Appuntamento con Marc Chagall: una passeggiata tra i suoi inconfondibili dipinti

Appuntamento con Marc Chagall: una passeggiata tra i suoi inconfondibili dipinti

Appuntamento con Marc Chagall: una passeggiata tra i suoi inconfondibili dipinti

Cosa rende la pittura di Chagall inconfondibile? L’unico modo per scoprirlo è far parlare i suoi coloratissimi dipinti, via d’accesso a un mondo sofferto e sognante.

Lo scorso 7 luglio si sono spente le 135 candeline dalla nascita di uno dei pittori più longevi della storia dell’arte: Marc Chagall.
Nato a Lëzna nel 1887 da una famiglia di religione ebraica e condizione modesta, fin da subito mostra una vocazione insopprimibile verso la pittura, come egli stesso spiega nell’autobiografia Ma Vie, in cui racconta delle insistenti preghiere alla madre per saltare la scuola e recarsi alla bottega del maestro Yehuda Pen, il solo pittore di Vitebsk. Vedono così la luce i primi “quadretti” che anticipano la lunghissima e prolifica carriera artistica.
Quindi, lasciamo parlare i suoi inconfondibili dipinti, via d’accesso a un mondo sofferto e sognante.

FRAGOLE. BELLA E IDA AL TAVOLO, 1916

All’età di 22 anni “il ragazzo con lo sguardo di una volpe” incontra “la ragazza dalla pelle d’avorio e dai grandi occhi neri” e tra i due scoppia un sentimento che li accompagnerà per tutta la vita. Dal primo momento Bella Rosenfeld diventa musa ispiratrice delle opere dell’artista bielorusso, che sposerà nel 1915. Quel legame puro e totalizzante li solleva da terra, li porta a fluttuare in aria, tanto che Chagall si ritrae spesso in volo con lei – basti pensare a La passeggiata o Sulla città. Il loro amore però affonda le radici nella realtà semplice e autentica della Russia contadina. Lo testimonia Fragole. Bella e Ida al tavolo, che celebra la nascita della figlia e mostra uno stile pittorico decisamente diverso dal solito e più realistico.

LA DANZA, 1928

Ci sono alcuni oggetti che ricorrono nella pittura di Chagall, in particolare il ventaglio, il violino e la pendola. Il primo costituisce un ponte tra la Francia, paese di adozione, e la Russia. Molto in voga negli eleganti ambienti parigini, viene rappresentato con pizzi sofisticati per richiamare la tradizione dei merletti di Vologda. La fama della loro pregevolezza portò all’apertura di numerose fabbriche a San Pietroburgo, dove, non a caso, C. frequentò l’Accademia Russa di Belle Arti. Il secondo omaggia sia gli artisti di strada che popolavano le rues parigine sia la cultura chassidica, nella quale il violinista riveste un ruolo importante in occasione di feste e cerimonie. Il terzo, secondo la religione ebraica, è lo strumento che permette di scandire lo scorrere del tempo, partendo dal microcosmo della propria casa e arrivando poi a misurare il ritmo dell’universo.

 

BUE SCUOIATO, 1947

La drammaticità degli avvenimenti che dilaniano l’Europa negli anni del nazismo spinge Chagall a dare sfogo alle terribili immagini che ossessionano la sua mente. La tematica dell’orrore della guerra trova compiutezza nel Bue scuoiato, in cui il pittore sostituisce al Cristo crocefisso un enorme bue insanguinato e sospeso, a cui fa da sfondo lo scenario notturno di Vitebsk. L’animale rappresenta un ricordo d’infanzia – il nonno era macellaio e lo zio mercante di bestiame – e una memoria della gioventù parigina, trascorsa a La Ruche, vicino al mattatoio.

 

 

 

DOMENICA, 1954

Nel 1910 Chagall si trasferisce a Parigi per entrare in contatto con le personalità più influenti dell’epoca, Picasso e Matisse, e lasciarsi influenzare dalle correnti artistiche d’avanguardia, il Fauvismo e il Cubismo, da cui rispettivamente erediterà l’uso di un colore anti-naturalistico e la tendenza a sovrapporre piani e figure. La città, che consacrerà la sua notorietà, si trasforma in materia onirica, viene dipinta a tinte vivide e brillanti per esaltarne la magia e l’atmosfera fiabesca.

