Il castello dei destini incrociati: tarocchi o realtà?

Il castello dei destini incrociati: tarocchi o realtà?

Il castello dei destini incrociati: tarocchi o realtà?

Il castello dei destini incrociati di Calvino è un’opera intricati in cui immergersi e in grado di far riflettere sulla propria esistenza.

Il Castello dei destini incrociati è un’opera di Italo Calvino pubblicata per la prima volta da Franco Maria Ricci, una casa editrice parmense nel 1969 con il titolo Il mazzo visconteo di Bergamo e New York.  La casa editrice Einaudi lo pubblicò quattro anni dopo, arricchendo la raccolta con una spiegazione dell’autore sull’origine e la tipologia dei tarocchi utilizzati.

“Ogni scelta ha un rovescio cioè una rinuncia, e così non c’è differenza tra l’atto di scegliere e l’atto di rinunciare.”

L’opera, suddivisa in due parti (il Castello e la Taverna) è fondamentalmente una raccolta di racconti, in grado di differenziarsi dai tradizionali stili narrativi per alcune particolarità. Prima di tutto Calvino utilizza un mazzo di tarocchi per sviluppare la linea narrativa: i personaggi si trovano a vivere determinate storie ed esperienze man mano che le carte vengono scoperte sul tavolo. Nella prima parte utilizza i tarocchi Marsigliesi, mentre nella seconda quelli Viscontei (molto più particolareggiati); nell’edizione Mondadori è possibile visionare, durante la lettura, le carte posizionate a bordo della pagina. Un aspetto che rende unica questa raccolta è il fatto che i racconti sono legati tra di loro proprio dai tarocchi che man mano compaiono, non si ha quindi un inizio isolato o una fine che sbarra la via a futuri avvenimenti.

 

L’ambientazione e il timbro linguistico, invece, appaiono diversi nella prima, ambientata in un castello medioevale, e nella seconda, che si sviluppa invece in una taverna rinascimentale. Calvino si immerge infatti nelle realtà che vuole raccontare descrivendo situazioni verosimili, utilizzando un linguaggio oltremodo anticheggiante per il lettore contemporaneo.

La storia comincia con il racconto del narratore, il quale si trova in una foresta nel quale scorge un castello dove potersi fermare per riposare. Una volta entrato, il protagonista si accorge di non riuscire più a proferire parola e proprio come lui anche tutti gli altri personaggi presenti all’interno del castello, dai viandanti, al castellano, fino ai prodi cavalieri. Durante la cena è il castellano a donare ai propri commensali un mazzo dai tarocchi in modo tale da potersi finalmente esprimere e raccontare le proprie vicende di vita.

Riassumere l’intero libro risulterebbe complicato e pedante, oltre a toglierne uno dei suoi principali fascini: il desiderio di scoprire cosa il destino avrà in serbo per i vari protagonisti. Nelle storie si trovano sia personaggi inventati, sia personalità ben conosciute nel mondo letterario: come, ad esempio l’Orlando di Ariosto o Elena di Troia.

La scelta dell’utilizzo dei tarocchi non è solamente uno strumento narrativo fuori dal comune, ma custodisce in sé il vero significato dell’opera. Per comprenderlo bisogna prima di tutto allontanarsi dai pregiudizi che oggi, anche giustamente, accompagnano i tarocchi. Quest’ultimi, infatti non hanno semplicemente lo scopo di far divertire o rubare i soldi a persone che pensano veramente di trovare in essi il proprio futuro, chiaro e tondo. La tradizione dei tarocchi è invece basata sulla crescita personale, sull’imprevedibilità, sulle scelte che solo le persone possono prendere, ma che contemporaneamente nascondono molteplici futuri. Solo scrutando dentro sé stessi si può dare un senso alle varie interpretazioni delle carte.  Calvino ha studiato e sfruttato le immagini e i significati degli arcani minori e maggiori per costruire delle storie immaginifiche, inaspettate, ma con un senso.

