Il tradimento degli opposti

Il tradimento degli opposti

Il tradimento degli opposti 

L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera possiede due opposti: la leggerezza e la pesantezza. C’è chi cerca la libertà di una vita priva di pesantezza, tradendo e tradendosi, e chi non può farne a meno. Viviamo cercando l’una ed evitando l’altra, ma se non ci fossero due estremi, se anche la leggerezza fosse insostenibile?

Milan Kundera ci consegna il viaggio di quattro amanti diversi: Tereza e Franz vivono nella stasi di una vita fedele ai doveri sociali e contrassegnata dalla pesantezza. Thomáš e Sabina sono alla continua ricerca di dinamicità, libertà, disprezzano le relazioni stabili e vivono una vita contrassegnata dalla leggerezza. Ma se fosse soltanto un’illusione?

Il romanzo è attraversato dal tradimento, vissuto diversamente da ciascuno di essi. C’è chi lo commette e chi lo subisce, c’è chi non può farne a meno e chi è divorato dal pesante fardello della gelosia, di un amore a metà.
Il tradimento è la ricerca della trasgressione e della fugacità, la conoscenza di un altro corpo, diverso da quello che si ha accanto ogni notte. Tradire serialmente significa vivere una vita fatta di ritorni mai definitivi: il ritorno dall’uomo o dalla donna che dorme accanto a noi e ci ama; il ritorno da un amante stabile o sconosciuto che ci permette di sbagliare ancora e ancora. Chi tradisce è consapevole dell’errore commesso, ma se continua a sbagliare rende quell’errore parte della propria vita. Ne ha bisogno, forse si disprezza, accettando di svegliarsi con un perenne senso di colpa pur di non rinunciarvi.

Thomáš ha molte amanti e spesso ritorna da una sola, Sabina. Tereza, invece, diventa improvvisamente la donna con cui condivide il letto di notte, per dormire.

Thomáš si diceva: fare l’amore con una donna e dormire con una donna sono due passioni non solo diverse ma quasi opposte. L’amore non si manifesta col desiderio di fare l’amore (desiderio che si applica a una quantità infinita di donne) ma col desiderio di dormire insieme (desiderio che si applica a un’unica donna).

Prima di lei, Thomáš non dormiva mai con le sue amanti, ma in Tereza vede qualcosa di diverso. Ha bisogno di averla accanto, ma non è abbastanza. La sua vita da donnaiolo continua e Tereza accetta i suoi abbandoni e brama i suoi ritorni a casa. Thomáš rappresenta la nostra necessità d’evasione, la paura di stare fermi e di lasciarci appesantire da un amore unico e totalizzante. Rappresenta ciò che facciamo per prevenire ciò che non è ancora accaduto, ma che sappiamo potrebbe accadere. L’amore per Teresa è fatto di tenerezza, premura e sostegno nei momenti difficili. Il desiderio per le donne che cerca rappresenta la conoscenza dell’altro, di luoghi non vissuti ma di cui si coglie la bellezza, fugace e intensa. In loro cerca il senso di una vita che non sa capire fino in fondo, s’illude che quello sia l’unico modo per trovare un significato nascosto.

Tereza porta sulle spalle il peso di un passato difficile e si rifugia tra le braccia di Thomáš, accetta i suoi ripetuti tradimenti e lo aspetta.

Tereza sa che il momento in cui nasce l’amore si presenta così: la donna non resiste alla voce che chiama all’aperto la sua anima spaventata; l’uomo non resiste alla donna la cui anima presta orecchio alla voce.

Tereza rappresenta il nostro modo d’amare quando accettiamo dei compromessi che non dovremmo neppure valutare. Accettiamo l’altro perché siamo sicuri di non poterne fare a meno, riponiamo in una sola persona le nostre debolezze, la nostra vita. Amiamo in modo folle e sincero, ma tolleriamo le bugie altrui pur di non perdere quell’abbraccio che ci calma, quel bacio che ci rassicura, quei ritorni a casa. Ci accontentiamo affinchè il nostro amore possa bastare per entrambi.