Nessuna Accademia avrebbe potuto darmi tutto quello che ho scoperto divorando le esposizioni di Parigi, le sue vetrine, i suoi musei […]. Come una pianta ha bisogno di acqua, così la mia arte aveva bisogno di Parigi”. (M. Chagall, Ma Vie)

 

L’OROLOGIO, 1956

Le tele di Chagall, traendo ispirazione dalla tradizione folkloristica russa e attingendo all’iconografia ebraica, si popolano di una gran quantità di animali che, spesso, sovrastano i tetti dei villaggi sovietici – lo stesso C. vi saliva per contemplare la sua città dall’alto in solitudine. Tra gli animali più ricorrenti troviamo il gallo, simbolo di potenza e rinascita, ma anche vittima sacrificale alla vigilia dello Yom Kippur, e la capra, allegoria della condizione protetta e intima del focolare domestico. Ne L’orologio il colore supera i limiti della razionalità e diventa veicolo di intense emozioni, che tingono di una sfumatura profondamente malinconica e nostalgica l’intera composizione.

 

Di Ilaria Zammarrelli

Abitare i ricordi con Matteo Massagrande: l’arte di mescolare memoria e colori su tela

Abitare i ricordi con Matteo Massagrande: l’arte di mescolare memoria e colori su tela

Abitare i ricordi con Matteo Massagrande: l’arte di mescolare memoria e colori su tela

Le tele di Matteo Massagrande tornano alle origini dell’arte e aprono una finestra su un mondo magico, ma familiare, in cui ritrovare i nostri ricordi più preziosi.

I raggi del sole filtrano tra le vetrate opacizzate dal tempo, il soffitto è sostenuto da spessi rami di alberi secolari, il pavimento maiolicato si srotola come un tappeto rosso per accogliere il più curioso degli esploratori. L’aria è mite e tutt’intorno aleggia un silenzio ancestrale, rotto sporadicamente da un lieve cinguettio o, più in lontananza, dal rumore sordo delle onde del mare.
Generalmente non è facile soddisfare le aspettative di cui si alimenta la nostra immaginazione, ma quando si parla di Matteo Massagrande è tutta un’altra storia.

Il pittore padovano nasce nel 1959 e a soli quattordici anni inizia a esporre in tutta Italia, collezionando una lunga serie di prestigiosi riconoscimenti. Il colore gli scorre nelle vene; i pennelli sembrano prolungamenti dei suoi arti; la pittura per Massagrande è connaturata, naturale e… naturalistica!

Nei suoi dipinti, infatti, la presenza umana è assente, inquilina fantasma di dimore in attesa di una rinascita. Sulla scena resta la natura che abbraccia interni abbandonati, privi di arredi, testimoni di una vita declinata al passato.  Le “stanze emotive” conservano nei muri scrostati, negli infissi consumati e fatiscenti l’impronta di una delicata intimità.

Sono spazi evocativi in cui si mescolano ricordi sbiaditi, intense suggestioni, nostalgie di momenti mai vissuti. M. ci invita a entrare in punta di piedi per ascoltare voci dimenticate, recuperare odori perduti e lasciarci ipnotizzare dai raffinatissimi giochi di luce, vera protagonista delle sue tavole. Pallida, vivida, pulviscolare, si insinua tra le fessure delle abitazioni per spogliarle della dura carica iperrealistica e rivestirle di una morbida patina onirica.

Il ‘perché’ delle mie composizioni nasce da un assoluto bisogno, da un’assoluta ricerca di equilibrio; quella che io chiamo una grande armonia cosmica… Un’armonia segreta che io ho necessità di trasformare in disegno”. (Matteo Massagrande intervistato da Guido Del Turco)

È proprio a causa di tale “armonia segreta” che i trompe-l’œil si concedono alcune licenze prospettiche. Curvature anomale, sprofondamenti dissonanti, rammentano allo spettatore di trovarsi davanti a un’opera pittorica, non certo a una fotografia. Massagrande vaga in cerca dei luoghi da cui farsi sedurre, ne osserva e studia ogni particolare. Senza alcun appiglio fotografico, sceglie e ricostruisce le atmosfere, attingendo dalla propria memoria.

