“Pensavano fossimo un bluff” e invece il rap italiano ha fatto strada…il nuovo libro di Piotta

“Pensavano fossimo un bluff” e invece il rap italiano ha fatto strada…il nuovo libro di Piotta

“Pensavano fossimo un bluff” e invece il rap italiano ha fatto strada…il nuovo libro di Piotta

Il nuovo libro del rapper romano Piotta ha una caratteristica fondamentale: è vero. Una genuinità che racconta al meglio la nascita di un movimento che in Italia era sempre racchiuso in una frase “sempre a copiare gli americani”…

Sono passati anni dai tempi de “La grande onda“. Anni da quando la Roma del rap sfornava talenti rudi, diretti e genuini. Prima della trap, prima di quel ritorno a rime “violente”, ritmi meno hip e molto electro pop c’erano loro (e ci sono ancora eh, per quanto il tempo abbia fatto salire alla ribalta altri “autori”): i Cor Veleno, Noyz Narcos, Flaminio Maphia e lui, Piotta, gli idoli di una adolescenza di tutti quelli che cantavano, si atteggiavano e non sapevano che molte delle parole che usavano erano le loro. Supercafone, Ragazze Acidelle, Tigre,Tigre, La grande onda: miti di un’infanzia che rivorremmo e che non tornerà.

Un’infanzia di miti, vissuta tra radio, televisioni e primordiali collegamenti a internet, con una Youtube ricca di video sgranati, pochi pixel, ma tanta fantasia. E a raccontare quest’età d’oro del rap romano (e italiano) ci pensa proprio Piotta, al secolo Tommaso Zanello, che adesso, alla soglia dei 50 anni (no, non ci rassegneremo mai a questo, ndr.) pubblica il suo terzo libro. S’intitola “Il primo re(p), alle origini del rap italico” e rappresenta il viaggio del rapper romano in un mix tra la sua vita e quella del rap romano (e non solo).

Le orgini di un mito in fondo, le basi che hanno permesso oggi, dopo 20/30 anni, di avere riconosciuto quello che non è più solo un genere musicale da “strada”, ma anche una forma di poesia generazionale (con tutti i dovuti cambiamenti accorsi durante gli anni).

La storia personale che si intreccia con quella del rap. “Mi hanno chiesto un libro che raccontasse la storia del rap in Italia attraverso la mia vita. È proprio il mio ricordo personale, emotivo, della mia famiglia, della mia città in quegli anni, del mio liceo e anche di questa prima scena rap italiana che nasceva per gioco e per passione, con il sogno che sarebbe diventato, chissà, un lavoro“, ha raccontato Piotta ad Agi (per leggere l’intervista completa potete cliccare qui).

Da Roma all’espansione. “Ho ricordi bellissimi di quella Roma – continua – era unica, perché rispetto a quella di oggi, non c’era la rete per avvicinare queste realtà, ma ognuna di queste realtà aveva un proprio linguaggio, ascoltavi i dischi dei tuoi colleghi di altre città e sentivi utilizzare parole che non conoscevi, alle volte serviva proprio prendere il telefono e chiamare: “Ma questa cosa qui esattamente che vuol dire? Cosa intendete?”; c’era proprio uno scambio linguistico. Però ce n’è voluta, non ci credevano che si potesse fare musica di qualità usando termini come “Spaccà, Nnamo, zì…”. E invece…

Un discorso che, visto sotto la giusta luce, potrebbe anche essere fatto per gli autori di oggi. Che cosa pensa Piotta a riguardo?
Non vorrei che la distanza anagrafica rendesse il giudizio un po’ troppo austero, ma questa sensazione ce l’ho anche io. Però ci muoviamo in un contesto del tutto differente a quello anche solo di vent’anni fa, perchè banalmente la mancanza della rete faceva si che quello dei ’90 fosse un mondo molto più simile a quello dei ’70 rispetto al nostro, perché c’è stato un gap tecnico e soprattutto spazio temporale (nel senso che è tutto immanente, quello che esce qui è già a New York sia nei suoni che nelle parole e nelle immagini). Io alle volte ascolto canzoni e mi verrebbe da prendere un vocabolario, ma in quale lingua? Sento utilizzare terminologie americane che noi non abbiamo mai usato anzi, ti dirò di più, quei pochi artisti italiani che usavano uno slang americano, perché pensavano che così potesse essere una traduzione più consona dell’hip hop, noi li dileggiavamo, perché ci sembrava invece un feticcio brutto, cioè prendere una cosa che non è proprio tua. Ci sembrava poco rispettoso nei confronti del contesto dal quale veniva strappata“, ha sottolineato a Gabriele Fazio di Agi.

