Benedetto Croce: l’arte come marca dell’universo

Benedetto Croce: l’arte come marca dell’universo

Benedetto Croce: l’arte come marca dell’universo

Benedetto Croce nasce il 25 febbraio 1866 a Pescasseroli, in Abruzzo, e muore il 20 novembre 1952. Rimasto sempre lontano dall’insegnamento universitario, la sua attività intellettuale si staglia per tutta la prima metà del Novecento e si concretizza in una febbrile produzione editoriale, critica e filosofica, diventando una delle personalità più influenti in Italia e in tutta Europa. 

Benedetto Croce è considerato un eminente esponente dell’idealismo italiano. Quando si parla di “idealismo” si fa riferimento, di solito, ad una dottrina filosofica che riduce la complessità della realtà a “idea”, e cioè a sensazione, a rappresentazione o pensiero, oppure ancora a elemento di conoscenza. 

In questo senso, l’idealismo è un tratto comune a numerose dottrine che, a cavallo fra XIX e XX secolo, si sono poste in antitesi all’imperante positivismo; più in generale, l’idealismo italiano di Croce (come quello inglese) “si origina” da quello tedesco, e intende dimostrare l’unità o l’identità di infinito e finito, spirito e natura, ragione e realtà, nonché di Dio e creato. 

L’idealismo di Croce giunge a questo assunto fondamentale fornendo una vivace analisi del significato di arte, di estetica, di poesia.

Nell’introduzione al suo studio su Dante, La poesia di Dante, apparso intorno al 1920 e che raccoglie alcuni articoli apparsi in prima battuta su diverse riviste, Croce scrive:

“Ora, senza dubbio, la passione è la materia della poesia come dell’arte in genere, e senza passione non nasce poesia ed arte; ma i romantici per una parte confondevano sovente la passione come materia con la passione come forma, deprimendo l’identità dell’arte, e dall’altra, anche in quanto materia la concepivano in modo ristretto e arbitrario.”

La critica crociana all’estetica romantica di stampo tedesco è funzionale all’introduzione e al delineamento delle definizioni basilari della sua dottrina estetica. Libero quindi da preconcetti di forma e contenuto ascrivibili al mondo romantico mitteleuropeo (Croce definisce l’opposizione fra romantico e classico “eresia tedesca”), la poesia di Dante finalmente si libera di una fortissima ipoteca critica e può ascedere al Parnaso poetico che gli spetta. Con le dovute precisazioni. 

Continua Croce pochi paragrafi dopo:

“Con questo accenno, si è già adombrato il criterio che è da sostituire a quello dell’estetica idealistica e romantica e che ne è, per certi rispetti, correzione e inveramento: il concetto dell’arte come lirica o intuizione lirica.”

Orbene, l’arte risulta, nella concezione crociana, l’oggetto precipuo dell’estetica. L’estetica, in qualità di disciplina filosofica, è lo studio teorico dell’arte; quest’ultima viene definita secondo un duplice aspetto: il primo, l’arte è intuizione dell’individuale; il secondo, l’arte è libera produzione di immagini. 

Intuizione significa cogliere un’immagine nel suo valore di mera, semplice immagine; è un cogliere l’immagine di natura prelogica o alogica, l’immagine di per sé stessa. L’immagine colta attraverso un’intuizione pura annulla il confine fra reale e irreale, ed è priva di ipoteche e costrizioni che gli uomini sono soliti affibbiarle, come un atto utilitaristico (l’arte serve a qualcosa) o morale (l’arte persegue il bene). L’arte colta da un’intuizione pura è assolutamente autonoma. 

Nel secondo caso, e cioè l’arte intesa come libera produzioni di immagini, le immagini che vengono intuite non sono disordinate: l’immagine colta segue un principio che è quello del sentimento.

