Perchè leggere L’Uomo Immaginario è un’esperienza da non lasciarsi sfuggire nella vita

Perchè leggere L’Uomo Immaginario è un’esperienza da non lasciarsi sfuggire nella vita

Perchè leggere L’Uomo Immaginario è un’esperienza da non lasciarsi sfuggire nella vita

Leggere L’uomo Immaginario di Al Ewing è un’esperienza che ognuno dovrebbe fare. Perché sì, L’Uomo immaginario è prima di tutto un’esperienza. Un’esperienza magnifica…

…e per questa esperienza bisogna ringraziare la casa editrice 451, tanto quanto Valerio Stivè, perché ci hanno portato un gioiello di rara bellezza. Ma i ringraziamenti più grandi li voglio fare ad Al Ewing stesso per questo suo esordio nel mondo della narrativa. Per quelli che non conoscono l’autore, Al Ewing è un autore di Comics, famoso per i suoi lavori in Marvel (Guardians of the Galaxy per citarne uno) e sceneggiatore.

La storia parla di Niles Golan, un qualunque scrittore di medio successo, che si muove all’interno di un mondo nel quale la clonazione è stata sì impedita dai vari comitati etici, ma dove, a seguito di cavilli legali e falle nel sistema, le fabbriche cinematografiche ne hanno preso il controllo.

Diventa normale in questo mondo avere diverse versioni di Sherlock Holmes, per esempio, che passeggiano per le strade della città degli angeli. Ma cosa succede a questi cloni (immaginari nel libro) quando la macchina di soldi che il mondo del cinema comporta si interrompe per loro? Quando la saga non viene più seguita, e il loro posto nel mondo viene meno?

Il romanzo, raccontando le avventure di Niles, si muove in un mondo in cui finzione e realtà si confondono. Ti instilla man mano un dubbio, che sia la percezione di ciò che vivi a rendere il mondo reale. Nel frattempo che in te si attanaglia questo dubbio, al protagonista viene affidato un compito ironicamente vitale: rielaborare un film trash degli anni ’60 e portare in vita il suo immaginario.

Conosceremo meglio Niles pagina dopo pagina, lo vedremo compiere un viaggio prima mentale ed emotivo, poi fisico, per capire e accettare una verità: «siamo dei tipi a posto, tutto sommato». Per carità, restiamo tutti stronzi sotto sotto, ma spesso ci creiamo dei demoni che non vale la pena sopportare, e che se non affrontati potrebbero corroderti o, anche peggio, fuoriuscire.

A smuovere la trama dalle prime pagine è il compito che viene affidato a Niles: reinterpretare un vecchio film anni ’60 (un Austin Powers per intenderci) per creare la nuova saga cinematografica che porterà soldi, e presentare il soggetto in pochi giorni così da cominciare la creazione del clone/protagonista.

Snocciolare la trama e la creazione di quel film insieme a Niles, mentre nel frattempo Los Angeles mette in mostra tutte le pecche dello Star System e ne eleva le problematiche a questioni esistenziali, è decisamente un esperienza che ognuno dovrebbe fare.

P.S. Non posso non riportarvi la magnifica autobiografia di Al: «Al Ewing è un personaggio immaginario – In una commedia, scrive e porta a termine un ambizioso romanzo metanarrativo intitolato L’uomo Immaginario; tuttavia, il tentativo finale di sfoggiare uno slancio di sagacia nello spazio riservato alla biografia lo porta, attraverso una serie di bizzarre coincidenze e disavventure, a finire sperduto nelle terre selvagge dell’Alaska, inseguito da un orso. L’autore ha espresso il desiderio di umiliare ulteriormente il personaggio in opere successive».

di Christian Abbate

Il primo “blockbuster” della storia: Star Wars

Il primo “blockbuster” della storia: Star Wars

Il primo”blockbuster” della storia: Star Wars

Il 25 maggio 1977 arrivava nei cinema il primo episodio della prima trilogia di Star Wars, la saga che ha cambiato il cinema, il primo blockbuster della storia che ha cambiato il modo di vendere e di fare il cinema. 