Scelte opposte rispetto a quelle del rapper romano. “Si, mi sono impegnato nel prendere costantemente parole utilizzate a Roma per metterle in un tessuto linguistico che andava da una citazione altissima ad una molto più bassa e popolare, dal cinema d’autore ai B-Movies, fino al fumetto e alla letteratura“, dichiara.

Scelte simili a quelle fatte da altri artisti negli anni successivi, da Willie Peyote a Caparezza…
Willie Peyote è un artista carismatico e che ha spessore, che non pensa a chi potrebbe copiare, anche di semi sconosciuto, per portarlo in Italia; no, io sono io, penso a chi sono io, chi voglio essere io, che voglio fare io. La sfida è con te stesso. Per cui a me artisti come Guglielmo, come Caparezza, mi piace come ragionano, fanno cose diverse da me ma senti che sono un unicum“.

Insomma, a noi non resta che consigliarvi di leggere il libro di Piotta. Con una lacrimuccia per un’era che ci siamo goduti e che abbiamo apprezzato forse troppo tardi…

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Francesco Inverso

Quando scrissi la prima volta un box autore avevo 24 anni, nessuno sapeva che cosa volesse dire congiunto, Jon Snow era ancora un bastardo, Daenerys un bel personaggio, Antonio Cassano un fuoriclasse e Valentino Rossi un idolo. Svariati errori dopo mi trovo a 3* anni, con qualche ruga in più, qualche energia in meno, una passione per le birre artigianali in più e una libreria colma di libri letti e work in progress.
Sbagliando si impara…a sbagliare meglio.

Pink Floyd: The Wall, le angosce e le domande di Roger Waters

Pink Floyd: The Wall, le angosce e le domande di Roger Waters

Pink Floyd: The Wall, le angosce e le domande di Roger Waters

Quarantatré anni dopo la sua uscita, “The Wall” è un concept album ancora attualissimo per l’universalità dei temi trattati sulla condizione umana, dallo straniamento all’impossibilità di comunicare.

Andare oltre il Muro leggendo i testi dell’opera rock “The Wall”, è un esercizio che ci permette di ritrovare alcuni temi che si andavano imponendo alla sensibilità della band inglese. I Pink Floyd erano all’apice del loro successo con il tour precedente legato all’album “Animals”; le cifre di vendita e le presenze ai concerti sono sbalorditive e cresce nel leader di quegli anni, il bassista e cantante Roger Waters, la vertigine e la sensazione che il megaconcerto sia un luogo dove non ci sia un vero incontro, ma una festa vuota, dove si erge un bastione invalicabile tra la band e la gente. Il doppio vinile uscito nel novembre del 1979 ha le sue radici quindi nel precedente tour mondiale dei Pink.

Straniamento, impossibilità di raggiungere i fan, alienazione mentale; quest’ultima è una impressione forte nel gruppo, che alcuni anni prima ha visto uscire dalla formazione il fondatore Syd Barrett proprio per progressivi disturbi mentali. Il muro della copertina, completamente bianco di mattoni tutti della stessa dimensione, ci ricorda le pareti immacolate e Marcello Mastroianni con la frusta in mano, regista in crisi che non sa più cosa dire e come dirlo del capolavoro felliniano “8 e ½”.

Nel primo vinile dominano la paura e le domande. Certo la paura della guerra, che priva il piccolo Roger del padre, caduto nella Battaglia di Anzio del 1944, e che si palesa con il rumore degli aeroplani nella prima traccia “In the flesh?”. Ma anche quella di vivere.