Il sentimento, in qualità di principio ordinatore dell’arte, rappresenta il significato, il contenuto dell’arte. In poche parole, se si coglie un’immagine con un’intuizione pura che “contiene” un sentimento, ecco che l’arte è una sintesi estetica di sentimento (significante, contenuto) e immagine (forma). Fra i due elementi, quello di maggior peso è rappresentato dal contenuto (sentimento): in virtù di ciò l’artista non deve dar conto a nessuno, è “filosoficamente incensurabile, utilitaristicamente indifferente e moralmente incolpevole” proprio perché lui poeteggia, rima, dipinge, sulla scia di un sentimento altissimo. 

Ogni opera, pittorica e scultorea, letteraria o poetica (inclusa la Commedia), dovrebbe essere valutata secondo un criterio estetico di natura lirica, dell’io proteso e del sentimento, e libero dalle costruzioni critiche che si sono manifestate a partire dal romanticismo tedesco. 

Tralasciando le aporie della teoria crociana (che farsene quindi della scala di valore artistica; tutte le opere d’arte sono belle?), è innegabile l’importanza che essa riveste nell’ambito accademico e intellettuale italiano, nonché europeo. 

L’estetica crociana, inserendosi nell’idealismo, afferma infatti che l’immagine intuita racchiuda in sé la pienezza della condizione umana e la totalità indivisibile del reale: l’immagine dunque racchiude una cosmicità intrinseca, l’arte diventa marca essenziale di un infinito colto con l’intuizione e non con la logica. L’individuo è in grado, al di là di qualunque assioma, di cogliere con l’intuizione l’universo che si cela in un’immagine.

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Rimbaud: il veleno e l’ebrezza

Rimbaud: il veleno e l’ebrezza

Rimbaud: il veleno e l’ebrezza

Fra i più celebri autori di tutta la letteratura francese, annoverato nel circolo dei “poeti maledetti”, Arthur Rimbaud nasce a Charleville (nel dipartimento delle Ardenne, al confine con il Belgio) nel 1854 e muore il 10 novembre 1891. 

Fra i più celebri autori di tutta la letteratura francese, annoverato nel circolo dei “poeti maledetti”, Arthur Rimbaud nasce a Charleville (nel dipartimento delle Ardenne, al confine con il Belgio) il 20 ottobre 1854. 

Ripercorrendo la sua parabola biografica ci si accorge già dagli anni dell’adolescenza che il giovane Rimbaud possiede un animo passionale, in cui il fuoco si esplica non solo nei versi a tratti tormentati e esaltati, ma anche nei comportamenti più disparati e scandalosi per la morale borghese, nel cui ambito Rimbaud fu educato.

Abbandonato dal padre, capitano di fanteria, Arthur Rimbaud si separa dalla madre autoritaria e bigotta all’età di 16 anni, nel 1870: sono anni difficili per la Francia, minacciata dalla milizia prussiana; Rimbaud progetta un viaggio a Parigi senza essere autorizzato, e una volta arrivato nella capitale francese viene arrestato e detenuto nella prigione Mazas. Solo l’intervento del suo amico e professore di letteratura del liceo, Georges Izambard, gli permette di ritrovare la libertà.  

Da allora Rimbaud, rientrando raramente nella sua città natale, comincia una vita di peregrinazioni che lo porterà, come noto, a conoscere Paul Verlaine nell’agosto del 1871. L’inquieta relazione fra i due, in un turbine di tumulti ed eccessi, termina fatalmente nel giugno del 1873, a Bruxelles: in seguito a due colpi di arma da fuoco che gli feriscono leggermente il polso, Rimbaud parte senza Verlaine, abbandonato nel suo delirio ebbro. 

Leggere come una brezza autunnale, le liriche di Rimbaud corrono sulla carta; esaltanti come un sorso d’assenzio nella notte illuminata a giorno, i suoi versi e poemi in prosa, a tratti scomposti, sortiscono nel lettore moderno e contemporaneo un languore saturnino; infine le parole, al contempo strappate  al rozzo uso comune e alla vuota eloquenza, suscitano un deragliamento dei sensi e un abbandono alla forza evocativa delle parole stesse. 