Due delle parole chiave per descrivere le vicende dei personaggi sono introspezione e combinazione. Introspezione in quanto le loro azioni sembrano dettate sia da una forza superiore sia dalle caratteristiche personali, dal comportamento che rende unica quella determinata persona. Per quanto riguarda le combinazioni, invece, è fattuale notare come tutti gli avvenimenti siano incasellati uno dopo l’altro, e l’interpretazione dei tarocchi può variare sia per ciò che appare prima sia per ciò che succede successivamente.

Le storie sono un vero e proprio percorso di vita ricco di insidie, di indecisioni, di atti eroici o codardi, di verità difficile da ammettere. Il castello dei destini incrociati è un viaggio ambientato nel passato, con personaggi inventati, con vicende dettate da delle carte, ma che nasconde in sé una realtà unica e personale pronta a manifestarsi nella mente di ogni lettore.

“Mi chino a scrutare dentro l’involucro di me stesso; e non ho l’aria soddisfatta: ho un bel scuotere e spremere, l’anima è un calamaio asciutto. Quale Diavolo vorrà prenderla in pagamento per assicurarmi la riuscita dell’opera?”

Federica Ventura

Laureanda in Editoria in perenne ricerca di nuovi stimoli. Prediligo letture disordinate in una vita spettinata. Montagne, oceani o città: l'importante è continuare a muoversi. 

Alda Merini e l’amore per la poesia

Alda Merini e l’amore per la poesia

Alda Merini, poetessa milanese scomparsa nel 2009, ha raccontato in versi l’amore carnale e l’amore per la poesia, sua compagna di vita. Ha testimoniato le sofferenze e il desiderio di libertà provate all’interno dei manicomi in cui è stata internata per diversi anni.

Alda Merini nasceva il 21 marzo 1931 in una Milano che amava immensamente. Crebbe in una famiglia di umili condizioni e frequentò un istituto professionale. Cercò di trasferirsi al liceo Manzoni, ma non superò il test di italiano e si dedicò a studiare pianoforte. A quindici anni, però, emerse il suo talento e pubblicò due poesie all’interno di un’antologia.

L’anno successivo, a soli sedici anni, comparvero i primi segni di una malattia che la perseguiterà per il resto della vita: il disturbo bipolare. Erano anni bui per le persone considerate pazze, internate nei manicomi senza alternative. La poetessa milanese non ricevette cure adeguate, ma solo numerose privazioni, subendo l’elettroshock. In quei luoghi dediti a torture ancora legali per diversi anni, Alda Merini riuscì a concepire poesie meravigliose, intense e forti, contrastando la bruttezza che la circondava. Da questa esperienza, infatti, nacque la raccolta La terra santa: un viaggio che attraversa i momenti vissuti all’interno del manicomio.
È stata marchiata dal fardello della follia, una compagna di vita scomoda e limitante, ma che le ha permesso di vedere il mondo da un altro punto di vista. Leggiamo un pezzo della lunga e struggente poesia Laggiù dove morivano i dannati:

[…]
Laggiù nel manicomio
dove le urla venivano attutite
da sanguinari cuscini
laggiù tu vedevi Iddio
non so, tra le traslucide idee
della tua grande follia.
[…]

Il manicomio era il posto in cui non si poteva urlare il proprio dolore, dove non c’era posto per l’umanità e le urla venivano soffocate. È in quella mancanza che Alda Merini trovò Dio, lo vide in mezzo al nulla e lo sentì tra le pareti del silenzio. Credeva in Dio, pur non accettando che il sesso fosse trattato come un peccato. Ella amava l’amore sentimentale e il desiderio carnale, protagonisti di numerose poesie. Si innamorava continuamente, accettando anche la conseguente sofferenza. Visse relazioni difficili e conobbe uomini complicati, infedeli, che non le donavano tutto l’amore che lei dava loro. È in quell’amore, tra le braccia di un uomo, che riesce a stare bene. Ce lo racconta nella poesia C’è un posto nel mondo dove il cuore batte forte:

C’è un posto nel mondo
dove il cuore batte forte,
dove rimani senza fiato,
per quanta emozione provi,
dove il tempo si ferma
e non hai più l’età;
quel posto è tra le tue braccia
in cui non invecchia il cuore,
mentre la mente non smette mai di sognare…
Da lì fuggir non potrò
poiché la fantasia d’incanto
risente il nostro calore e no…
non permetterò mai
ch’io possa rinunciar a chi
d’amor mi sa far volar.