Da qui in avanti si impone la figura della madre, che instilla nel figlio le proprie fobie: in “The thin ice” lo mette in guardia dal rischio di camminare sul “ghiaccio sottile della vita moderna”. Ricorrono le parole fear (paura, appunto), reproach (rimprovero) dei milioni di occhi rigati di lacrime (tear-stained), ossia il ricatto dei cari in pena per il piccolo. Quando il ghiaccio si rompe il bambino cade nell’abisso ed esce di testa (out of his mind). La scena si completa con l’immagine del figlio spaesato che si aggrappa al ghiaccio frantumato.

Nella canzone “Mother” ritorna il terrore della guerra, del non essere accettato, dell’essere bullizzato come accadeva a scuola; la paura di soffrire per amore. Tutto viene espresso con domande che Waters pone alla madre: “mamma, pensi che sganceranno la bomba? Che la mia canzone piacerà? Che io mi potrò fidare del governo? Mamma, mi spezzerà il cuore?

Ai suoi dubbi risponde il chitarrista David Gilmour, che, come controcanto, utilizza le parole nightmare (incubo) e di nuovo fear, e per contrasto afferma che la madre lo terrà cozy and warm (coccolato al caldo), che gli sceglierà le fidanzate, ma che lo terrà sempre d’occhio.

Nella tripla “Another brick in the wall” parte prima e seconda e “The happiest days of our lives” Waters ricorda i professori che evidenziavano le debolezze (weakness) dei bambini, e immagina gli stessi a casa frustrati e succubi di mogli psicopatiche, di nuovo parlando di disagio mentale, come visto in precedenza. Il coro degli alunni che chiedono urlando “non abbiamo bisogno di questa educazione, professori, lasciate i ragazzi da soli” è uno dei pezzi più famosi dell’opera e della musica moderna in generale; quasi un sogno, il desiderio del giovane Roger.

La riflessione sulla guerra ritorna in “Goodbye blue sky”, ed è la fine dell’innocenza. Ritornano gli uomini spaventati (frightened), che scappano. Ritornano le domande: “perché scappiamo se ci avevano promesso un mondo nuovo sotto un cielo blu chiaro?”.

Pink (questo il nome del protagonista, alter ego di Waters) è ormai adulto ed è diventato una rockstar, ma il suo processo di alienazione prosegue; sta costruendosi il muro che lo separa da tutto. Affronta una crisi (One of my turns) e domanda alla donna che è con lui se vuole dormire, fare l’amore o imparare a volare (la vuole uccidere?) o se vuole vederlo volare. “The Wall” è ormai costruito.

Nel secondo vinile il protagonista prende la scena, e i testi si soffermano maggiormente sulle sue azioni; la madre, l’assenza del padre, il maestro e la moglie lo hanno aiutato a porre mattoni su mattoni.

Ora assistiamo alla sua ricerca di qualcuno oltre la parete. In “Hey you” domanda aiuto e chiede se qualcuno lo sente. Come sempre nel tentativo di risalire ci sono momenti in cui tutto sembra vano, e una voce dice: “il muro è troppo alto, e i vermi gli stanno mangiando nel cervello”, con un nuovo riferimento all’aspetto psichico. Nel finale appare però anche uno sguardo al futuro: “hey tu, non dirmi che non c’è speranza; uniti resistiamo, divisi cadiamo”.

Pink si rende conto che a casa non c’è nessuno, che è da solo; nella famosissima “Confortably numb” (Piacevolmente intontito) vince le paure che ne derivano con delle pillole, e in una traccia precedente c’è un riferimento alle siringhe. Anche il ricordo del passato e del padre sembra scomparire.

In “The show must go on” Pink continua a riflettere, prega i genitori di riportarlo a casa, e si chiede: “è troppo tardi?”. È forse possibile invertire la strada intrapresa?

Forse lo sarà, ma il protagonista dovrà passare attraverso un incubo in cui il suo altro è un dittatore che cerca i diversi, neri, ebrei o omosessuali. Allora aspetta che il delirio passi, per prendersi una pausa (“Stop”) e di nuovo chiedersi: “è sempre stata colpa mia?”.