In Mattinata d’ebrezza (Matinée d’ivresse), che compare nella raccolta di poemi in prosa Les Illuminations, pubblicata a partire dal 1886, il veleno assurge a funzioni disinibitorie che liberano l’io lirico: 

O mio Bene! O mio Bello! Fanfara atroce in cui non vacillo! Cavalletto fiabesco! Urrà per l’opera inaudita e per il corpo meraviglioso, per la prima volta! Cominciò fra le risate dei bambini, finirà per causa loro. Questo veleno resterà in tutte le nostre vene anche quando, passata la fanfara, saremo restituiti all’antica disarmonia. 

La voce dell’io lirico si fa aspramente ermetica. In un reale che potrebbe apparire disarmonico, brutto, un guizzo fiabesco irrompe: è la fanfara dell’arte, del bello e del bene, compresa e assorbita grazie ad un processo estatico. 

“Cavalletto” traduce il francese “chevalet”, che può far riferimento sia al cavalletto del pittore sia allo strumento di tortura (eculeo) sul quale il corpo del malcapitato veniva tirato.

L’io lirico, in questo caso veggente, sembra trasportarci in una dimensione paradossale in cui il dolore, non più stigmatizzato, diventa complemento del bello: non più solo la malinconia, ma il dolore, anche fisico, tempra lo spirito umano sul percorso del bello. 

Il veleno, che causa dolore e porta alla morte, prelude all’estasi: in un’esistenza in cui la sofferenza è preponderante, il corretto modo di incanalarla, di domarla, diventa essenziale.

Oh adesso noi così degni di queste torture! Riuniamo con fervore questa promessa sovrumana, questa demenza! L’eleganza, la scienza, la violenza!

La climax ascendente comprende dei sostantivi di sfere semantiche assai diverse fra loro e che ben esemplificano il caos dell’esistenza umana; fra tutti, la violenza ne è l’apice. Il caos è assenza di raziocinio (demenza), e l’individuo ne resta pericolosamente implicato. 

(…) Piccola veglia d’ebbrezza, santa! Non fosse altro che per la maschera di cui ci hai gratificato. Noi ti affermiamo, metodo! Non dimentichiamo che ieri hai glorificato ciascuna delle nostre età. Noi abbiamo fede nel veleno. Sappiamo donare la nostra vita intera tutti i giorni.

Il veleno e il dolore, metafore di una vita caotica, causano un’ebrezza esistenziale: essa è santa, perché squarcio sopportabile in un velo sofferente; è gratificante, perché il flebile guizzo d’arte, effimero nella sua consistenza quanto prorompente, fa cosa gradita ad un animo fustigato. La fede nel dolore, nel veleno e nell’ebrezza diventa totalizzante

Altamente consapevole, forse, della sua condizione, Rimbaud, a partire dal 1875, abbandona la poesia. Le sue peregrinazioni lo portano verso le Indie olandesi, in Egitto e nel Corno d’Africa; nel 1885 si dedica anche al traffico d’armi. 

La parabola discendente della sua vita lo riporta in Europa: a Marsiglia, accolto nell’Ospizio della Concezione, viene accudito dalla sorella Isabelle, e muore nel novembre 1891, fra deliri e atroci dolori.

 

di Giuseppe Sorace

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Voltaire fra Illuminismo e polemica

Voltaire fra Illuminismo e polemica

Voltaire fra Illuminismo e polemica

Voltaire muore il 30 maggio 1778. Figura più illustre dell’Illuminismo francese, la sua speculazione non mancò di attirare le critiche di alcuni illustri personaggi, come il lombardo Giuseppe Parini.

[post-views]

Ne Il Giorno, e precisamente a partire dal verso 598 della sezione intitolata Il Mattino, Giuseppe Parini scrive:

O de la Francia Proteo multiforme

Voltaire troppo biasimato e troppo torto 

lodato ancor che sai con novi modi

imbandir ne’ tuoi scritti eterno cibo

ai semplici palati; (…)

L’apostrofe, dal tono ironico e pungente, che Giuseppe Parini indirizza al multiforme Voltaire si situa nell’ambito di una più ampia polemica culturale che l’umanista lombardo intesse contro la Francia e le mode che ne provengono, andando ad infettare la già decadente nobiltà italica. 

