Pessoa e Penna: poetica del frammento

Pessoa e Penna: poetica del frammento

Pessoa e Penna: poetica del frammento

Fernando Pessoa, esponente di spicco della letteratura portoghese contemporanea, è stato capace di condensare nella brevità dei suoi pensieri tutta la problematica esistenziale che si staglia nel Novecento; allo stesso modo l’italiano Sandro Penna è in grado, adottando una linea intimista e lieve, di esprimere con forza la virulenza dell’esistenza stessa.

Vorrei chiedere agli Dei di custodirmi come uno scrigno, difendendomi dalle amarezze ma anche dalla felicità della vita. 

Pessoa, Il libro dell’inquietudine, frammento 178

 

Io vivere vorrei addormentato

entro il dolce rumore della vita

Sandro penna 

 

La complessità del quotidiano non manca di offrire spunti di riflessione. Il reale, direbbe Agostino, è come un campo di battaglia: vi sono due schiere che si azzuffano, che si affrontano con tenacia. La violenza nella quale un soldato è immerso durante uno scontro è pervasiva e il discernimento diventa una qualità quasi inoperabile in tanta confusione. Colui che riesce a ragionare in tale caos è paragonabile ad un militare che dall’alto della collina, avendo una visione privilegiata, muove le azioni belliche. Ebbene, il reale può essere paragonato ad un campo di battaglia: complesso, labirintico, ad un primo sguardo quasi insensato. 

Tessere le fila della realtà e crearne una trama che tenga conto di tutte le sfumature è ardito e complesso: il romanzo moderno e contemporaneo, ad esempio, ha raccolto la sfida ma la rappresentazione, nella maggior parte dei casi, è tacciabile di parzialità. 

Di fronte a questo adynaton alcuni autori hanno deciso di adottare la frammentarietà per rappresentare il reale: scomporre un corpo complesso e considerarne piccole parti risulta più agevole allo sguardo individuale.

Pessoa e il frammento

A tal proposito l’opera emblematica di Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine (Livro do Desassossego), prende a base costitutiva proprio il frammento la cui forma duttile viene declinata abilmente nei meandri della realtà. Giornale intimo, diario esistenziale: la classificazione di quest’opera sfugge al sistema dei generi canonicamente utilizzato. Potremmo definirla un diario dell’anima attraverso il quale l’esplorazione frammentaria del reale prende una forte piega intimista, immergendosi fino alle profonde pieghe della coscienza. L’incessante porsi domande di Bernardo Soares, eteronimo e voce principale dell’opera, scandisce questa esplorazione bifronte, del reale sensibile ed emozionale. 

Le confessioni frammentarie sono affidate proprio ad uno dei principali eteronimi creati da Pessoa: Bernardo Soares. Sebbene la creazione degli eteronimi (e. g. Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Alvaro de Campos) sia un artificio di natura letteraria, quella di Soares ha un significato tutto particolare: il sognatore triste e malinconico di Rua dos Douradores, indifeso di fronte alla vita, rispecchierebbe più degli altri eteronimi la personalità di Pessoa.

Nel frammento sopracitato, il numero 178, lo sguardo di Bernardo Soares pare annullarsi: con le poche battute di questa preghiera tutta pagana la gioia e le delusioni della vita, due poli opposti della ricerca individuale, si parificano e diventano elementi di egual valore dello spleen esistenziale, punto di incontro e motore della raccolta di frammenti. Il male di vivere, il male del secolo, il male ad amare o di morire, il male di dire: lo spleen, ben riassumendo tutte queste sensazioni, diventa una protezione dal reale, come uno scudo, e privilegia l’adozione di una posizione alienante dalla realtà; l’io lirico desidera diventare spettatore, seppur consapevole, passivo e nascosto, al riparo dai rivolgimenti della vita. L’identità delle divinità invocate è a tal punto incerta che ben riflette le inquietudini di un animo che, pur di essere conservato, rinuncia a una vita attiva. 

L’essenzialità di Sandro Penna

Anche nel secondo estratto citato pare che si rinunci alla vita attiva, e il frammento, questa volta in forma di distico di endecasillabi, ne veicola l’armonioso ritmo. 

I due celebri versi di Sandro Penna appaiono nella sua prima raccolta del 1939 intitolata Poesie: in essa i tratti essenziali dello stile di Penna, quali l’essenzialità e la sintassi iterativa, accompagnata al gusto per un timido quotidiano, trovano già riscontro. 