Cosa succede se si reitera il medesimo atteggiamento per tutta la vita, rifiutando l’amore e sposando soltanto il desiderio? Si insegue la leggerezza e si scopre essere insostenibile quando tutto quel che si è tradito scompare, e non rimane più niente da tradire. Si rimane soli con momenti troppo brevi per essere ricordati. Sabina, pittrice di talento e donna affascinante, è l’amante più stabile che Thomáš abbia mai avuto, ma dopo una vita vissuta all’insegna della leggerezza acquista una nuova consapevolezza:

Una persona può tradire i genitori, il marito, l’amore, la patria, ma quando poi non ci sono più né genitori, né marito, né amore, né patria, che cosa resterà da tradire?

Sabina è anche l’amante di Franz, un professore universitario. Dopo poco tempo Franz rivela alla moglie i suoi tradimenti perché si innamora di Sabina e anche Sabina nutre un sentimento per Franz. Il suo tradimento è molto diverso dai tradimenti di Thomáš, e ci fa capire che tradire non ha sempre lo stesso significato. Franz rappresenta la nostra fragilità quando l’amore ci lascia inermi e disarmati, completamente esposti.

Per lui l’amore non era un prolungamento della sua vita pubblica bensì il polo opposto. Significava per lui il desiderio di darsi in balìa dell’altro. Chi si dà all’altro come un soldato si dà prigioniero, deve prima consegnare tutte le armi. E così privato di ogni difesa, non può fare a meno di chiedersi quando arriverà il colpo. Posso dunque affermare che per Franz l’amore era una continua attesa di un colpo imminente.

Il romanzo di Kundera ci mostra le diverse facce dell’amore e del tradimento, ci permette di comprendere i problemi di una vita troppo pesante e le conseguenze di una vita troppo leggera. Forse vivere sposando gli estremi porta nella stessa triste direzione. Scappare ci rende soli, restare ad ogni costo ci rende deboli.

 

Martina Macrì

Sono Martina, ho una laurea in Lettere e studio Semiotica a Bologna. La scrittura è il mio posto sicuro, il mio rifugio. Scrivo affinché gli altri, o anche solo una persona, mi leggano e si riconoscano. Su IoVoceNarrante mi occupo principalmente di letteratura.  

Cent’anni di solitudine: magica immaginazione o romanzo storico?

Cent’anni di solitudine: magica immaginazione o romanzo storico?

Cent’anni di solitudine: magica immaginazione o romanzo storico?

Cent’anni di solitudine è sicuramente uno dei romanzi più famosi di Gabriel García Márquez, ma in quanti conoscono cosa si nasconde dietro a questa storia, ritenuta da molti appartenente al genere del realismo magico? Scopriamolo insieme.

Cent’anni di solitudine, il romanzo che reso famoso a livello internazionale Gabriel García Márquez, è stato catalogato dai critici europei nel genere del realismo magico. Questa definizione continua a indirizzare il lettore verso una chiave di lettura pericolosamente superficiale, in quanto il temine magico può prendere il sopravvento per i lettori meno attenti o semplicemente privi di conoscenze sulla storia colombiana e si corra il rischio di percepire l’intero romanzo pedante e insensato. Approcciarsi a questo romanzo non è quindi un’impresa facile,: gli argomenti, le chiavi di lettura, lo stile, la sua pubblicazione nel mondo creano tutt’oggi un grande dibattito letterario e culturale.

Cent’anni di solitudine racconta la storia centenaria della famiglia Buendia (sette generazioni) all’interno del villaggio colombiano di Macondo, anch’esso un protagonista del romanzo, del quale si raccontano la fondazione, il suo sviluppo e la sua decadenza.

La difficoltà più grande che il lettore “occidentale” si ritrova ad affrontare è sicuramente la ciclicità costante presente nel romanzo. I nomi dei componenti della famiglia Buendia ­– dal capostipite José Arcadio a suo figlio, il colonnello Aureliano ­– si assomigliano o si ripetono, tanto da necessitare un albero genealogico a portata di mano (presente nelle nuove edizioni Oscar Mondadori). A peggiorare il tutto sono le continue analessi e prolessi utilizzate dallo scrittore, un aspetto che il lettore europeo, abituato a romanzi realisti nettamente più lineari, fa fatica a comprendere rilegandolo semplicemente ad un artificio stilistico atto a creare suspance.