Come è noto, il rapporto tra Parini e l’Illuminismo francese, e in particolar modo con Voltaire, conosce vicende alterne: in generale, l’umanista lombardo fa propri gli ideali di eguaglianza illuministi; tuttavia critica proprio l’atteggiamento che gli intellettuali francesi hanno nei confronti della religione, e soprattutto il fatto che le opere illuministe, prime fra tutte proprio quelle di Voltaire, siano diventate di moda presso i salotti nobiliari, costituendo non più proficue occasioni di speculazione filosofica e crescita del pensiero, ma oggetti di consumo: Parini, con uno spiccato senso critico, stigmatizza la “cultura da salotto”, mera ostentazione di precetti e di sapere spesso appreso acriticamente. 

Voltaire, al secolo François-Marie Arouet, nacque a Parigi nel 1694 e morì il 30 maggio 1778. Formatosi presso i collegi dei Gesuiti, fin da giovane fu introdotto presso i più importanti salotti della Parigi mondana.

Trasferitosi a Londra in seguito ad un periodo passato alla Bastiglia, Voltaire rimase affascinato dalla cultura inglese incarnata dalle personalità di Bacone, Locke e Newton; e grazie a tale entusiasmo cominciò un’intensa attività di studio, traduzione e critica delle opere letterarie e filosofiche inglesi. 

Intorno al 1750 Voltaire accetta di soggiornare presso la reggia di Federico II di Prussia, a Sanssouci, continuando la fervida attività di studio e pubblicazione. 

Dopo la rottura dell’amicizia con Federico II di Prussia e varie peregrinazioni, si stabilì nel castello di Ferney intorno al 1760: sono questi gli anni durante i quali Voltaire si afferma come capo dell’Illuminismo europeo e difensore della tolleranza religiosa, nonché dei diritti dell’uomo. 

Al cuore della speculazione volteriana vi è un reale che deve necessariamente essere accettato così come si presenta: l’uomo infatti, creatura destinata alla finitudine e all’ignoranza, deve riconoscere la sua condizione nel mondo al fine di accettarla; egli non deve lamentarsi della realtà o negare il mondo stesso, ma accettare serenamente lo stato delle cose. Voltaire infatti è convinto che il male abbia, a modo suo, una sua consistenza, una sua realtà, come il bene. Ma rinuncia, in virtù delle limitate capacità umane, a indagarne le fattezze e le cause.

Ne consegue una peculiare concezione del sovrasensibile, oggetto polemico di molti pensatori e umanisti che non rinunciano a un orizzonte metafisico: Voltaire non nega chiaramente l’esistenza di Dio, ma si rifiuta di determinarne gli attributi in quanto Dio non interviene nel mondo e nelle questioni riguardanti gli individui. 

La stoccata di Parini a Voltaire non si limita alla denuncia del semplicismo volteriano, ma lambisce anche le questioni puramente letterarie

Continua infatti Parini, a partire dal verso 604:

(…) tu appresta al mio Signor leggiadri studj

con quella tua Fanciulla agli Angli infesta

che il grande Enrico tuo vince assai,

l’Enrico tuo che peranco non abbatte 

l’Italian Goffredo ardito scoglio

contro a la Senna d’ogni vanto altera. 

Parini non potrebbe essere più icastico: la fanciulla invisa agli inglesi (Angli) è per antonomasia Giovanna d’Arco, protagonista del poema eroicomico La Pucelle d’Orléans (1755), mentre con il grande Enrico si allude proprio al poema epico composto da Voltaire fra il 1723 e il 1728, l’Henriade, che celebra le gesta di Enrico IV di Francia, primo della dinastia Borbone. L’Henriade sottende, da parte di Voltaire, un temerario e costante confronto con la l’Italian Goffredo, in questo caso metonimia della Gerusalemme Liberata di Tasso: il confronto, secondo Parini, si risolve inesorabilmente a favore del poema tassiano, esempio mirabile di arte poetica insuperabile dall’alterigia francese. 