Il distico citato inscena un io lirico che vorrebbe tenere per sé solo la dolcezza del reale, evitando le ferite sia corporali sia dell’anima. Il desiderio, che nel frammento di Pessoa è di custodia e di protezione, si configura in Sandro Penna come sogno, voglia di vivere in una dimensione onirica, eternamente soave e uguale a sé stessa, integra nella sua magnificazione parmenidea. L’aspirazione alla felicità di un’anima sensibile non passa attraverso battaglie o boriose allocuzioni, ma al sacrificio di una parte di sé. 

Il reale ha nella forma concisa ed essenziale del frammento un principio di completezza: se il valore fattuale è difficilmente rappresentabile in termini di parole, rime, tele o colpi di scalpello il punto di vista di un individuo si interiorizza massimamente e capovolge i ruoli. Se la rappresentazione del reale appare complicata l’io lirico descrive le sensazioni che i fatti stessi ispirano e una conseguenza di ciò, ben rappresentata nella letteratura e nelle arti pittoriche (vedi il simbolismo), è un allontanamento dal reale stesso

A ben vedere lo straniamento è il punto di incontro fra i due frammenti citati: la preservazione e il sogno, due temi cari a Pessoa e Penna, imbrigliano la forma frammentaria, ne ridimensionano l’espressione per un potente significato escatologico. 

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Emily Dickinson e il coraggio di essere dei re

Emily Dickinson e il coraggio di essere dei re

Emily Dickinson e il coraggio di essere dei re

Il ricordo di Emily Dickinson, poetessa statunitense vissuta nell’800, rimane vivo grazie alle sue numerose poesie, fonte di riflessione e ricche di significato. Vogliamo omaggiarla ricordando una delle sue poesie più belle.

 

Emily Dickinson nasce il 10 dicembre 1830, e il suo nome rimanda subito alla nostra memoria le sue poesie: delicate, coraggiose e infinitamente belle. Semplici da comprendere ma prive di banalità, hanno il potere d’insegnarci ogni volta qualcosa che, forse, avevamo tralasciato.

Ha vissuto soprattutto nella casa della sua famiglia d’origine, borghese e di tradizioni puritane. Difficile è stato per la poetessa il rapporto col padre, che definì in questo modo: “Mi compra molti libri ma mi prega di non leggerli perché ha paura che scuotano la mente”.

All’età di venticinque anni decide di recludersi nella propria camera, e non uscì neppure quando morirono i suoi genitori.

In molti dei suoi componimenti possiamo scorgere la figura di un uomo, il reverendo Charles Wadsworth, di cui si innamorò. Era, però, già sposato con figli e l’amore che provò per lui rimase platonico.
Emily Dickinson morì di nefrite ad Amherst, medesimo posto in cui era nata, il 15 maggio 1886 all’età di 55 anni.

Non conosciamo mai la nostra altezza

Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito
arriva al cielo la nostra statura.
L’eroismo che allora recitiamo
sarebbe quotidiano, se noi stessi
non c’incurvassimo di cubiti
per la paura di essere dei re.

Cos’è la nostra altezza se non il nostro valore? Quel che siamo in grado fare e, soprattutto, di essere, ma che spesso sminuiamo. Paradossalmente, è più facile riconoscere il valore e le capacità altrui, il loro essere all’altezza, e dimentichiamo quel che siamo noi. Ci nascondiamo dietro le nostre insicurezze, sempre in disparte, abbandoniamo il coraggio di metterci alla prova.

Quando siamo chiamati a tentare ci accorgiamo di essere meno piccoli di quel che credevamo. Dopo esserci alzati, se abbiamo la forza di continuare e di non lasciarci vincere dalla paura di non essere abbastanza, arriva al cielo la nostra statura.

Il nostro eroismo, però, non dovrebbe essere occasionale, ma quotidiano. Dovremmo abbracciare quel coraggio, quella voglia di uscire dall’oscurità delle nostre insicurezze. Dovremmo abbandonare la paura di essere dei re, senza accontentarci di una vita vissuta in disparte.

Siamo abituati a vivere tra la massa, come se il nostro contributo fosse insignificante. Ci disperdiamo tra la folla, non alziamo la voce, non ci esponiamo. Farlo significherebbe rischiare di non essere apprezzati da chiunque e a noi non piace gestire i rifiuti. Non siamo neppure in grado di farlo. È più facile osservare le vite degli altri, non indagare sulle nostre potenzialità e darci dei no a priori.