Non può fuggire da quel posto, fonte di una felicità priva di eguali. Non può e non sa rinunciarvi perché anche se il tempo passa e si riversa sul corpo, lì il cuore non invecchia mai. Rimane vivo.

Alda Merini era sposata con un panettiere, ma in seguito alla sua morte sposò il poeta Michele Pierri, che aveva apprezzato molto le sue poesie. Si trasferì per tre anni a Taranto e scrisse il suo primo libro in prosa: L’altra verità. Diario di una diversa. A Taranto, però, venne nuovamente internata e visse anni terribili, le impedirono anche di vedere le figlie. Soltanto dopo il 1978, anno in cui la Legge Basaglia chiuse i manicomi, Alda Merini poté ritrovare la serenità perduta.

Alda Merini e Michele Pierri

Accanto all’amore carnale e alla follia, anche l’amore per la poesia è dominante nelle opere di Alda Merini. Emerge il contrasto e il legame che esiste tra la sofferenza e la bellezza, tra la solitudine e la creatività. La poesia nasce da una mancanza, nell’assenza di rumore e nel buio della notte.

Le più belle poesie
si scrivono sopra le pietre
coi ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero.
[…]
Così, pazzo criminale qual sei
tu detti versi all’umanità,
i versi della riscossa
e le bibliche profezie
e sei fratello a Giona.

Questa poesia, contenuta nella raccolta La terra santa, presenta un’antitesi tra la poesia, bella e delicata, e la pietra, dura e pesante. Alda Merini vuole dirci che non c’è bellezza senza sofferenza. Scrisse molte delle sue poesie in un manicomio, un luogo in cui ha subìto umiliazioni, ma quelle ginocchia piegate non le hanno impedito di inseguire la bellezza. È lì che cercò il mistero, trovandolo tra i versi di una poesia scritta col sangue. Tu, poeta, sei un pazzo criminale e detti versi all’umanità: consegni agli uomini i versi della rivincita, della speranza. Tu, poeta, sei fratello a Giona: sei come il profeta Giona, che trasgredì il dovere dettato da Dio, fuggendo e isolandosi da tutti gli altri.

I poeti trovano sé stessi di notte, quando gli altri dormono e non hanno fretta di finire. Scrivono quando le piazze sono vuote e l’unico rumore che si ode è quello delle lancette:

I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.
[…]

Alda Merini visse una vita difficile, violenta e accusata di essere folle. Non smise mai di cercare, creare e amare. Mise su carta le proprie emozioni, altalenanti e forti, consegnandoci fragilità, coraggio e speranza. È stata e continua a essere una delle poetesse più espressive e talentuose del Novecento, e non solo. Non è stata compresa per molto tempo, ma la penna le è rimasta fedele tra le dita.

O poesia, non venirmi addosso
sei come una montagna pesante,
mi schiacci come un moscerino;
[…]

La poesia è violenta con lei, la teme, come alcuni uomini che ha conosciuto. Eppure, non può fare a meno di amarla e noi non possiamo non amare i suoi versi.


di Martina Macrì

Martina Macrì

Sono Martina, ho una laurea in Lettere e studio Semiotica a Bologna. La scrittura è il mio posto sicuro, il mio rifugio. Scrivo affinché gli altri, o anche solo una persona, mi leggano e si riconoscano. Su IoVoceNarrante mi occupo principalmente di letteratura.