Secondo la definizione dello studioso Geoff King l’espressione New Hollywood identifica tutto il cinema che segue l’era dello studio system, raccogliendo l’arco temporale che va dalla II metà degli anni sessanta al nuovo millennio, individuando al suo interno fasi differenti. La prima, la fase della Hollywood renaissance; la seconda invece, quella che fa da sfondo alla saga delle guerre stellari, è chiamata l’età dei blockbuster. 

A metà degli anni sessanta il cinema si trova in una situazione economica critica: il pubblico prediletto dei produttori cinematografici, le famiglie, abbandonano le sale in favore di nuovi tipi di svago (la televisione, che si fa strada nella borghesia americana minacciando di estinzione l’intrattenimento su pellicola) facendo floppare tutte le costose pellicole prodotte in quegli anni. Ma è dal 1967 che Hollywood pone i prodromi per la sua rinascita per mezzo di pellicole indipendenti e a basso costo, produzioni che nascono dall’estro di registi di formazione universitaria. Appartengono a questi anni film cult come Easy Rider, manifesti della nuova Hollywood, di una nuova società e della controcultura che inizia a vedersi rappresentata.

Nonostante pellicole come Easy Rider, Bonnie & Clyde e Il Laureato determinarono la rinascita di Hollywood, non riuscirono ad apportare introiti economici pari a quelli dell’era dello studio system non riuscendo in definitiva a sottrarre il cinema alla minaccia del piccolo schermo. 

Ma il 25 maggio 1977 lo possiamo definire come il giorno della rinascita per Hollywood: è infatti il giorno in cui nelle sale approda il primo film della fortunatissima saga Star Wars, diretto da George Lucas. Si apre così l’era dei blockbuster, film con budget stellari destinati a incassare moltissimo al botteghino. Si opta soprattutto per film d’azione in grado di scollare le persone dal televisore proponendo loro la visione di qualcosa di sensazionale ed imperdibile che il piccolo schermo non è in grado di offrire: Geoff King parla di “formato a picchi” per descrivere le sequenze spettacolari e di tensione dei moderni blockbuster che si presentano più frequentemente rispetto alle lineari trame proposte dalla tv e, ancora prima, dalla Hollywood classica. 

Come nota Marco Cucco la vera rivoluzione sta nel fatto che i blockbuster portano sullo schermo generi di serie B: questi generi hanno il vantaggio di «trasmettere un’esperienza immediata, diretta e non ambigua […] di natura fenomenologica», permettendo in questo modo che qualsiasi persona, indipendentemente dall’età, dal ceto e dalla cultura, possa apprezzarli. 

Blockbusters come Star Wars inoltre vengono pensati per diventare dei veri e propri franchise, cioè marchi sfruttabili anche in altri settori al fine di ottenere profitti ulteriori (alle volte anche superiori agli incassi del botteghino).  

Star Wars quindi ha cambiato il modo di andare e approcciarsi al cinema; ma ha anche cambiato il modo di fare il cinema, creando delle rappresentazioni paradigmatiche che hanno ispirato molte delle saghe successivamente prodotte. Nel 1977 produttori e registi non avevano a disposizione gli strumenti tecnici della post produzione che oggi permettono di creare qualsiasi effetto speciale; quindi come hanno creato alcuni fra gli effetti speciali più famosi ed iconici della saga che hanno inevitabilmente influenzato ogni successiva rappresentazione di storie ambientate nello spazio?

Spade laser: nel primissimo episodio (Episodio IV) le spade erano fisicamente sul set: si trattava di tubi estremamente riflettenti che se colpiti con della luce sono in grado di rimandare in camera la quasi totalità della luce. Inoltre le spade, all’atto della ripresa, erano tutte bianche: il colore veniva poi dato in post produzione (quindi colorando le spade direttamente sulla pellicola). Queste spade fisiche avevano però alcuni contro: l’attore non poteva muoversi troppo liberamente con la spada in mano perché se fosse uscito dalla zona illuminata, la spada non sarebbe stata in grado di riflettere la luce in camera. Inoltre era impossibile creare l’effetto di accensione in modo fluido: nel primo episodio infatti, se si fa attenzione, si riesce a vedere che prima dell’accensione della spada la scena ha subito un taglio. Dal film successivo vengono abbandonate le spade fisiche e Lucas decide che vengano create in post-produzione. naturalmente non c’erano gli strumenti tecnici di oggi, quindi venivano disegnate singolarmente su ogni frame di pellicola. 