 

Solo due quartine, otto versi e poche parole, ma colme di significato. Emily Dickinson ci chiama ad agire, a riconoscere la nostra altezza, a fare i conti con la nostra autostima. Ci esorta a tentare pur riconoscendo la paura che comporta. Si rivolge a chi vuole essere coraggioso, ma non sa come.

Una poesia non deve essere solo letta, ma vissuta, interpretata e fatta propria. È un’esperienza che si consuma verso dopo verso, ma che non si esaurisce mai.

 

Martina Macrì

Sono Martina, ho una laurea in Lettere e studio Semiotica a Bologna. La scrittura è il mio posto sicuro, il mio rifugio. Scrivo affinché gli altri, o anche solo una persona, mi leggano e si riconoscano. Su IoVoceNarrante mi occupo principalmente di letteratura.  

Guida all’eteronimia: Alberto Caeiro

Guida all’eteronimia: Alberto Caeiro

Guida all’eteronimia: Alberto Caeiro

Questo articolo è il terzo di una serie completamente dedicata ai quattro principali eteronimi creati da Fernando Pessoa. L’eteronimo analizzato è Alberto Caeiro.

Fernando António Nogueira Pessoa è uno degli scrittori più celebri e fuori dagli schemi della letteratura portoghese. È difficile ingabbiare Pessoa in un unico genere e nel suo caso persino in una un’unica personalità letteraria, grazie alla sua applicazione nella scrittura del concetto di Eteronimia (Heteros: altro – Onoma: Nome). Il termine non è stato coniato da Pessoa, ma egli ha sicuramente aggiunto un significato. La parola “eteronimo” veniva già utilizzata in linguistica per indicare due termini con base diversa che insieme formano una struttura semantica (madre, zio, fratello), oppure in senso grammaticale più stretto sono in relazione di eteronimia le coppie di nomi animati, relativi sia alla sfera umana sia a quella animale, che esprimono la polarità (ad esempio maschio / femmina).

Pessoa utilizza l’eteronomia in ambito letterario, superando il semplice concetto di “pseudonimo”: egli, infatti, pubblica opere in prosa e in poesia vestendo i panni di altri scrittori, con vite e stili diversi, rimanendo tuttavia nel campo delle avanguardie della sua epoca. Non si limita, dunque, a utilizzare un nome fittizio, e neppure a creare un solo eteronimo, ma ben quattro. Pessoa (in quanto ortonimo) fa della sua molteplicità la sua forza. In Lettera sulla genesi dell’eteronimia spiega le sue molteplici personalità letterarie utilizzando teorie mediche in voga all’epoca, ovvero diagnosticandosi “un’isteria-nevrastenica che mira alla spersonalizzazione e alla simulazione.”

Gli eteronimi principali sono quattro: Álvaro de Campos, Alberto Caeiro, Ricardo Reis e Bernardo Soares. In questo articolo analizzeremo la figura di Alberto Caeiro.

Alberto Caeiro è un eteronimo fondamentale per l’esperienza letteraria di Pessoa in quanto ortonimo. Caeiro è ritenuto da lui stesso un maestro, colui che con il suo stile di scrittura ha contribuito alla formazione stilistica del suo vero io. In Lettera sulla genesi dell’eteronimia Pessoa spiega come Alberto Caeiro siano nato all’improvviso, di getto, ma che contemporaneamente abbia contribuito a formare di conseguenza Álvaro de Campos, Ricardo Reis e il resto delle figure che ruotano intorno alla sua persona.

“Un giorno […] – era l’8 marzo 1914 – mi sono accostato ad un alto comò e, preso un foglio di carta, ho iniziato a scrivere, in piedi, come sempre scrivo ogni volta che posso. E ho scritto più di trenta poesie di seguito, in una specie di estasi la cui natura non riuscirei a definire. È stato il giorno trionfale della mia vita e non potrò mai averne un altro così. Ho iniziato con un titolo, O Guardador de Rebanhos (“Il pastore di greggi”). E quanto è seguito è stata la comparsa di qualcuno in me, a cui ho dato subito il nome di Alberto Caeiro. Mi scusi l’assurdo della frase: era apparso in me il mio maestro.”