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Caravaggio bohémien

Caravaggio bohémien

Caravaggio bohémien

Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, nasce in Lombardia nel 1571 e muore il 18 luglio 1610 in preda a febbri malariche contratte tra Lazio e Toscana.

[post-views]

La marea nera che avvolge il mito di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, ne condiziona la fama, la quale, spintasi ben oltre i confini italici, persiste intatta tutt’ora, dopo circa quattrocento anni. A ben vedere, soffermandosi sui documenti e sulle fonti consultabili, quasi due terzi della vicenda esistenziale del Caravaggio sono avvolti da una relativa oscurità, esasperando l’etichetta che i critici sogliono affibbiare a questa figura rivoluzionaria del linguaggio pittorico. 

Nato in Lombardia nel 1571, all’età di circa quindici anni Caravaggio si trasferisce a Roma, dove inizialmente affronta i rivolgimenti della fortuna patendo la fame, la miseria e una cattiva salute. 

La Roma tra Cinquecento e Seicento è una città internazionale, cuore ideologico di una Controriforma che ne ribadisce il ruolo centrale e insindacabile della cristianità, in seguito allo scisma dei protestanti. La Roma della Controriforma è quindi una città in fermento che, assetata di rilegittimazione, restaurazione e sentimento di rivalsa nei confronti di coloro che ne avevano rimesso in causa il ruolo, promuove un clima di grande fervore artistico: il linguaggio pittorico necessariamente si fa carico di questo nuovo assetto semantico e pedagogico, e l’iconografia sacra, che fra Quattrocento e Cinquecento incontra le istanze di movenze mondane ed estetizzanti, torna a linee severe e rigorose.

Caravaggio, già a partire dai lavori che risalgono al suo primo periodo romano (indicativamente fra il 1592 e il 1599), manifesta una certa intolleranza per l’iconografia sacra di stampo convenzionale e retorico, preferendo al contrario una pittura più vicina alla realtà quotidiana

Proprio i primi lavori tradiscono questo interesse per la vita di tutti i giorni e la vena popolaresca. I soggetti dei lavori del Caravaggio, il quale già nel 1597 era indicato come “famosissimo pittore” e riceveva committenze prestigiose dai membri più influenti della Roma papale e aristocratica, sembrano abbandonare la veste magniloquente che secoli di cultura e ricostruzione filologica, nonché passione per l’antico, avevano oltre misura monumentalizzato. Le divinità antiche, gli angeli messaggeri di Dio, i santi stessi e la Vergine si dotano di forme i cui contrasti, anziché smussati e levigati dalla sapiente arte del colore, vengono accentuati sulla base del chiaro-scuro; ma soprattutto, i soggetti rappresentati traggono ispirazione dalla realtà dimessa di tutti i giorni. 

Un esempio lampante di questa predilezione del Caravaggio per il vero è rappresentato dal Bacco degli Uffizi, in cui il giovane dio è un popolano dallo sguardo quasi vuoto, inespressivo, e appoggiato su un panneggio sgualcito, lontano dal magniloquente panneggio classico. La sua signorilità nel tenere un calice di vino è affettata, quasi ostentata, marcando una fortissima componente ironica e inverosimile. Nella tela del Fanciullo con canestro di frutta, conservato presso la Galleria Borghese, Caravaggio introduce una assoluta novità: se la realtà oggettuale veniva considerata dalla tradizione pittorica di minore importanza, qui, invece, il canestro di frutta sembra attirare la completa attenzione dell’osservatore. 

Caravaggio non era conosciuto solo per le sue tele, ma anche per il suo temperamento. Passioni smodate, irriverenza, collera subitanea: sono tutte caratteristiche che nel corso dei secoli hanno avuto buon gioco nella creazione di un Caravaggio bohémien, che anticipa la Parigi degli eccessi ottocenteschi. 

A ben vedere, a partire dal 1600 si ritrova parecchie volte il suo nome  nei registri di polizia: tra risse di strada, processi, querele, azzuffate di vario di tipo, Caravaggio fu ampiamente implicato nei disordini della Roma di primo seicento. 