In Cent’anni di solitudine inizialmente il tempo va verso il futuro e contemporaneamente si muove all’indietro, da questo passato ritorna verso il futuro e poi di nuovo indietro, generando una natura circolare della temporalità, che è una natura sovversiva e rivoluzionaria. I lettori rimangono spiazzati e associano questa caratteristica a una concezione quasi magica del tempo, perché un caposaldo della cultura euro occidentale è proprio il concetto di tempo lineare. Un tempo che si muove da ora in avanti. Marquez spezza con il suo romanzo la tradizione del tempo lineare di ascendenza grecolatina e si affida al tempo circolare delle civiltà arcaiche spazzate via dall’arrivo dei conquistatori. Attraverso la rivoluzione del tempo recupera quindi un’immensa tradizione culturale, anteriore alla conquista spagnola, ripristinando un tempo della storia sudamericana.

Cent’anni di solitudine è un romanzo pieno di eventi prodigiosi, di personaggi che vivono più di cent’anni, elementi che la mente tradizionale del lettore europeo classifica come magici. Siamo abituati a leggere questi elementi in un tipo di letteratura che abbiamo chiamato fantastica, cioè non realista. A causa di tutti questi elementi quando questo romanzo è apparso in Europa, nel 1968, è stato interpretato inopportunamente, soprattutto a causa di una traduzione superficiale e invasiva.

Il soffermarsi su questi eventi prodigiosi ha fondato una lettura esotista di questo romanzo, che per alcuni lettori europei è stato proprio il primo approccio alla letteratura e cultura latinoamericana, formando in qualche modo il mito di una letteratura e una cultura capace esclusivamente di grandi voli dell’immaginazione, di grandi invenzioni, e perciò lontano dalla realtà e dal vero. Evento e processo culturale già avvenuto nel momento della sua scoperta e della sua conquista

Cent’anni di solitudine è quindi stato in grado di proporre nuovamente una dicotomia tra il pensiero e la cultura europea e il pensiero e la cultura latinoamericana. Da una parte gli europei con il loro dominio del logos, della razionalità, del discorso forte e dell’altra lo stereotipo dell’America latina: fantastica o, addirittura, magica. Le tradizioni colombiane presenti nel romanzo vengono ridotte ad assurdità, prive del rispetto dato ad esempio alle parabole della religione cristiana, composte anch’esse da elementi sovrannaturali. In America latina non c’è capacità di pensiero analitico, ma solo di produrre favole meravigliose: il regno della fantasia, non del pensiero.

Tuttavia, Gabriel García Márquez ha sempre affermato di appartenere al genere realistico, seppure leggermente diverso da quello tradizionale di stampo positivista, il suo è un realismo malinconico.

L’elemento autobiografico è ciò che più ci fa capire come dietro tanta apparente immaginazione ci siano, in realtà, tante tradizioni e tanta storia. Lo scrittore ha più volte confermato che gran parte delle vicende che racconta in questo romanzo sono le storie che gli raccontava suo nonno. Ciò che a noi può sembrare assurdo, per lui era famigliare, quotidiano, per niente eccezionale.

Il romanzo si apre proprio con la scoperta del ghiaccio, portato per la prima volta all’interno di Macondo, episodio che García Márquez ha vissuto in prima persona quando il padre l’aveva portato a vedere il ghiaccio da bambino. Nel romanzo il ghiaccio appare come qualcosa di magico, proprio perché mai visto prima e in pieno contrasto con la natura tropicale lussureggiante e le temperature calde e afose, alternate da lunghi periodi di pioggia.

In Cent’anni di solitudine non troviamo però solo tracce di realtà che riguardano la verità autobiografica del suo creatore, ma anche episodi della storia colombiana. Il romanzo è un tessuto totalmente centrato su eventi salienti e laceranti della storia colombiana, tanto da poterlo accostare a un romanzo storico. García Márquez tesse analogie con la storia colombiana e la storia internazionale, prima fra tutti il declino della città di Macondo, vista inizialmente come un piccolo paradiso terrestre. Questa disfatta non può che denunciare un evento storico devastante per il Sud America e per la Colombia, l’imperialismo statunitense. L’inizio dell’apocalisse per Macondo e i suoi abitanti è determinato dall’arrivo della compagnia bananiera, una multinazionale realmente esistente nella storia americana e mondiale, la United Fruit Company.  La storia della Colombia, infine, può essere elevata alla storia degli assetti geopolitici del pianeta, rapporti di potere tra le potenze coloniali industriali, il cosiddetto primo mondo, e il secondo e terzo mondo, da sfruttare e da adattare a sua immagine e somiglianza.