Combattimenti spaziali: i combattimenti tra navicelle spaziali sono moltissimi. per ricrearli venivano riprese le navicelle singolarmente su bluescreen, e poi venivano composti (come oggi si farebbe con after effects) con tanti elementi di pellicola uno sopra l’altro. 

Personaggi fantastici: è Frank Oz, la voce di Kermit la rana del muppet show, il demiurgo che muove il pupazzo di Yoda. Per creare questo iconico personaggio l’incaricato degli effetti speciali si prese la briga di crearne lui stesso il design a sua immagine e somiglianza. Durante le riprese Yoda era messo in movimento da ben tre persone.

Giorgia Grendene

Sono Giorgia e amo le cose vecchie e polverose (come la mia laurea in lettere classiche), le storie un po’ noiose che richiedono tempo per essere raccontate e apprezzate, i personaggi semplici con storie disastrose. Mi piacciono il bianco e nero e il technicolor molto più del 4K, i libri di carta molto più degli e-book, il salato molto più del dolce, i cani molto più dei gatti.

Zendaya e l’anti-film di San Valentino

Zendaya e l’anti-film di San Valentino

Zendaya e l’anti-film di San Valentino

Abbiamo amato Zendaya sin dai suoi albori a Disney Channel, abbiamo imparato ad apprezzarla in “The Greatest Showman” e nei film di Spiderman con Tom Holland, l’abbiamo venerata come una dea in “Dune” ed “Euphoria”. Ma l’avete vista nel film “Malcolm & Marie”?

La pandemia può aver portato via molte cose, ma di certo non la voglia di celebrare l’amore (o il consumismo). Anche quest’anno San Valentino incombe dietro l’angolo e, volenti o nolenti, le piattaforme streaming si riempiono di film e serie tv che virano immancabilmente tutti sullo stesso tema. Amore, amore, amore: romantico, tormentato, drammatico o a lieto fine, sembra di assistere alla stessa storia che si ripete in un loop infinito. Dov’è finita l’originalità? C’è qualcuno che si salva dai soliti sciupati cliché? Può Zendaya salvare la situazione, anche questa volta?

Premesse euforiche

Il primo trailer che annunciava l’uscita del film Netflix Malcolm & Marie risale all’8 gennaio 2021. La presenza di Zendaya e quella di Sam Levinson dietro le quinte ha mandato subito in fibrillazione i fan della serie tv Euphoria: Zendaya, infatti, non solo interpreta il personaggio di Rue Bennett nella serie, ma per la sua prova ha anche vinto il premio Emmy come miglior attrice protagonista di una serie drammatica. La scrittura di Levinson ˗ odiata o amata ˗ promette grandi cose, soprattutto con l’uscita dell’attesissima seconda stagione di Euphoria. Se vi siete persi dei pezzi, trovate qui un articolo per ricapitolare la situazione.

In Malcolm & Marie, accanto a Zendaya c’è John David Washington. Chi ha visto Tenet lo ha sicuramente riconosciuto: Washington interpreta il protagonista senza nome dell’ultimo film di Christopher Nolan.

Netflix ha acquistato i diritti del film per trenta milioni di dollari (ndr. Euphoria è distribuita da HBO, in Italia da Sky Atlantic e Now Tv). Malcolm & Marie è stato uno dei pochissimi film girati nel pieno della pandemia, quando la situazione era ancora critica, rispettando comunque le misure di sicurezza anti-Covid.

Per Netflix si tratta del secondo film recente girato in bianco e nero che trova spazio nei suoi cataloghi. A inizio 2021, infatti, è uscito il film Mank, diretto da David Fincher e ispirato, men che meno, al capolavoro di tutti i tempi Quarto potere. Nel caso di Mank, la scelta bicromatica è chiaramente volta alla rievocazione della vecchia Hollywood e dello stile del film di Orson Welles. Nel caso di Malcolm & Marie, invece, che significato ha la rinuncia al multicolore? È solo un vezzo stilistico o è una scelta che nasconde altro?