La fotografia è un aiuto molto importante per gli artisti di oggi, ma è sempre molto pericoloso usarla, perché è troppo potente per non incatenare la fantasia del pittore. Può servire per osservare i dettagli, o come promemoria, ma non per dipingere. Una volta visto o individuato un luogo, quasi mai mi accontento di com’è, quindi lo modifico, perché riesca ad emanare quella sensazione che ho provato io nel vederlo, che deve essere più vera del reale”. (Matteo Massagrande intervistato da Luisa Negri)

Inoltre, da cultore e amante della materia, M. si inserisce perfettamente nel solco della tradizione della rappresentazione figurativa. Dalla concezione prospettica rinascimentale a quella danese dell’Ottocento (Vilhem Hammershoi), passando per la scuola pittorica olandese del Seicento (Pieter de Hooch), Massagrande non perde occasione per trarre spunto e lasciarsi ispirare dai grandi del passato.

Ad oggi, l’artista divide la sua attività tra lo studio di Padova e quello di Hajòs, Ungheria. Le sue tele tornano alle origini dell’arte, aprono una finestra su un mondo magico e al contempo familiare, sospeso e immanente. Divertirsi a combinare le sue stanze dipinte ci regala la possibilità di creare interni familiari e personalissimi, capaci di riaccendere i nostri ricordi più preziosi.

 

Di Ilaria Zammarrelli

 

Photo credit: https://www.instagram.com/matteo.massagrande/

“Dialoghi del silenzio che canta”: la nuova mostra di Alessio Schiavo

“Dialoghi del silenzio che canta”: la nuova mostra di Alessio Schiavo

“Dialoghi del silenzio che canta”, la nuova mostra di Alessio Schiavo

In occasione delle Giornate di Primavera del Fai, l’artista Alessio Schiavo espone a Vaprio d’Agogna. La mostra si terrà il 26 e il 27 marzo

Un titolo quasi ossimorico, un insieme di contrasti che si completano, seguono, si mischiano. Un po’ come la vita stessa. Sabato 26 e domenica 27 marzo, durante le giornate di Primaversa organizzata dal FAI (il Fondo Ambientale Italiano) verrà presentata Dialoghi del silenzio che canta, una mostra personale dell’artista italiano Alessio Schiavo, a cura di Christian Vittorio M. Garavello.

Custodi del sogno

In quel di Vaprio d’Agogna (NO), tra villa Bono Cairoli e la Chiesa di S. Rocco e della Beata Vergine della Neve, verrà esposto questo ciclo di opere inedite dell’artista, frutto di un progetto appositamente pensato per l’evento e gli splendidi spazi della dimora e della vicina Chiesa.

Le opere, allestite tra la villa e la Chiesa, sviluppano un ulteriore passo nella ricerca artistica di Schiavo, una ricerca che privilegia il lavoro dell’artista tra la materia pittorica, pastelli a cera e solventi, e il supporto, quasi sempre autoprodotto utilizzando carta accoppiata su tela.

Con questa mostra, l’artista indaga un nuovo approccio al suo operare, ovvero, il rapporto con un luogo dotato di una spazialità precisa: gli spazi della Villa e della Chiesa, non vengono intesi come sfondi neutri sui quali collocare le opere, ma entrano in vivo contatto con esse, giungendo ad attivare quel Dialogo cui il titolo della mostra si riferisce.​

E dunque, nella prima sala, la sala delle colonne, è ospitato un gioco di illusioni tra le decorazioni e le opere di Schiavo. Le colonne dipinte alle parteti, intervallate da grandi campiture azzurre, scandiscono lo spazio cercando si smaterializzare il muro della dimora. Le piccole tele che costituiscono l’opera nulla più che uccelli d’aria nel profumo della sera simulano il volo di uno stormo di uccelli che occupa, per il tempo di uno sguardo, lo spazio dipinto tra una colonna e l’altra.

Fuga in Egitto

Nella seconda sala è presente l’opera, thinking about you, l’unica opera non espressamente pensata per gli spazi della villa, in quanto opera estremamente intima e personale dell’artista e del suo recente trascorso. Tuttavia, essa è collocata nella stanza rossa, ovvero un ambiente che ha perso la propria memoria a causa del recente restauro. E dunque l’unica stanza che, per certi versi, ha perso la propria memoria ospita la memoria dell’artista.