Come possiamo notare, in quanto fondatore di tutto, Pessoa lo costruisce radicato a uno stato di natura primitivo, lo circonda di un desiderio di semplicità. Caeiro ritorna al periodo in cui l’uomo non era costituito da impalcature sociali, politiche e religiose complesse, come avviene ad esempio con Ricardo Reis, espatriato in Brasile per dissensi politici. Questo eteronimo può essere posizionato nel grado zero dell’umanità, ha ancora il potere della scoperta, di lasciarsi affascinare. Questa caratteristica esistenziale la ritroviamo di conseguenza all’interno delle sue poesie, in grado di creare un’immagine arcaica e contemporaneamente leggera nella mente del lettore.

Tutta la pace della Natura erma
viene a sedersi accanto a me.
Ma io sono triste come un tramonto
per il nostro immaginare,
quando in fondo alla piana rinfresca
e si sente la notte entrata
come una farfalla dalla finestra.

Ciò che lo differenzia dai suoi compagni eteronimi è proprio la sua esperienza legata all’esistenza naturale, una natura che porta a nascere, a evolversi e infine a morire. Alberto Caeiro è infatti l’unico eteronimo la cui morte è effettivamente riportata e stabilita da Pessoa. Caeiro nasce nel 1889 a Lisbona e muore nel 1915 a causa della tubercolosi, dopo aver trascorso gran parte della sua vita in campagna, con un’istruzione elementare e senza una vera professione. Questi due elementi sottolineano come questo eteronimo abbia la funzione di riportare il lettore indietro nel tempo, fargli dimenticare la sua formazione, le sue conoscenze intrinseche o acquisite vivendo all’interno di una società complessa, società che tuttavia non ha nessun tipo di certezza o di verità.

Il mistero delle cose? Che ne so cos’è mistero!
L’unico mistero è che ci sia chi pensi al mistero.
Chi sta al sole e chiude gli occhi,
comincia a non sapere cos’è il sole
e a pensare molte cose piene di calore.
Ma apre gli occhi e vede il sole,
e non può pensare più a niente,
perché la luce del sole vale più dei pensieri
di tutti i filosofi e di tutti i poeti.
La luce del sole non sa cosa fa
e per ciò non erra e è comune e buona.

Federica Ventura

Laureanda in Editoria in perenne ricerca di nuovi stimoli. Prediligo letture disordinate in una vita spettinata. Montagne, oceani o città: l'importante è continuare a muoversi. 

Alda Merini e l’amore per la poesia

Alda Merini e l’amore per la poesia

Alda Merini, poetessa milanese scomparsa nel 2009, ha raccontato in versi l’amore carnale e l’amore per la poesia, sua compagna di vita. Ha testimoniato le sofferenze e il desiderio di libertà provate all’interno dei manicomi in cui è stata internata per diversi anni.

Alda Merini nasceva il 21 marzo 1931 in una Milano che amava immensamente. Crebbe in una famiglia di umili condizioni e frequentò un istituto professionale. Cercò di trasferirsi al liceo Manzoni, ma non superò il test di italiano e si dedicò a studiare pianoforte. A quindici anni, però, emerse il suo talento e pubblicò due poesie all’interno di un’antologia.

L’anno successivo, a soli sedici anni, comparvero i primi segni di una malattia che la perseguiterà per il resto della vita: il disturbo bipolare. Erano anni bui per le persone considerate pazze, internate nei manicomi senza alternative. La poetessa milanese non ricevette cure adeguate, ma solo numerose privazioni, subendo l’elettroshock. In quei luoghi dediti a torture ancora legali per diversi anni, Alda Merini riuscì a concepire poesie meravigliose, intense e forti, contrastando la bruttezza che la circondava. Da questa esperienza, infatti, nacque la raccolta La terra santa: un viaggio che attraversa i momenti vissuti all’interno del manicomio.
È stata marchiata dal fardello della follia, una compagna di vita scomoda e limitante, ma che le ha permesso di vedere il mondo da un altro punto di vista. Leggiamo un pezzo della lunga e struggente poesia Laggiù dove morivano i dannati:

[…]
Laggiù nel manicomio
dove le urla venivano attutite
da sanguinari cuscini
laggiù tu vedevi Iddio
non so, tra le traslucide idee
della tua grande follia.
[…]