 

Trama? Una partita a tennis

La trama è estremamente essenziale e di fatto non genera alcuno sviluppo concreto, se non un lungo e infuocato dialogo tra i due personaggi in scena. La coppia è appena tornata a casa dopo la première del film di cui Malcolm è il regista. L’uomo è contento e su di giri perché la proiezione è andata molto bene. Marie, sua musa e fidanzata, appare fredda e distaccata.

Il casus belli è che Malcolm, durante il suo discorso, ha dimenticato di ringraziare Marie. Nel corso della discussione lo spettatore capisce che il film (nel film) parla di una ragazza tossicodipendente di colore. Marie accusa a più riprese Malcolm di essersi ispirato a lei e alla sua vita per creare il lungometraggio di cui va tanto fiero, senza però davvero riconoscerle alcun merito, vista la sua omissione (consapevole o meno) durante il discorso di ringraziamento.

Il litigio prosegue anche sul terreno amoroso, con una serie di accuse incrociate che toccano ogni aspetto del loro rapporto, dal morboso al passionale. Ci sono anche momenti felici, in questa lunga notte di guerriglia, ma sono rari e assomigliano più a un continuo coito interrotto che a una vera e propria tregua.

Malcolm & Marie racconta di una colossale litigata di coppia lunga una notte. Data l’idea di fondo su cui si basa (due persone e una casa), non ci si può aspettare un film movimentato, con tanti cambi di ambientazioni e diversi personaggi in scena. Men che meno se si pensa che è stato girato durante la fase acuta della pandemia, cosa che ha richiesto un numero limitatissimo di persone sul set e una location controllata dove poter girare.

Al di là dei limiti imposti dalle norme anti-Covid, il film è un intenso – e a tratti spaventoso – giro sulle montagne russe di un rapporto già di per sé complicato. Le variazioni dal pattern odio-amore sono poche, perché di fatto tutto il film si regge su questo, quindi vi è una ripetitività intrinseca che inizia a far sentire il suo peso dalla metà in poi. Come fare le stesse montagne russe dieci volte.

Malcolm & Marie non è solo questo. Nel lungometraggio di Levinson convivono due discorsi piuttosto evidenti. Il primo riguarda il rapporto tra i due personaggi, con i loro caratteri, il loro vissuto e le loro debolezze. Il secondo, invece, riguarda la creazione cinematografica, le implicazioni politiche, la critica. Ed è qui che nasce la polemica.

Sam Levinson ovvero l’uomo delle polemiche

Levinson non ha mezze misure e, di conseguenza, o lo si ama o lo si odia. La sua scrittura può piacere oppure no, ma in questo caso ha sollevato un vero polverone di critiche.

Malcolm è indubbiamente un personaggio nevrotico, narcisista, ossessivo e vendicativo, con un gigantesco ego da artista incompreso, e pensa che la propria arte sia tra le poche a essere “Vera Arte”. In tutto ciò, arriva a prendersela con una critica cinematografica (bianca) a suo avviso poco competente, che nella recensione del film ha voluto ridurre la sua opera a un discorso politico sulla razza (quando in realtà non lo è) solo perché Malcolm è un regista nero.

In molti hanno rivisto nel discorso del personaggio una risposta del regista Sam Levinson alla recensione che Katie Walsh aveva scritto sull’ L.A. Times in merito al suo precedente film (anche in Malcolm & Marie, Malcolm se la prende con “una dell’L.A. Times”). Ad assistere al suo monologo di frustrazione contro la critica di settore c’è Marie (interpretata da Zendaya), che viene a più riprese travolta da un rabbioso mansplaning.

Non solo a molti è sembrato che Levinson si volesse celare dietro al personaggio di Malcolm per regolare i propri conti aperti, ma lo fa tirando in ballo un’altra questione scottante, quella del colore della pelle e della politicizzazione delle pellicole. In moltissimo hanno accusato Levinson di aver messo in bocca a un attore nero un discorso da regista bianco privilegiato e frustrato che se la prende con un mondo in cambiamento che non riconosce più. Il protagonista nero è stato percepito come un escamotage per validare il discorso di Levinson: il regista nero che critica la critica per non voler fare critica sociale è Levinson che scalpita per non essere vincolato dalle critiche.