La terza sala è definita stanza blu, perché un tempo le pareti erano ricoperte da una carta da parati indaco con un motivo floreale, ora non più presente e sostituito da una colorazione uniforme blu. È sulla memoria del colore, che era e che è stato sostituito oggi successivamente al restauro, che lavora Schiavo realizzando la serie on blue, un ciclo di sei opere su carta.

Al piano superiore della villa si trovano le due tele, i custodi del sogno, che costituiscono la quarta opera del percorso espositivo. Le tele si collocano in una piccola stanza, ai lati della porta che conduce alla stanza da letto. Il piccolo ambiente presenta due aspetti non trascurabili: è disadorno, il che consente a Schiavo di poter lavorare con maggior libertà e senza eccessivi vincoli, cosa che invece sarebbe risultata complessa nelle altre stanze del piano che presentano ricche decorazioni alle pareti. Inoltre, questo piccolo spazio, è un luogo immaginato come protettivo di un ambiente intimo e delicato per gli abitanti della casa.

On Blue

L’ultima opera è pensata per la vicina Chiesa di San Rocco e della Madonna della Neve, il soggetto delle due tele, collocate ai lati dell’altare sopra le due porte laterali, è la Fuga in Egitto, tema che da sempre affascina Schiavo, anche per la sua costante attualità.

Modigliani: albori nella scultura

Modigliani: albori nella scultura

Modigliani: albori nella scultura

Amedeo Modigliani vive in una Parigi contraddittoria: il vorticoso intrico di viuzze cela tutti i limiti del mondo positivista.

Amedeo Modigliani dal 1906 vive in una Parigi lussureggiante e contraddittoria: il vorticoso intrico di viuzze a ridosso dei boriosi boulevards celano un mondo in cui tutti i limiti del mondo positivista, ai suoi estremi bagliori, vengono riversati nell’assenzio e nelle visiones artium. Proprio la Parigi della Belle époque, rifugio di poeti e pittori, è lo sfondo della sua vicenda esistenziale e artistica. 

Seppur risulta complicato ripercorrere la vicenda di Modigliani prescindendo dal ritratto che intende costruire una figura maledetta e tormentata, afflitta dalla tubercolosi e da tragici suicidi, la biografia del pittore e scultore livornese non differisce troppo dal destino di molti altri artisti che frequentavano la Parigi della Belle époque. 

Trasferitosi dall’Italia all’età di 22 anni, dopo aver studiato pittura e disegno prima a Firenze, poi a Venezia, il suo senso classico della forma, nutritosi dei magisteri delle auctoritas del Rinascimento italiano, non lascia spazio all’indagine del contesto sociale e urbano, escludendo qualunque tipo di denuncia sociale. Le opere di Modigliani, sia scultoree che pittoriche, invitano l’attenzione alle forme del viso, degli occhi, e ai volumi che contornano la sinuosità del corpo femminile. 

A Parigi Modigliani si era presentato, in un primo momento, più come scultore che come pittore. Presso le gallerie del Trocadero Modigliani poté ammirare e apprendere sul campo le tecniche dell’arte africana: le geometrie ripetitive, quasi ipnotiche dei manufatti e delle maschere di un continente vittima delle velleità dell’Europa imperiale affascinano il giovane artista italiano. La scultura africana, e soprattutto quella egizia, cela dietro i volumi una sacralità totemica foriera di verità sconosciute alla scultura europea a cavallo fra il XIX e il XX secolo. 

Egli iniziò a scolpire alacremente dopo che Paul Guillaume, un giovane e ambizioso mercante d’arte, si interessò al suo lavoro e lo presentò, nel 1911, a Constantin Brâncuși, scultore rumeno allievo di Rodin. Brâncuși gli insegna i rudimenti della scultura e, in aperta opposizione alla tecnica di Rodin, la quale prevede un’unione di più volumi, persegue l’obiettivo di confrontarsi direttamente alla materia, alla pietra, abbandonando la titanicità dei muscoli di Rodin. Il periodo passato presso l’atelier di Brâncuși non rappresenta una semplice parentesi artistica, ma una vera esperienza contrassegnata dallo sperimentalismo formale.

