Salinger e il malessere dell’individuo contemporaneo

Salinger e il malessere dell’individuo contemporaneo

Salinger e il malessere dell’individuo contemporaneo

J. D. Salinger (Jerome David Salinger), autore del celebre romanzo Il giovane Holden (The Catcher in the rye), è uno dei massimi esponenti della letteratura americana contemporanea. I suoi personaggi sono dei disadattati che faticano ad acclimatarsi alla società e alle norme soffocanti del ceto borghese medio-alto.

Salinger nasce a New York nel 1919. Figlio di un commerciante statunitense e di una casalinga di origini europee, dopo le scuole pubbliche decise di iscriversi alla New York University, senza tuttavia terminare gli studi. 

Nel 1942 viene sorteggiato per servire sotto le armi durante il Secondo conflitto mondiale: Salinger ben presto conosce l’orrore dello sterminio nazista entrando in uno dei campi di concentramento che facevano capo a quello di Dachau. Tale esperienza e il trauma che ne consegue non lo abbandoneranno per tutta la durata della sua vita, e anzi, anni dopo la fine del conflitto, in una lettera alla figlia,  dichiarerà che è impossibile dimenticare l’odore dei corpi bruciati

L’esperienza sotto le armi non solo lo segna emotivamente (decretando un periodo di cura per stress post-traumatico), ma rappresenta una fonte alla quale attingere per la sua produzione letteraria. Un esempio è fornito da uno dei primi racconti pubblicati da Salinger sul The New Yorker nel 1948, Bananafish o Un giorno ideale per i pescibanana, al termine del quale sovviene il suicidio di un reduce di guerra che mai si ristabilì completamente dallo stress post-bellico.

Schivo di natura, amante del raccoglimento e sfuggente al consorzio umano, Salinger è spesso descritto, forse in modo esagerato, come un misantropo. Lungi dal voler applicare un paradigma ingenuo di analisi testuale, e quindi consci che un’opera letteraria non rifletta fedelmente e di proposito l’esperienza di vita del proprio autore, i personaggi di Salinger, a ben vedere, sono dei disadattati che faticano ad acclimatarsi alla società, alle convenzioni e alle norme soffocanti del ceto borghese medio-alto. 

Soffocante nonché omologante, il mondo borghese è fortemente criticato nel celebre romanzo del 1951 e che ha portato alla ribalta Salinger, facendone uno degli autori americani contemporanei più iconici: The Catcher in the rye, tradotto in Italia col titolo de Il giovane Holden

Holden Caulfield, sedicenne statunitense di famiglia benestante, viene espulso per l’ennesima volta da una scuola facoltosa per non aver sostenuto abbastanza esami. A ridosso delle vacanze natalizie, Holden non ha il coraggio di dare l’ennesima delusione ai suoi genitori: decide di ritardare la notifica della notizia e, abbandonato con sdegno l’istituto, si dirige a New York, la sua città natale, e, anziché ritornare a casa, opta per un hotel. 

I tre giorni passati fuori casa sono vorticosi: tra alcool e tentativi di approccio di prostitute, Holden annaspa nel mondo degli adulti che si appresta a varcare, ma che rifiuta intellettualmente: non ama le convenzioni, l’ostentazione, gli amici che cambiano col tempo e che non restano fedeli a sé stessi. 

Un giorno Holden dà appuntamento a Sally Hayes, una vecchia compagna di scuola. A fine del loro incontro, Holden propone alla giovane di lasciare la metropoli e partire all’avventura insieme:

– Senti, – le ho detto. – Ho un’idea. Che ne diresti di andarcene via? (…) Dormiamo in quei campeggi di casette di legno o roba del genere finché non ci finiscono i soldi. Poi, quando ci finiscono i soldi, io mi cerco un lavoro da qualche parte e andiamo a vivere in un posto con un ruscello e via dicendo, e poi più avanti ci possiamo sposare o non so cosa. (…) Che dici? Dài! Che te ne pare? Ci vieni con me? Ti prego!