Nel 1604 Caravaggio fu denunciato da un servitore di un’osteria: il pittore aveva ordinato un piatto di carciofi, e il servitore gliene servì quattro cotti nel burro e quattro nell’olio. Alla domanda di Caravaggio su quali fossero gli uni e quale gli altri, il servitore rispose “che li odorasse, che facilmente haverebbe conosciuto quali erano cotti nel burro et quelli che erano all’olio”. La risposta insolente bastò a far infuriare Caravaggio, il quale scaraventò il piatto contro il servitore, ferendolo ad una guancia. 

Fu una rissa in Campo Marzio che spinse Caravaggio ad allontanarsi da Roma: il pittore era un appassionato del gioco della palla, e una domenica di fine maggio del 1606 decise di misurare la propria bravura in una competizione a squadre con altri amici e giocatori. La sera, le due squadre vennero alle mani in Campo Marzio, e durante la rissa Caravaggio e un altro contendente, un certo Ranuccio Tommassoni, rimasero feriti. Le ferite di Ranuccio erano così profonde che ne determinarono la morte

Caravaggio si diresse quindi prima a Napoli, poi a Malta, dunque in Sicilia, dove la parabola tra genio ed eccesso si ripeté, come una stanca nenia, preludio della sua definitiva rovina. 

Nel mentre delle sue peregrinazioni, a Roma i suoi protettori e sostenitori perorarono la causa della grazia e del suo rientro a Roma: giuntagli notizia di una possibile grazia, Caravaggio scappa da Napoli per giungere a Roma. 

Imbarcatosi su una feluca diretta a Porto Ercole, sbarca a Palo, poco distante da Roma; viene trattenuto per accertamenti alla dogana, e una volta rilasciato cercò di raggiungere a piedi il vascello che era ripartito da Palo con tutte le sue cose, compresi i suoi quadri. In questo disperato tentativo, sfinito e sfibrato a causa delle febbri malariche contratte durante quella che appare un’impresa folle, Caravaggio muore il 18 luglio 1610 nei pressi di Porto Ercole. 

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Tolkien: il ciclo arturiano ne Il Signore degli Anelli

Tolkien: il ciclo arturiano ne Il Signore degli Anelli

Tolkien: il ciclo arturiano ne Il Signore degli Anelli

Il 29 luglio 1954 John Ronald Reuel Tolkien pubblica la trilogia de Il Signore degli Anelli, l’illustre capostipite del moderno romanzo fantasy, nella quale è ravvisabile un richiamo alla letteratura del ciclo arturiano.

[post-views]

La trasposizione cinematografica della trilogia Il Signore degli Anelli di Tolkien nei primissimi anni Duemila, ad opera di Peter Jackson, ha permesso al grande pubblico di appassionarsi ad una pietra miliare della cultura fantasy del secondo Novecento. A distanza di quasi vent’anni dall’uscita nelle sale dell’ultimo capitolo della trilogia (Il ritorno del re), le lande dell’Ithilien che fanno da sfondo all’epica battaglia dei Campi del Pelennor, proprio di fronte a Minas Tirith, hanno impresso un segno indelebile nell’immaginario degli spettatori e, soprattutto, dei lettori. 

Al di là della libera ispirazione cinematografica, indubbiamente di pregio nonostante l’elisione di alcuni episodi o personaggi (ad esempio, Tom Bombadil compare nel primo romanzo La compagnia dell’Anello, ma non nel primo film della trilogia di Jackson), la trilogia letteraria di Tolkien ha anticipato e inaugurato la fiorente stagione del romanzo fantasy. Un merito indiscusso del romanziere e umanista inglese, il quale è riuscito nell’intento di sgretolare la forte ipoteca intellettuale che gravava (e a tratti grava ancora oggi) su un genere avvertito come infantile, relegabile ai piani più bassi dell’universo romanzesco. 