Già a partire da questo periodo di apprendistato si possono notare alcuni caratteri tipici della tecnica di Modigliani, quali l’allungamento del collo e la stilizzazione delle forme, senza dimenticare un’attenzione importante ai lineamenti del viso

Nel disegno a matita blu su carta Modigliani ritrae una cariatide, una figura femminile che sostiene il frontone di un tempio greco: la stilizzazione che apporta Modigliani a questa forma classica sottende l’intento di far scaturire una bellezza immanente, forse universale, attraverso la purezza dei volumi e delle linee. Modigliani sembra concepire, da quello che possiamo dedurre dai suoi disegni preparatori, un insieme di statue e cariatidi al fine di creare un tempio immaginario della bellezza universale, il quale troverebbe le sue radici nel classicismo antico e nell’ideale italiano di “bella figura” rinascimentale. 

Dopo qualche anno di ricerca e la produzione di circa 25 sculture in pietra, Modigliani abbandona misteriosamente la scultura: forse a causa di problemi legati alla sua salute, forse semplicemente perché essa non era più all’altezza della sua ricerca immanente. La tubercolosi, che si aggrava a causa del taglio della pietra, e altre ragioni non del tutto evidenti, lo obbligano a tornare alla pittura. Tuttavia sarebbe erroneo pensare che la scultura abbia rappresentato una semplice parentesi nell’ambito dell’esperienza artistica di Modigliani.

In questo primo ritratto di Beatrice Hastings Modigliani sembra recuperare la terza dimensione della scultura. Il ritratto infatti è proiettato in avanti, il collo come se fosse lo zoccolo del ritratto. Inoltre, intorno alla testa, ci sono delle piccolo linee: la tela sembra allora un blocco di pietra sul quale l’artista segna dove tagliare con lo scalpello. Modigliani abbandona la scultura, ma la scultura stessa riaffiora in filigrana nella sua tecnica pittorica in questo periodo cerniera e di passaggio. 

Tutti gli elementi del suo vocabolario singolare si dispiegano già in questo primo ritratto in pittura: l’allungamento eccessivo del collo, la stilizzazione delle forme, asimmetria degli occhi (spesso senza pupille), naso che si ispira alla scultura primitiva, lo sfondo oscuro. 

Dal 1915 comincia il periodo maturo della produzione artistica di Modigliani, spostandosi fra Parigi e la Provenza, e rientrando talvolta in Italia, a Livorno. Le sue condizioni di salute peggiorano progressivamente, fino alla morte, sopraggiunta  il 24 gennaio 1920 a causa di una meningite tubercolare.

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Caravaggio bohémien

Caravaggio bohémien

Caravaggio bohémien

Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, nasce in Lombardia nel 1571 e muore il 18 luglio 1610 in preda a febbri malariche contratte tra Lazio e Toscana.

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La marea nera che avvolge il mito di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, ne condiziona la fama, la quale, spintasi ben oltre i confini italici, persiste intatta tutt’ora, dopo circa quattrocento anni. A ben vedere, soffermandosi sui documenti e sulle fonti consultabili, quasi due terzi della vicenda esistenziale del Caravaggio sono avvolti da una relativa oscurità, esasperando l’etichetta che i critici sogliono affibbiare a questa figura rivoluzionaria del linguaggio pittorico. 

Nato in Lombardia nel 1571, all’età di circa quindici anni Caravaggio si trasferisce a Roma, dove inizialmente affronta i rivolgimenti della fortuna patendo la fame, la miseria e una cattiva salute. 

La Roma tra Cinquecento e Seicento è una città internazionale, cuore ideologico di una Controriforma che ne ribadisce il ruolo centrale e insindacabile della cristianità, in seguito allo scisma dei protestanti. La Roma della Controriforma è quindi una città in fermento che, assetata di rilegittimazione, restaurazione e sentimento di rivalsa nei confronti di coloro che ne avevano rimesso in causa il ruolo, promuove un clima di grande fervore artistico: il linguaggio pittorico necessariamente si fa carico di questo nuovo assetto semantico e pedagogico, e l’iconografia sacra, che fra Quattrocento e Cinquecento incontra le istanze di movenze mondane ed estetizzanti, torna a linee severe e rigorose.

