente si è persuasi a vivere come reale.

La parola menzogna fu considerata irritante. A me pare, tuttavia, che noi siamo irreparabilmente esclusi dalla coazione della verità dall’irreparabile adescamento del linguaggio. Esclusi dunque dal discorso onesto sulla verità, noi siamo nobilitati alla cerimonia disonesta della menzogna, che ci è consentita e imposta, e il cui esito definitivo è la letteratura”. (G. Manganelli, La critica? Una menzogna di secondo grado)

 

Di Ilaria Zammarrelli

 

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Guida all’eteronimia: Alberto Caeiro

Guida all’eteronimia: Alberto Caeiro

Guida all’eteronimia: Alberto Caeiro

Questo articolo è il terzo di una serie completamente dedicata ai quattro principali eteronimi creati da Fernando Pessoa. L’eteronimo analizzato è Alberto Caeiro.

Fernando António Nogueira Pessoa è uno degli scrittori più celebri e fuori dagli schemi della letteratura portoghese. È difficile ingabbiare Pessoa in un unico genere e nel suo caso persino in una un’unica personalità letteraria, grazie alla sua applicazione nella scrittura del concetto di Eteronimia (Heteros: altro – Onoma: Nome). Il termine non è stato coniato da Pessoa, ma egli ha sicuramente aggiunto un significato. La parola “eteronimo” veniva già utilizzata in linguistica per indicare due termini con base diversa che insieme formano una struttura semantica (madre, zio, fratello), oppure in senso grammaticale più stretto sono in relazione di eteronimia le coppie di nomi animati, relativi sia alla sfera umana sia a quella animale, che esprimono la polarità (ad esempio maschio / femmina).

Pessoa utilizza l’eteronomia in ambito letterario, superando il semplice concetto di “pseudonimo”: egli, infatti, pubblica opere in prosa e in poesia vestendo i panni di altri scrittori, con vite e stili diversi, rimanendo tuttavia nel campo delle avanguardie della sua epoca. Non si limita, dunque, a utilizzare un nome fittizio, e neppure a creare un solo eteronimo, ma ben quattro. Pessoa (in quanto ortonimo) fa della sua molteplicità la sua forza. In Lettera sulla genesi dell’eteronimia spiega le sue molteplici personalità letterarie utilizzando teorie mediche in voga all’epoca, ovvero diagnosticandosi “un’isteria-nevrastenica che mira alla spersonalizzazione e alla simulazione.”

Gli eteronimi principali sono quattro: Álvaro de Campos, Alberto Caeiro, Ricardo Reis e Bernardo Soares. In questo articolo analizzeremo la figura di Alberto Caeiro.

Alberto Caeiro è un eteronimo fondamentale per l’esperienza letteraria di Pessoa in quanto ortonimo. Caeiro è ritenuto da lui stesso un maestro, colui che con il suo stile di scrittura ha contribuito alla formazione stilistica del suo vero io. In Lettera sulla genesi dell’eteronimia Pessoa spiega come Alberto Caeiro siano nato all’improvviso, di getto, ma che contemporaneamente abbia contribuito a formare di conseguenza Álvaro de Campos, Ricardo Reis e il resto delle figure che ruotano intorno alla sua persona.

“Un giorno […] – era l’8 marzo 1914 – mi sono accostato ad un alto comò e, preso un foglio di carta, ho iniziato a scrivere, in piedi, come sempre scrivo ogni volta che posso. E ho scritto più di trenta poesie di seguito, in una specie di estasi la cui natura non riuscirei a definire. È stato il giorno trionfale della mia vita e non potrò mai averne un altro così. Ho iniziato con un titolo, O Guardador de Rebanhos (“Il pastore di greggi”). E quanto è seguito è stata la comparsa di qualcuno in me, a cui ho dato subito il nome di Alberto Caeiro. Mi scusi l’assurdo della frase: era apparso in me il mio maestro.”

Come possiamo notare, in quanto fondatore di tutto, Pessoa lo costruisce radicato a uno stato di natura primitivo, lo circonda di un desiderio di semplicità. Caeiro ritorna al periodo in cui l’uomo non era costituito da impalcature sociali, politiche e religiose complesse, come avviene ad esempio con Ricardo Reis, espatriato in Brasile per dissensi politici. Questo eteronimo può essere posizionato nel grado zero dell’umanità, ha ancora il potere della scoperta, di lasciarsi affascinare. Questa caratteristica esistenziale la ritroviamo di conseguenza all’interno delle sue poesie, in grado di creare un’immagine arcaica e contemporaneamente leggera nella mente del lettore.

Tutta la pace della Natura erma
viene a sedersi accanto a me.
Ma io sono triste come un tramonto
per il nostro immaginare,
quando in fondo alla piana rinfresca
e si sente la notte entrata
come una farfalla dalla finestra.

Ciò che lo differenzia dai suoi compagni eteronimi è proprio la sua esperienza legata all’esistenza naturale, una natura che porta a nascere, a evolversi e infine a morire. Alberto Caeiro è infatti l’unico eteronimo la cui morte è effettivamente riportata e stabilita da Pessoa. Caeiro nasce nel 1889 a Lisbona e muore nel 1915 a causa della tubercolosi, dopo aver trascorso gran parte della sua vita in campagna, con un’istruzione elementare e senza una vera professione. Questi due elementi sottolineano come questo eteronimo abbia la funzione di riportare il lettore indietro nel tempo, fargli dimenticare la sua formazione, le sue conoscenze intrinseche o acquisite vivendo all’interno di una società complessa, società che tuttavia non ha nessun tipo di certezza o di verità.

Il mistero delle cose? Che ne so cos’è mistero!
L’unico mistero è che ci sia chi pensi al mistero.
Chi sta al sole e chiude gli occhi,
comincia a non sapere cos’è il sole
e a pensare molte cose piene di calore.
Ma apre gli occhi e vede il sole,
e non può pensare più a niente,
perché la luce del sole vale più dei pensieri
di tutti i filosofi e di tutti i poeti.
La luce del sole non sa cosa fa
e per ciò non erra e è comune e buona.

Federica Ventura

Laureanda in Editoria in perenne ricerca di nuovi stimoli. Prediligo letture disordinate in una vita spettinata. Montagne, oceani o città: l'importante è continuare a muoversi.