Eppure, Il Signore degli Anelli non è solo una formidabile trilogia fantasy che soddisfa la fame di fantasia utilizzando sapientemente materiale mitologico e folkloristico della tradizione nord europea; ma accoglie le istanze dei nostalgici i quali, all’indomani della Seconda guerra mondiale, millantano un passato edificante e puro, scevro del dolore e della miseria, rappresentato nel romanzo dalla verde Contea abitata dagli Hobbit, in contrapposizione al progresso industriale che ha causato spesso sofferenza, incarnato invece dalla nera terra di Mordor. 

La complessità dell’opera di Tolkien non si esaurisce tuttavia al suo sensu moralis e alla velata critica della contemporaneità. 

Tolkien infatti, fin dall’adolescenza, dimostrò un fervido interesse per le lingue classiche, nonché il goto, il finnico e l’islandese; interesse che perfezionò presso l’Exeter College di Oxford, dove ottenne il Bachelor of Arts

Durante la sua carriera studentesca prima e di docente poi si interessò al popolare ciclo arturiano o bretone, il quale si diffuse ampiamente nell’Europa del XII secolo. Come noto, il ciclo arturiano o bretone definisce un filone letterario di storie e leggende, prevalentemente di ambiente celtico, ben più antiche del XII secolo. Personaggi del calibro di re Artù, del mago Merlino o della fata Morgana popolano ancora oggi l’immaginario comune, e trovano il proprio nucleo originario nella Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, cronaca favolosa dei re di Britannia composta in latino a partire dal 1135.

A tal proposito, Tolkien è autore di un poema incompiuto, La Caduta di Artù, in cui tratta direttamente la materia bretone; tuttavia proprio la tradizione arturiana traluce nella trilogia de Il Signore degli Anelli in virtù di alcuni parallelismi tra i personaggi del ciclo e quelli tolkieniani. 

Il parallelismo che forse appare più scontato è quello fra il mago Merlino e Gandalf. 

Nella tradizione bretone Merlino è un personaggio ambiguo: secondo alcuni è infatti il figlio del demonio, ma grazie alla guida della madre e di un sacerdote le sue inclinazioni malvagie vengono smussate. Merlino, come è noto, è l’aiutante magico sia di Artù che di suo padre, Uther Pendragon. 

Anche Gandalf ha alcuni tratti ambigui: nonostante la bontà delle sue azioni sia innegabile, lo stregone è fortemente tentato dall’anello, conoscendo già le nefaste conseguenze di una presa di controllo da parte del manufatto. 

Entrambi gli stregoni sembrano avere inoltre un rapporto complicato con le torri. Merlino, tentando di sedurre la sua allieva Viviana, viene rinchiuso in una torre che la stessa Viviana crea, intrappolato in una dimensione ulteriore, sospeso fra spazio e tempo; così come Gandalf, il quale viene imprigionato da Saruman sulla cima della torre di Isengard. 

Un altro chiaro parallelismo è rappresentato dalla coppia re Artù e Aragorn, re di Gondor: non solo entrambi sono connotati dalle qualità regali del coraggio e dell’audacia, nonché aiutati, come già accennato, da due maghi; ma brandiscono armi eccezionali quali Excalibur e Narsil. Entrambe le spade conoscono vicende alterne che possono essere equiparate: ad esempio, Excalibur si spezza dopo un duello, così come accade a Narsil dopo aver staccato l’unico anello a Sauron

E proprio l’unico anello segna un’ennesima consonanza con un oggetto mitico del ciclo arturiano: il Graal. A ben vedere, le narrazioni ruotano intorno a questi mitici artefatti, oggetti di una quête estenuante, e che conferiscono qualità soprannaturali, quali la vita eterna. 

I parallelismi, ad una attenta analisi, si infittiscono e confermano l’assoluto valore e pregio di un’opera straordinaria: ad esempio la coppia Dama del lago – Galadriel, entrambe legate agli elementi naturali e aventi il dono della profezia, nonché quella Frodo – Artù giovane, entrambi capaci di riunire attorno a sé una compagnia di nobili uomini, la Compagnia dell’anello da un lato e i cavalieri della celeberrima Tavola Rotonda dall’altro.

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.