La redenzione passa attraverso il processo (The trial). Riappaiono quindi il maestro e la madre, i rimproveri e le offerte di rifugio sicuro nella casa di quando era bambino.

Il giudice lo dichiara quindi colpevole di aver fatto soffrire tante persone, e lo condanna a tornare in mezzo ai suoi pari. Pink deve riprendere a mostrare le sue paure più profonde. Il muro va abbattuto! La sua salvezza passa proprio attraverso le angosce di esporsi.

Le parole dell’ultima traccia, “Outside the wall”, ossia “Fuori dal muro” sono forse una riflessione generale sui rapporti umani: le persone buone, che ci vogliono bene, ci sostengono e ci fanno stare in piedi. Alcuni cadono, dopotutto non è facile resistere quando si sbatte contro il muro di un idiota matto.

I rapporti umani si interrompono contro le pareti che, a turno, ognuno di noi alza e abbassa, senza soluzione di continuità.

 

Danilo Gori

George Harrison: tra luci e ombre di un personaggio silenzioso.

George Harrison: tra luci e ombre di un personaggio silenzioso.

George Harrison: tra luci e ombre di un personaggio silenzioso.

Il Beatle Tranquillo, così chiamavano George Harrison. Effettivamente quando si parla dei Beatles i primi nomi a venire in mente sono ben altri…

John Lennon è forse il più controverso, il più sfacciato e il più famoso. Paul McCartney è “quello bello”, il frontman, la voce. Ringo è il batterista che nessuno considera più di tanto, ma che grazie all’aspetto eccentrico e al nome strano comunque viene ricordato, se in più ci aggiungiamo una canzone italiana dedicata a lui ecco che viene riconosciuto anche dalle generazioni più giovani. George Harrison è sempre stato il membro più spirituale e riservato, di lui si ricordano poche cose, tra cui la malattia e la prematura dipartita, avvenuta proprio oggi, ventun anni fa.

Ma George era tanto altro, era forse nel suo silenzio, uno dei personaggi più complessi e contradditori della band.

Fin da piccola Harrison mi ha affascinata, qualcosa in lui, nella sua musica ed emotività ha da sempre risuonato in me. Fin dai miei primi ascolti dei Beatles, quando mi accingevo a diventarne una fan sfegatata, mi scoprivo ad ascoltare fino allo sfinimento proprio le canzoni scritte da lui. Prima tra tutte Here come the sun, canzone per me bellissima e carissima, di quelle che quando le ascolti per la prima volta, gli occhi ti si illuminano e il cuore ti viene trapassato da meraviglia pura. È una canzone semplice, ma dolce, delicata, di un ottimismo che non ti stanca mai, che ti fa sentire invece in pace col mondo, centrato e giusto nel tuo piccolo spazio all’interno di questo gigante universo. Ed è questo che per me Harrison ha sempre un po’ rappresentato, un modo di affrontare la vita, una dolcezza nello sguardo, e una serenità che augurerei a tutti.

Ma torniamo per un attimo alla sua sopracitata complessità. Verso la seconda metà degli anni Sessanta Harrison si avvicina sempre più al misticismo e allo spiritualismo indiano, questo lo porta a livello musicale ad ampliare gli orizzonti dei Beatles, grazie all’utilizzo di strumenti musicali come il sitar e alla sperimentazione di nuove sonorità, sempre più particolari e lontane dallo stile dei loro primi album. A livello personale invece questo mondo lo porterà a dei grandi cambiamenti, non tutti coerenti e lineari col suo effettivo modo di vivere. Fatto curioso è che dal 1968 George diventerà vegetariano, cosa che per l’epoca era già abbastanza progressista. Divenne poi sempre più legato alla figura di Dio e alla meditazione, ritrovando nella spiritualità e nel distacco dal mondo terrestre e materiale il suo fulcro. Ed è proprio su questo punto che vorrei concentrarmi per un attimo, perché la contraddizione di un personaggio è poi ciò che lo rende veramente interessante.