Caravaggio, già a partire dai lavori che risalgono al suo primo periodo romano (indicativamente fra il 1592 e il 1599), manifesta una certa intolleranza per l’iconografia sacra di stampo convenzionale e retorico, preferendo al contrario una pittura più vicina alla realtà quotidiana

Proprio i primi lavori tradiscono questo interesse per la vita di tutti i giorni e la vena popolaresca. I soggetti dei lavori del Caravaggio, il quale già nel 1597 era indicato come “famosissimo pittore” e riceveva committenze prestigiose dai membri più influenti della Roma papale e aristocratica, sembrano abbandonare la veste magniloquente che secoli di cultura e ricostruzione filologica, nonché passione per l’antico, avevano oltre misura monumentalizzato. Le divinità antiche, gli angeli messaggeri di Dio, i santi stessi e la Vergine si dotano di forme i cui contrasti, anziché smussati e levigati dalla sapiente arte del colore, vengono accentuati sulla base del chiaro-scuro; ma soprattutto, i soggetti rappresentati traggono ispirazione dalla realtà dimessa di tutti i giorni. 

Un esempio lampante di questa predilezione del Caravaggio per il vero è rappresentato dal Bacco degli Uffizi, in cui il giovane dio è un popolano dallo sguardo quasi vuoto, inespressivo, e appoggiato su un panneggio sgualcito, lontano dal magniloquente panneggio classico. La sua signorilità nel tenere un calice di vino è affettata, quasi ostentata, marcando una fortissima componente ironica e inverosimile. Nella tela del Fanciullo con canestro di frutta, conservato presso la Galleria Borghese, Caravaggio introduce una assoluta novità: se la realtà oggettuale veniva considerata dalla tradizione pittorica di minore importanza, qui, invece, il canestro di frutta sembra attirare la completa attenzione dell’osservatore. 

Caravaggio non era conosciuto solo per le sue tele, ma anche per il suo temperamento. Passioni smodate, irriverenza, collera subitanea: sono tutte caratteristiche che nel corso dei secoli hanno avuto buon gioco nella creazione di un Caravaggio bohémien, che anticipa la Parigi degli eccessi ottocenteschi. 

A ben vedere, a partire dal 1600 si ritrova parecchie volte il suo nome  nei registri di polizia: tra risse di strada, processi, querele, azzuffate di vario di tipo, Caravaggio fu ampiamente implicato nei disordini della Roma di primo seicento. 

Nel 1604 Caravaggio fu denunciato da un servitore di un’osteria: il pittore aveva ordinato un piatto di carciofi, e il servitore gliene servì quattro cotti nel burro e quattro nell’olio. Alla domanda di Caravaggio su quali fossero gli uni e quale gli altri, il servitore rispose “che li odorasse, che facilmente haverebbe conosciuto quali erano cotti nel burro et quelli che erano all’olio”. La risposta insolente bastò a far infuriare Caravaggio, il quale scaraventò il piatto contro il servitore, ferendolo ad una guancia. 

Fu una rissa in Campo Marzio che spinse Caravaggio ad allontanarsi da Roma: il pittore era un appassionato del gioco della palla, e una domenica di fine maggio del 1606 decise di misurare la propria bravura in una competizione a squadre con altri amici e giocatori. La sera, le due squadre vennero alle mani in Campo Marzio, e durante la rissa Caravaggio e un altro contendente, un certo Ranuccio Tommassoni, rimasero feriti. Le ferite di Ranuccio erano così profonde che ne determinarono la morte

Caravaggio si diresse quindi prima a Napoli, poi a Malta, dunque in Sicilia, dove la parabola tra genio ed eccesso si ripeté, come una stanca nenia, preludio della sua definitiva rovina. 

Nel mentre delle sue peregrinazioni, a Roma i suoi protettori e sostenitori perorarono la causa della grazia e del suo rientro a Roma: giuntagli notizia di una possibile grazia, Caravaggio scappa da Napoli per giungere a Roma. 

Imbarcatosi su una feluca diretta a Porto Ercole, sbarca a Palo, poco distante da Roma; viene trattenuto per accertamenti alla dogana, e una volta rilasciato cercò di raggiungere a piedi il vascello che era ripartito da Palo con tutte le sue cose, compresi i suoi quadri. In questo disperato tentativo, sfinito e sfibrato a causa delle febbri malariche contratte durante quella che appare un’impresa folle, Caravaggio muore il 18 luglio 1610 nei pressi di Porto Ercole. 

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.