Qualcuno è arrivato ad additare Levinson come il white savior della situazione, perché nel film Malcolm sostiene con forza che un regista nero può benissimo fare un film che non sia affatto politico. Il problema è, ancora una volta, che la fonte di questo pensiero è un maschio bianco figlio del privilegio, e che vada a parlare di qualcosa che in teoria non gli compete.

Per fortuna, Malcolm & Marie è un film talmente ricco che può essere letto da una molteplicità di angolazioni. Un elemento imprescindibile è il personaggio interpretato dalla splendida Zendaya, che costituisce di fatto un contrappunto a tutto ciò che Malcolm rappresenta, nel lavoro come musa e nella loro relazione come amante. Marie ribatte a ogni invettiva, proponendo una visione opposta a quella del fidanzato, in un continuo ribaltamento di punti di vista che vuole portare acqua al mulino di entrambi.

Il personaggio di Marie possiede comunque una serie di tratti che la rendono per certi versi più vulnerabile: è più giovane, viene da un passato di tossicodipendenza, ha una serie di ferite ancora non rimarginate e sembra aggrapparsi a Malcolm come a un’ancora di salvezza dalla quale minaccia di staccarsi senza mai davvero farlo.

La tossicità è pervasiva e va a braccetto con la dipendenza. Non quella dai farmaci, che sembra ormai essere un residuo del passato, ma quella emotiva e affettiva che inquina il rapporto tra i due protagonisti. La mascolinità tossica di Malcolm e la dipendenza di Marie a tutto ciò che è tossico è un serpente che si morde la coda non diverso da quello riscontrabile in altre storie e in altri film, ma qui portato alle estreme conseguenze (come piace fare a Levinson).

Conclusioni

Al di là di tutto ciò che ogni spettatore può leggere in questo film, la regia e gli attori sono di grande qualità. La fotografia è artistica e visivamente evocativa, sfrutta angolazioni e riflessi per sottolineare la bipartizione dei due protagonisti. Perché in bianco e nero? È bello pensare che l’assenza dei colori voglia spingere lo spettatore a concentrarsi sull’essenza delle cose, sulle emozioni, e non sui mille stimoli visivi che normalmente pervadono (quasi invadono a volte) una normale pellicola.

Zendaya e Washington sono a dir poco strepitosi (lei era stata nominata ai Critics Choice Award come miglior attrice per questo film). Ciascuno di loro è riuscito in modo eccellente a dar vita ai personaggi, donando loro tutto ciò che potevano offrigli, urla, lacrime e dolore soprattutto. La potenza dei dialoghi è amplificata dalle loro interpretazioni travolgenti, tanto che in alcuni punti sembrano bucare lo schermo. Una buona fetta dell’intensità che può vantare questo film è merito loro.

La colonna sonora è curata da Labirinth come in Euphoria, anche se è di tutt’altro stampo. La cosa curiosa è che in alcuni punti sembra che le canzoni parlino per i personaggi e dicano ciò che loro non riescono a pronunciare.

Polemiche o non polemiche, Malcolm & Marie è un bel film per chi lo sa apprezzare (e per chi non si aspetta la solita commediola romantica di un’ora e mezza). Probabile che alcuni lo troveranno troppo statico, pesante, costruito, forzato e perché no pretenzioso, autoreferenziale e fine a sé stesso. Ma vale una visione, anche solo per fare l’esperienza di venire travolti da un fuoco incrociato senza pietà, in un rapporto che è un campo minato dove a ogni passo la terra può esplodere sotto i piedi. Cast e regia sono eccellenti, e la sceneggiatura non lascia indifferenti, come si è visto.

Per chiudere la questione sulle accuse, uno scenario altrettanto probabile è che Levinson abbia scritto un film come questo proprio per sollevare certe critiche che, puntualmente, sono arrivate. È indubbio che sia riuscito a costruito un corposo e cerebrale discorso non privo di fascino, nella sua complessità.

Anche se Malcolm dice che un buon film non deve avere per forza un messaggio, noi possiamo estrapolare un monito molto concreto, valido per questo San Valentino e per quelli a venire: non dare mai nessuno per scontato. O preparatevi alla notte più lunga della vostra vita, parola di Zendaya.