Come già detto più volte Harrison era un uomo spirituale, che ricercava il semplice e professava l’importanza per ognuno del proprio mondo interiore. A vederlo in alcune foto, coi capelli lunghi e la barba incolta quasi lo si potrebbe scambiare per un santone. Peccato che quel santone in particolare vivesse in una grande villa lussuosa e possedesse diverse macchine sportive. La casa non so bene come la giustificasse a sé stesso, ma per quanto riguarda le macchine Harrison si è da sempre dichiarato grande fan della velocità e della Formula 1, sua grande passione, al pari addirittura della musica. Suoi conoscenti riportano addirittura che nel guidare a velocità estreme lui si ritrovasse a provare stati emotivi molto simili a quelli meditativi, che quindi anche le belle macchine fossero in fondo un modo per risollevare l’anima a scopi più alti?

Ricordo vagamente una volta di aver sentito qualcuno dire: “Non è il possedere cose di lusso in sé, che rende un uomo materialista, è la necessità, il bisogno, di possederle a renderlo tale”. Come a dire che puoi essere ricco sfondato, ma se di quella ricchezza tu non brami neanche un centesimo puoi ancora definirti una persona povera e spirituale. Chissà, io nella vita rimango povera e basta, quindi non mi pongo questo dilemma morale, lascio a voi la riflessione.

Mi diverte sempre molto scovare idiosincrasie di questo tipo nei personaggi più famosi, me li rendono più simpatici, più reali. Perché vero è che ascoltare le parole e la musica di qualcuno che ci ispira è un’esperienza magica, ma ricordarci che è in fondo normale e umano, come noi, è sempre molto consolatorio per l’anima.

Di Valentina Nizza

Suns Europe: svelati i nomi degli artisti del concerto!

Suns Europe: svelati i nomi degli artisti del concerto!

Suns Europe: svelati i nomi degli artisti del concerto!

Il 26 novembre 2022 alle ore 21.00, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine arriveranno da Galles, Paese Basco, Friuli, Carso, Drenthe e Sardegna i gruppi selezionati per l’evento conclusivo del festival delle arti in lingua minorizzata.

UDINE – È tutto pronto per il gran finale di Suns Europe! Il festival delle arti in lingua minorizzata – organizzato dalla cooperativa Informazione Friulana, editrice di Radio Onde Furlane – col sostegno finanziario della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, dell’ARLeF, Agjenzie Regjonâl pe Lenghe Furlane, del Comune di Udine, della Fondazione Friuli e la collaborazione dell’Istituto Basco Etxepare, dell’Ambasciata italiana dei Paesi Bassi e di numerosi soggetti pubblici e privati, locali e internazionali – dopo aver portato nell’estate friulana tanti appuntamenti di bella musica, e non solo, sbarca al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, il 26 novembre, alle 21, per il concertone finale che vedrà per protagonisti gli artisti e i gruppi selezionati per questa ottava edizione!

IL CONCERTONE – A calcare il palco del Teatro cittadino saranno gli schizofrenici mash-up di dance beats, estetica vintage e chitarre indie dei gallesi Hms Morris; ma anche una delle artiste più interessanti del Paese Basco, Olatz Salvador; se c’è una verità profonda nel suo lavoro è quella racchiusa nella sincerità del suo canto. Tornerà a Suns Europe anche la Sardegna con gli Ealûs, duo che trae ispirazione dal mistero e dalla bellezza dell’Isola in un progetto che desidera valorizzare tutta la ricchezza delle sue lingue. Immancabile anche la presenza del Drenthe (Paesi Bassi) con Rick Hilberts, giovanissimo cantautore già vincitore del prestigioso festival canoro Drèents Liedtiesfestival. Il suo brano “Vallende Sterren” è un’impeccabile ballata pop in rotazione su moltissime radio neerlandesi. Spazio anche allo sloveno del Carso con i Violoncelli Itineranti, un’inedita commistione fra la musica da camera e la poesia slovena contemporanea. A rappresentare il Friuli ci saranno invece le melodie morbide e taglienti di Massimo Silverio, cariche di un’emozione in cui i friulani non possono far altro che rispecchiarsi. L’intera serata – in diretta radiofonica su Radio Onde Furlane dalle 21 alle 23, condotta da Mauro Missana – sarà presentata da Elsa Martin e Nicola Angeli.