Il manicomio era il posto in cui non si poteva urlare il proprio dolore, dove non c’era posto per l’umanità e le urla venivano soffocate. È in quella mancanza che Alda Merini trovò Dio, lo vide in mezzo al nulla e lo sentì tra le pareti del silenzio. Credeva in Dio, pur non accettando che il sesso fosse trattato come un peccato. Ella amava l’amore sentimentale e il desiderio carnale, protagonisti di numerose poesie. Si innamorava continuamente, accettando anche la conseguente sofferenza. Visse relazioni difficili e conobbe uomini complicati, infedeli, che non le donavano tutto l’amore che lei dava loro. È in quell’amore, tra le braccia di un uomo, che riesce a stare bene. Ce lo racconta nella poesia C’è un posto nel mondo dove il cuore batte forte:

C’è un posto nel mondo
dove il cuore batte forte,
dove rimani senza fiato,
per quanta emozione provi,
dove il tempo si ferma
e non hai più l’età;
quel posto è tra le tue braccia
in cui non invecchia il cuore,
mentre la mente non smette mai di sognare…
Da lì fuggir non potrò
poiché la fantasia d’incanto
risente il nostro calore e no…
non permetterò mai
ch’io possa rinunciar a chi
d’amor mi sa far volar.

Non può fuggire da quel posto, fonte di una felicità priva di eguali. Non può e non sa rinunciarvi perché anche se il tempo passa e si riversa sul corpo, lì il cuore non invecchia mai. Rimane vivo.

Alda Merini era sposata con un panettiere, ma in seguito alla sua morte sposò il poeta Michele Pierri, che aveva apprezzato molto le sue poesie. Si trasferì per tre anni a Taranto e scrisse il suo primo libro in prosa: L’altra verità. Diario di una diversa. A Taranto, però, venne nuovamente internata e visse anni terribili, le impedirono anche di vedere le figlie. Soltanto dopo il 1978, anno in cui la Legge Basaglia chiuse i manicomi, Alda Merini poté ritrovare la serenità perduta.

Alda Merini e Michele Pierri

Accanto all’amore carnale e alla follia, anche l’amore per la poesia è dominante nelle opere di Alda Merini. Emerge il contrasto e il legame che esiste tra la sofferenza e la bellezza, tra la solitudine e la creatività. La poesia nasce da una mancanza, nell’assenza di rumore e nel buio della notte.

Le più belle poesie
si scrivono sopra le pietre
coi ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero.
[…]
Così, pazzo criminale qual sei
tu detti versi all’umanità,
i versi della riscossa
e le bibliche profezie
e sei fratello a Giona.

Questa poesia, contenuta nella raccolta La terra santa, presenta un’antitesi tra la poesia, bella e delicata, e la pietra, dura e pesante. Alda Merini vuole dirci che non c’è bellezza senza sofferenza. Scrisse molte delle sue poesie in un manicomio, un luogo in cui ha subìto umiliazioni, ma quelle ginocchia piegate non le hanno impedito di inseguire la bellezza. È lì che cercò il mistero, trovandolo tra i versi di una poesia scritta col sangue. Tu, poeta, sei un pazzo criminale e detti versi all’umanità: consegni agli uomini i versi della rivincita, della speranza. Tu, poeta, sei fratello a Giona: sei come il profeta Giona, che trasgredì il dovere dettato da Dio, fuggendo e isolandosi da tutti gli altri.

I poeti trovano sé stessi di notte, quando gli altri dormono e non hanno fretta di finire. Scrivono quando le piazze sono vuote e l’unico rumore che si ode è quello delle lancette:

I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.
[…]

Alda Merini visse una vita difficile, violenta e accusata di essere folle. Non smise mai di cercare, creare e amare. Mise su carta le proprie emozioni, altalenanti e forti, consegnandoci fragilità, coraggio e speranza. È stata e continua a essere una delle poetesse più espressive e talentuose del Novecento, e non solo. Non è stata compresa per molto tempo, ma la penna le è rimasta fedele tra le dita.

O poesia, non venirmi addosso
sei come una montagna pesante,
mi schiacci come un moscerino;
[…]

La poesia è violenta con lei, la teme, come alcuni uomini che ha conosciuto. Eppure, non può fare a meno di amarla e noi non possiamo non amare i suoi versi.


di Martina Macrì

Martina Macrì

Sono Martina, ho una laurea in Lettere e studio Semiotica a Bologna. La scrittura è il mio posto sicuro, il mio rifugio. Scrivo affinché gli altri, o anche solo una persona, mi leggano e si riconoscano. Su IoVoceNarrante mi occupo principalmente di letteratura.