García Márquez è riuscito, tramite la storia di una generazione e l’evoluzione di Macondo, a trasformare una narrazione apparentemente locale in universale. Solo superando i propri confini culturali si possono apprezzare gli eventi che hanno vissuto i membri della Famiglia Buendia e godersi il viaggio che lo scrittore è riuscito a costruire con il suo romanzo.

«Da tempo non leggevo più nulla che mi colpisse tanto profondamente, Se è vero, come dicono, che il romanzo è morto o si prepara a morire, salutiamo allora gli ultimi romanzi che sono venuti a rallegrare la terra. Leggere Cent’anni di solitudine è stato per me come udire uno squillo di tromba che mi svegliasse dal sonno. L’ho cominciato senza voglia e aspettandomi di essere sospinta indietro. Qualcosa ha incatenato la mia attenzione e sono andata avanti, avendo la sensazione di procedere in una boscaglia fittissima e verde, piena d’uccelli, di serpenti e d’insetti. Dopo averlo letto m’è parso d’aver seguito un volo d’uccelli rapidissimo e sterminato, in un cielo di incalcolabili distanze dove non c’era consolazione se non l’amara e corroborante coscienza del vero». -Natalia Ginzburg

Federica Ventura

Laureanda in Editoria in perenne ricerca di nuovi stimoli. Prediligo letture disordinate in una vita spettinata. Montagne, oceani o città: l'importante è continuare a muoversi. 

Emily Dickinson e il coraggio di essere dei re

Emily Dickinson e il coraggio di essere dei re

Emily Dickinson e il coraggio di essere dei re

Il ricordo di Emily Dickinson, poetessa statunitense vissuta nell’800, rimane vivo grazie alle sue numerose poesie, fonte di riflessione e ricche di significato. Vogliamo omaggiarla ricordando una delle sue poesie più belle.

 

Emily Dickinson nasce il 10 dicembre 1830, e il suo nome rimanda subito alla nostra memoria le sue poesie: delicate, coraggiose e infinitamente belle. Semplici da comprendere ma prive di banalità, hanno il potere d’insegnarci ogni volta qualcosa che, forse, avevamo tralasciato.

Ha vissuto soprattutto nella casa della sua famiglia d’origine, borghese e di tradizioni puritane. Difficile è stato per la poetessa il rapporto col padre, che definì in questo modo: “Mi compra molti libri ma mi prega di non leggerli perché ha paura che scuotano la mente”.

All’età di venticinque anni decide di recludersi nella propria camera, e non uscì neppure quando morirono i suoi genitori.

In molti dei suoi componimenti possiamo scorgere la figura di un uomo, il reverendo Charles Wadsworth, di cui si innamorò. Era, però, già sposato con figli e l’amore che provò per lui rimase platonico.
Emily Dickinson morì di nefrite ad Amherst, medesimo posto in cui era nata, il 15 maggio 1886 all’età di 55 anni.

Non conosciamo mai la nostra altezza

Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito
arriva al cielo la nostra statura.
L’eroismo che allora recitiamo
sarebbe quotidiano, se noi stessi
non c’incurvassimo di cubiti
per la paura di essere dei re.

Cos’è la nostra altezza se non il nostro valore? Quel che siamo in grado fare e, soprattutto, di essere, ma che spesso sminuiamo. Paradossalmente, è più facile riconoscere il valore e le capacità altrui, il loro essere all’altezza, e dimentichiamo quel che siamo noi. Ci nascondiamo dietro le nostre insicurezze, sempre in disparte, abbandoniamo il coraggio di metterci alla prova.

Quando siamo chiamati a tentare ci accorgiamo di essere meno piccoli di quel che credevamo. Dopo esserci alzati, se abbiamo la forza di continuare e di non lasciarci vincere dalla paura di non essere abbastanza, arriva al cielo la nostra statura.