LA SERIE WEB IMMERSIVA 33/16 – La giornata in teatro comincerà già al mattino, alle 10 (e fino alle 19, ora dell’ultima messa in onda) con la proiezione, in Sala Fantoni, della serie web immersiva 33/16. Il corto sarà lanciato ogni 45 minuti e gli ospiti potranno fruirne dieci alla volta. Alle 18 è anche prevista una breve presentazione da parte del regista, Marco Fabbro.

Biografia artisti

Hms Morris (Galles)

Definire “electro-pop” la musica degli HMS Morris è decisamente riduttivo. Schizofrenici mash-up di dance beats, estetica vintage e chitarre indie, conferiscono a questo gruppo un’originalità rara nella già vivace scena gallese. Formatisi nel 2015 hanno pubblicato due album per l’etichetta Bubblewrap Collective e realizzato alcuni prestigiosi tour extraeuropei fra Canada e Giappone. Heledd Watkins (voce, chitarra, sintetizzatore), Sam Roberts (sintetizzatore, cori, basso), Billy Morley (chitarra solista), Iestyn Jones (batteria).

Olatz Salvador (Paese Basco)

Se c’è una verità profonda nelle canzoni di Olatz Salvador è quella racchiusa nella sincerità del suo canto. Le melodie percorse dalla sua voce delineano un paesaggio dolce ed amaro, proprio come quello del Paese Basco da cui proviene. Sostenuta da una solida band Olatz Salvador è ad oggi una delle artiste più interessanti di Donostia.

Massimo Silverio (Friuli)
Le melodie morbide e taglienti di Massimo Silverio sono cariche di un’emozione in cui i friulani non possono far altro che rispecchiarsi. Se la personalissima rilettura degli stilemi musicali carnici lo colloca saldamente nella sua Cercivento, il coraggio e la raffinatezza nel suono gli conferiscono un respiro internazionale che probabilmente nessun musicista friulano aveva avuto fino a oggi.

Violoncelli Itineranti (Sloveno del Carso) 
Tre violoncelli ed una voce in un curioso dialogo fatto di raffinate orchestrazioni ed un pizzico di improvvisazione. I Violoncelli Itineranti sono una formazione interamente femminile che rappresenta la minoranza slovena del Carso. Un’inedita commistione fra la musica da camera e la poesia slovena contemporanea.  “Sonce ljubo” è il titolo del loro primo album di recente pubblicazione. Andrejka Možina (voce, violoncello, composizione), Irene Ferro-Casagrande (violoncello) e Carla Scandura (violoncello).

Rick Hilberts (Drenthe – Paesi Bassi) 
Nonostante Rick Hilberts abbia cominciato a cantare in lingua Drènts in tempi piuttosto recenti, la sua carriera di cantautore è già segnata da una ragguardevole serie di successi e riconoscimenti. Questo giovanissimo cantautore è già vincitore del prestigioso festival canoro Drèents Liedtiesfestival e il suo brano “Vallende Sterren” è un’impeccabile ballata pop in rotazione su moltissime radio neerlandesi.

Ealûs (Sardegna) 
Gli Ealûs traggono ispirazione dal mistero e dalla bellezza della Sardegna in un progetto che desidera valorizzare tutta la ricchezza delle sue lingue. Il suono che ne risulta ha il raro pregio di risultare estremamente arcaico e allo stesso tempo fortemente contemporaneo. Attualmente stanno lavorando alla produzione del loro primo album in lingua sarda “Zénesi”. Giorgia Gungui alla voce e Dominic Sambucco alla chitarra.