Martina Costanzo

Sono Martina Costanzo, laureata in lettere moderne all'Università degli Studi di Milano e attualmente insegnante di italiano alle scuole medie e superiori. Oltre alla lettura, la mia grande passione è il cinema. Per IoVoceNarrante scrivo le recensioni dei film e delle serie tv di successo appena usciti, e classifico i migliori prodotti da vedere. Nessuno è mai rimasto deluso da un mio consiglio, provare per credere.

“The Wall” il film: un album raccontato per immagini

“The Wall” il film: un album raccontato per immagini

“The Wall” il film: un album raccontato per immagini

Droghe e incomunicabilità, omologazione e surrealismo: è questo – e molto altro – il film tratto dal concept album “The Wall” ispirato all’omonimo album dei Pink Floyd che usciva il 30 novembre di 42 anni fa.

TRAMA

Il film racconta di Pink, una rockstar che vive un profondo disagio interiore dettato da un passato travagliato e un presente straniante fatto di droghe, solitudine e depressione che lo porteranno a diventare un dittatore.

Pink raccoglie in sé non solo il profondo disagio esistenziale della generazione degli anni ’70 ma anche le caratteristiche biografiche dei componenti della storica band: proprio come R. Waters, infatti, il protagonista perde il padre durante la Seconda Guerra Mondiale e trascorre l’infanzia vivendo un soffocante ambiente scolastico. Allo stesso modo la profonda depressione e la dipendenza da sostanze stupefacenti si rifà alla vita di Syd Barrett.

LA GENESI

Dopo aver vissuto sulla propria pelle il disagio derivante dal successo mondiale è proprio Roger Waters a voler andare oltre il proprio album e a progettare una componente visual che potesse accompagnare e completare un album già di per sé fantastico, con il desiderio di dare una forma al surrealismo atmosferico dell’album.

La pellicola, diretta da Alan Parker, coniuga la parte recitata a una parte animata che nasce dai disegni di Gerald Scarfe. Ma la creazione del prodotto non fu per nulla facile: la collaborazione tra le tre menti – Waters, Scarfe e Parker – fu talmente travagliata che il montaggio del film richiese una quantità di tempo molto superiore alle aspettative, circa otto mesi di tempo.

HA SENSO “VEDERE” THE WALL?

Questa pellicola è un prodotto di cui si è discusso molto fin dalla sua uscita nel 1982. Presentata al Festival di Cannes, non riscosse molto successo a causa della sua natura molto poco definita. Il film, infatti, appare alle volte come un miscuglio anche mal assortito di immagini deliranti. Lo stesso Waters ha ammesso più volte di essere rimasto confuso dal risultato finale; dello stesso parere poi fu anche il regista che più volte definì la pellicola come un “mix di idee folli di Roger Waters”.

La parte più interessante però è la componente visuale creata dalle mani di Gerald Scarfe: le illustrazioni dell’artista hanno fatto la storia e l’immaginario dell’album e creato un binomio inscindibile di musica e immagini. Lo spettatore assiste al viaggio introspettivo del protagonista che, isolatosi in una camera d’albergo, vede scorrere davanti a sé tutta la sua vita, fra ricordi reali e ricordi psichici.

I disegni di Scarfe sono crudi, violenti e disturbanti: eppure solo in questo modo sarebbe stato possibile rendere al meglio la visione che Pink ha del mondo, storpiata dall’alienazione, dal disagio e dalla paura.

Il risultato è un prodotto scostante, con un’atmosfera pesante – che benissimo rende l’atmosfera dell’album – ma difficile da digerire. La pellicola trova linfa vitale e splendida esecuzione nella dicotomia musica e animazione; altrettanto però non si può dire per il recitato, che invece risulta confuso, involuto e capzioso.

Giorgia Grendene

Sono Giorgia e amo le cose vecchie e polverose (come la mia laurea in lettere classiche), le storie un po’ noiose che richiedono tempo per essere raccontate e apprezzate, i personaggi semplici con storie disastrose. Mi piacciono il bianco e nero e il technicolor molto più del 4K, i libri di carta molto più degli e-book, il salato molto più del dolce, i cani molto più dei gatti.