Il nostro eroismo, però, non dovrebbe essere occasionale, ma quotidiano. Dovremmo abbracciare quel coraggio, quella voglia di uscire dall’oscurità delle nostre insicurezze. Dovremmo abbandonare la paura di essere dei re, senza accontentarci di una vita vissuta in disparte.

Siamo abituati a vivere tra la massa, come se il nostro contributo fosse insignificante. Ci disperdiamo tra la folla, non alziamo la voce, non ci esponiamo. Farlo significherebbe rischiare di non essere apprezzati da chiunque e a noi non piace gestire i rifiuti. Non siamo neppure in grado di farlo. È più facile osservare le vite degli altri, non indagare sulle nostre potenzialità e darci dei no a priori.

 

Solo due quartine, otto versi e poche parole, ma colme di significato. Emily Dickinson ci chiama ad agire, a riconoscere la nostra altezza, a fare i conti con la nostra autostima. Ci esorta a tentare pur riconoscendo la paura che comporta. Si rivolge a chi vuole essere coraggioso, ma non sa come.

Una poesia non deve essere solo letta, ma vissuta, interpretata e fatta propria. È un’esperienza che si consuma verso dopo verso, ma che non si esaurisce mai.

 

Martina Macrì

Sono Martina, ho una laurea in Lettere e studio Semiotica a Bologna. La scrittura è il mio posto sicuro, il mio rifugio. Scrivo affinché gli altri, o anche solo una persona, mi leggano e si riconoscano. Su IoVoceNarrante mi occupo principalmente di letteratura.  

Guida all’eteronimia: Alberto Caeiro

Guida all’eteronimia: Alberto Caeiro

Guida all’eteronimia: Alberto Caeiro

Questo articolo è il terzo di una serie completamente dedicata ai quattro principali eteronimi creati da Fernando Pessoa. L’eteronimo analizzato è Alberto Caeiro.

Fernando António Nogueira Pessoa è uno degli scrittori più celebri e fuori dagli schemi della letteratura portoghese. È difficile ingabbiare Pessoa in un unico genere e nel suo caso persino in una un’unica personalità letteraria, grazie alla sua applicazione nella scrittura del concetto di Eteronimia (Heteros: altro – Onoma: Nome). Il termine non è stato coniato da Pessoa, ma egli ha sicuramente aggiunto un significato. La parola “eteronimo” veniva già utilizzata in linguistica per indicare due termini con base diversa che insieme formano una struttura semantica (madre, zio, fratello), oppure in senso grammaticale più stretto sono in relazione di eteronimia le coppie di nomi animati, relativi sia alla sfera umana sia a quella animale, che esprimono la polarità (ad esempio maschio / femmina).

Pessoa utilizza l’eteronomia in ambito letterario, superando il semplice concetto di “pseudonimo”: egli, infatti, pubblica opere in prosa e in poesia vestendo i panni di altri scrittori, con vite e stili diversi, rimanendo tuttavia nel campo delle avanguardie della sua epoca. Non si limita, dunque, a utilizzare un nome fittizio, e neppure a creare un solo eteronimo, ma ben quattro. Pessoa (in quanto ortonimo) fa della sua molteplicità la sua forza. In Lettera sulla genesi dell’eteronimia spiega le sue molteplici personalità letterarie utilizzando teorie mediche in voga all’epoca, ovvero diagnosticandosi “un’isteria-nevrastenica che mira alla spersonalizzazione e alla simulazione.”

Gli eteronimi principali sono quattro: Álvaro de Campos, Alberto Caeiro, Ricardo Reis e Bernardo Soares. In questo articolo analizzeremo la figura di Alberto Caeiro.

Alberto Caeiro è un eteronimo fondamentale per l’esperienza letteraria di Pessoa in quanto ortonimo. Caeiro è ritenuto da lui stesso un maestro, colui che con il suo stile di scrittura ha contribuito alla formazione stilistica del suo vero io. In Lettera sulla genesi dell’eteronimia Pessoa spiega come Alberto Caeiro siano nato all’improvviso, di getto, ma che contemporaneamente abbia contribuito a formare di conseguenza Álvaro de Campos, Ricardo Reis e il resto delle figure che ruotano intorno alla sua persona.