SUNS EUROPE – Suns Europe (da giugno a novembre 2022) è il festival europeo delle arti performative in lingua minorizzata (termine che indica le lingue cui viene negata la possibilità di essere utilizzate in maniera normale e paritaria in tutti gli ambiti della vita quotidiana). Nato nel 2009 in Friuli, cuore multilingue dell’Europa, Suns (friulano: suoni) era un concorso musicale per le comunità minoritarie dell’Europa alpino-mediterranea. Il festival si è poi evoluto in Suns Europe, un luogo di incontro e di scambio tra artisti di gruppi linguistici minoritari del continente e un’occasione per tutte le comunità europee di prendere coscienza dei propri diritti linguistici, nonché dell’importanza del pluralismo culturale come patrimonio, diritto e opportunità per tutti, in Friuli e non solo. Il Festival è organizzato dalla cooperativa Informazione Friulana, editrice di Radio Onde Furlane col sostegno finanziario della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, dell’ARLeF – Agjenzie Regjonâl pe Lenghe Furlane, del Comune di Udine, della Fondazione Friuli e il contributo dell’Istituto Basco Etxepare, dell’Ambasciata italiana dei Paesi Bassi, delle associazioni Amîs da Mont Quarine e Damatrà, del CEC Centro Espressioni Cinematografiche. Inoltre si avvale della collaborazione di numerosi soggetti pubblici e privati quali i Comuni di Artegna, Mortegliano, Moruzzo, Pozzuolo del Friuli e Romans d’Isonzo, l’associazione Amici del Teatro di Artegna, la Società Filarmonica di Pozzuolo del Friuli, il Liberatorio d’Arte “Fulvio Zonch” di Romans d’Isonzo, il circolo Cas*Aupa di Udine e le associazioni Inniò, Babel (Sardegna) e Stichting REUR (Bassa Sassonia). Suns Europe ha il merito di trasformare il Friuli in un crocevia di culture, lingue e artisti, creando contaminazione e confronto, dando spazio a una produzione artistica di assoluto valore.

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Arriva l’album inediti dal titolo che ricorda un provvedimento del Governo Meloni

Siamo onesti: se un anno fa ci avessero detto “Tananai” avremmo pensato a un insulto oppure a una frase decisamente sgrammatica pronunciata a notte fonda. Davanti a qualche birra di troppo. E invece oggi, nemmeno un anno dopo Sanremo, il 27enne cantautore milanese è in cima alle classifiche di gradimento. Da Sanremo 2022 Tananai ha cavalcato una wave inaspettata, collaborando persino con Fedez, portando al successo diversi sui brani, da Baby Goddamn a Sesso Occasionale.

E oggi, a distanza di pochi mesi, è tutto pronto per l’album di inediti dell’artista: “Rave, eclissi“, che uscirà il 25 novembre e si preannuncia già tra i più attesi dell’inverno del Belpaese. Il disco racchiuderà in 15 tracce tutte le anime di Tananai: artista, produttore, cantautore ma anche uomo figlio del suo tempo e della società in cui è cresciuto.

 

Rave, eclissi” – afferma Tananai – è il sunto delle due anime che fin dall’inizio del mio progetto ho deciso di inserire nelle canzoni. C’è la parte più cazzona, leggera, quella che forse nell’ultimo anno ha permesso alla maggior parte di voi di conoscermi: il Rave. Ma dopo la festa c’è sempre il down, l’Eclissi, il mio lato più introspettivo. L’unica cosa che accomuna questi due aspetti di me è il mettermi sempre a nudo e mi sono ripromesso che lo avrei fatto con ogni aspetto della mia vita”.

Up and down insomma, nella musica come nel successo. Un successo che Tananai sta vivendo con “prudenza”. “Sono contento del successo che sto avendo, ma adesso ho molte più ansie“, ha dichiarato il cantante alla Stampa, in un’intervista di qualche settimana fa. “Sto meno bene di quando non avevo nulla da perdere. È difficile riuscire a trovare se stessi all’interno di un contenitore che ti sbatte da una parte all’altra. Sono circondato da yes-man, che mi danno sempre ragione. Ma in realtà non è che da un giorno all’altro ho ricevuto l’illuminazione. Mi domando: la mia vita sta cambiando in un modo che non riuscirò a metabolizzare in musica?”.

Un titolo chiaro: due anime, due fasi delle vita, due momenti che si alternano tra la dicotomia gioia e dolore e che, in questo momento, sembrano un trend topic. Coincidenze? Sicuramente. Divertenti? Altrettanto. Ma la vera domanda è: Tananai potrà pubblicarlo l’album? O sarà considerato un pericolo per l’ordine pubblico? Vedremo il 25 novembre.