“Un giorno […] – era l’8 marzo 1914 – mi sono accostato ad un alto comò e, preso un foglio di carta, ho iniziato a scrivere, in piedi, come sempre scrivo ogni volta che posso. E ho scritto più di trenta poesie di seguito, in una specie di estasi la cui natura non riuscirei a definire. È stato il giorno trionfale della mia vita e non potrò mai averne un altro così. Ho iniziato con un titolo, O Guardador de Rebanhos (“Il pastore di greggi”). E quanto è seguito è stata la comparsa di qualcuno in me, a cui ho dato subito il nome di Alberto Caeiro. Mi scusi l’assurdo della frase: era apparso in me il mio maestro.”

Come possiamo notare, in quanto fondatore di tutto, Pessoa lo costruisce radicato a uno stato di natura primitivo, lo circonda di un desiderio di semplicità. Caeiro ritorna al periodo in cui l’uomo non era costituito da impalcature sociali, politiche e religiose complesse, come avviene ad esempio con Ricardo Reis, espatriato in Brasile per dissensi politici. Questo eteronimo può essere posizionato nel grado zero dell’umanità, ha ancora il potere della scoperta, di lasciarsi affascinare. Questa caratteristica esistenziale la ritroviamo di conseguenza all’interno delle sue poesie, in grado di creare un’immagine arcaica e contemporaneamente leggera nella mente del lettore.

Tutta la pace della Natura erma
viene a sedersi accanto a me.
Ma io sono triste come un tramonto
per il nostro immaginare,
quando in fondo alla piana rinfresca
e si sente la notte entrata
come una farfalla dalla finestra.

Ciò che lo differenzia dai suoi compagni eteronimi è proprio la sua esperienza legata all’esistenza naturale, una natura che porta a nascere, a evolversi e infine a morire. Alberto Caeiro è infatti l’unico eteronimo la cui morte è effettivamente riportata e stabilita da Pessoa. Caeiro nasce nel 1889 a Lisbona e muore nel 1915 a causa della tubercolosi, dopo aver trascorso gran parte della sua vita in campagna, con un’istruzione elementare e senza una vera professione. Questi due elementi sottolineano come questo eteronimo abbia la funzione di riportare il lettore indietro nel tempo, fargli dimenticare la sua formazione, le sue conoscenze intrinseche o acquisite vivendo all’interno di una società complessa, società che tuttavia non ha nessun tipo di certezza o di verità.

Il mistero delle cose? Che ne so cos’è mistero!
L’unico mistero è che ci sia chi pensi al mistero.
Chi sta al sole e chiude gli occhi,
comincia a non sapere cos’è il sole
e a pensare molte cose piene di calore.
Ma apre gli occhi e vede il sole,
e non può pensare più a niente,
perché la luce del sole vale più dei pensieri
di tutti i filosofi e di tutti i poeti.
La luce del sole non sa cosa fa
e per ciò non erra e è comune e buona.

Federica Ventura

Laureanda in Editoria in perenne ricerca di nuovi stimoli. Prediligo letture disordinate in una vita spettinata. Montagne, oceani o città: l'importante è continuare a muoversi. 

Il castello dei destini incrociati: tarocchi o realtà?

Il castello dei destini incrociati: tarocchi o realtà?

Il castello dei destini incrociati: tarocchi o realtà?

Il castello dei destini incrociati di Calvino è un’opera intricati in cui immergersi e in grado di far riflettere sulla propria esistenza.

Il Castello dei destini incrociati è un’opera di Italo Calvino pubblicata per la prima volta da Franco Maria Ricci, una casa editrice parmense nel 1969 con il titolo Il mazzo visconteo di Bergamo e New York.  La casa editrice Einaudi lo pubblicò quattro anni dopo, arricchendo la raccolta con una spiegazione dell’autore sull’origine e la tipologia dei tarocchi utilizzati.

“Ogni scelta ha un rovescio cioè una rinuncia, e così non c’è differenza tra l’atto di scegliere e l’atto di rinunciare.”

L’opera, suddivisa in due parti (il Castello e la Taverna) è fondamentalmente una raccolta di racconti, in grado di differenziarsi dai tradizionali stili narrativi per alcune particolarità. Prima di tutto Calvino utilizza un mazzo di tarocchi per sviluppare la linea narrativa: i personaggi si trovano a vivere determinate storie ed esperienze man mano che le carte vengono scoperte sul tavolo. Nella prima parte utilizza i tarocchi Marsigliesi, mentre nella seconda quelli Viscontei (molto più particolareggiati); nell’edizione Mondadori è possibile visionare, durante la lettura, le carte posizionate a bordo della pagina. Un aspetto che rende unica questa raccolta è il fatto che i racconti sono legati tra di loro proprio dai tarocchi che man mano compaiono, non si ha quindi un inizio isolato o una fine che sbarra la via a futuri avvenimenti.

 

L’ambientazione e il timbro linguistico, invece, appaiono diversi nella prima, ambientata in un castello medioevale, e nella seconda, che si sviluppa invece in una taverna rinascimentale. Calvino si immerge infatti nelle realtà che vuole raccontare descrivendo situazioni verosimili, utilizzando un linguaggio oltremodo anticheggiante per il lettore contemporaneo.

La storia comincia con il racconto del narratore, il quale si trova in una foresta nel quale scorge un castello dove potersi fermare per riposare. Una volta entrato, il protagonista si accorge di non riuscire più a proferire parola e proprio come lui anche tutti gli altri personaggi presenti all’interno del castello, dai viandanti, al castellano, fino ai prodi cavalieri. Durante la cena è il castellano a donare ai propri commensali un mazzo dai tarocchi in modo tale da potersi finalmente esprimere e raccontare le proprie vicende di vita.

Riassumere l’intero libro risulterebbe complicato e pedante, oltre a toglierne uno dei suoi principali fascini: il desiderio di scoprire cosa il destino avrà in serbo per i vari protagonisti. Nelle storie si trovano sia personaggi inventati, sia personalità ben conosciute nel mondo letterario: come, ad esempio l’Orlando di Ariosto o Elena di Troia.

La scelta dell’utilizzo dei tarocchi non è solamente uno strumento narrativo fuori dal comune, ma custodisce in sé il vero significato dell’opera. Per comprenderlo bisogna prima di tutto allontanarsi dai pregiudizi che oggi, anche giustamente, accompagnano i tarocchi. Quest’ultimi, infatti non hanno semplicemente lo scopo di far divertire o rubare i soldi a persone che pensano veramente di trovare in essi il proprio futuro, chiaro e tondo. La tradizione dei tarocchi è invece basata sulla crescita personale, sull’imprevedibilità, sulle scelte che solo le persone possono prendere, ma che contemporaneamente nascondono molteplici futuri. Solo scrutando dentro sé stessi si può dare un senso alle varie interpretazioni delle carte.  Calvino ha studiato e sfruttato le immagini e i significati degli arcani minori e maggiori per costruire delle storie immaginifiche, inaspettate, ma con un senso.

Due delle parole chiave per descrivere le vicende dei personaggi sono introspezione e combinazione. Introspezione in quanto le loro azioni sembrano dettate sia da una forza superiore sia dalle caratteristiche personali, dal comportamento che rende unica quella determinata persona. Per quanto riguarda le combinazioni, invece, è fattuale notare come tutti gli avvenimenti siano incasellati uno dopo l’altro, e l’interpretazione dei tarocchi può variare sia per ciò che appare prima sia per ciò che succede successivamente.

Le storie sono un vero e proprio percorso di vita ricco di insidie, di indecisioni, di atti eroici o codardi, di verità difficile da ammettere. Il castello dei destini incrociati è un viaggio ambientato nel passato, con personaggi inventati, con vicende dettate da delle carte, ma che nasconde in sé una realtà unica e personale pronta a manifestarsi nella mente di ogni lettore.

“Mi chino a scrutare dentro l’involucro di me stesso; e non ho l’aria soddisfatta: ho un bel scuotere e spremere, l’anima è un calamaio asciutto. Quale Diavolo vorrà prenderla in pagamento per assicurarmi la riuscita dell’opera?”

Federica Ventura

Laureanda in Editoria in perenne ricerca di nuovi stimoli. Prediligo letture disordinate in una vita spettinata. Montagne, oceani o città: l'importante è continuare a muoversi.