La risposta della giovane svela un’intimità smorfiosa e affettata, lontana dagli ideali del giovane Holden:

– (…) E poi ci hai pensato a cosa faresti se quando ti finiscono i soldi il lavoro non lo trovi? Moriremo di fame. È una cosa talmente campata per aria che non puoi nemmeno…

La delusione di Holden prorompe con una battuta icastica che indispettisce la giovane, fino alle lacrime.

Dài, andiamocene da qui (…) Sei una vera rottura di palle

Nei capitoli finali del romanzo si situa l’episodio che scioglie la vicenda e fornisce a Holden, in fase di formazione, una direzione da seguire che si addentra nei meandri della pedagogia umanistica: Holden trova ospitalità presso l’appartamento del suo vecchio professore di inglese, il professor Antolini. Prima di andare a dormire, Antolini snoda con abilità retorica un discorso che colpisce Holden, il quale forse prende coscienza del proprio disagio:

(…) scoprirai di non essere stato il primo a sentirsi confuso, e spaventato, e perfino disgustato dai comportamenti umani. Non sei affatto solo, in tutto questo, e scoprirlo sarà emozionante e stimolante. Tanti, tanti altri uomini hanno provato lo stesso turbamento morale e spirituale che provi tu ora. Fortunatamente, alcuni di loro hanno messo quei turbamenti per iscritto. Tu imparerai da loro…

Esiste quindi una comunità di intellettuali che ha messo per iscritto il disagio di essere nel mondo, che ha a disgusto la banalità dell’omologazione e dell’affettazione. Nonostante ciò, un individuo non è avulso dalla realtà, non può ritirarsi a isolamento volontario: esso deve imparare a vivere dalle auctoritas che hanno provato lo stesso malessere

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Modigliani: albori nella scultura

Modigliani: albori nella scultura

Modigliani: albori nella scultura

Amedeo Modigliani vive in una Parigi contraddittoria: il vorticoso intrico di viuzze cela tutti i limiti del mondo positivista.

Amedeo Modigliani dal 1906 vive in una Parigi lussureggiante e contraddittoria: il vorticoso intrico di viuzze a ridosso dei boriosi boulevards celano un mondo in cui tutti i limiti del mondo positivista, ai suoi estremi bagliori, vengono riversati nell’assenzio e nelle visiones artium. Proprio la Parigi della Belle époque, rifugio di poeti e pittori, è lo sfondo della sua vicenda esistenziale e artistica. 

Seppur risulta complicato ripercorrere la vicenda di Modigliani prescindendo dal ritratto che intende costruire una figura maledetta e tormentata, afflitta dalla tubercolosi e da tragici suicidi, la biografia del pittore e scultore livornese non differisce troppo dal destino di molti altri artisti che frequentavano la Parigi della Belle époque. 

Trasferitosi dall’Italia all’età di 22 anni, dopo aver studiato pittura e disegno prima a Firenze, poi a Venezia, il suo senso classico della forma, nutritosi dei magisteri delle auctoritas del Rinascimento italiano, non lascia spazio all’indagine del contesto sociale e urbano, escludendo qualunque tipo di denuncia sociale. Le opere di Modigliani, sia scultoree che pittoriche, invitano l’attenzione alle forme del viso, degli occhi, e ai volumi che contornano la sinuosità del corpo femminile. 

A Parigi Modigliani si era presentato, in un primo momento, più come scultore che come pittore. Presso le gallerie del Trocadero Modigliani poté ammirare e apprendere sul campo le tecniche dell’arte africana: le geometrie ripetitive, quasi ipnotiche dei manufatti e delle maschere di un continente vittima delle velleità dell’Europa imperiale affascinano il giovane artista italiano. La scultura africana, e soprattutto quella egizia, cela dietro i volumi una sacralità totemica foriera di verità sconosciute alla scultura europea a cavallo fra il XIX e il XX secolo. 

Egli iniziò a scolpire alacremente dopo che Paul Guillaume, un giovane e ambizioso mercante d’arte, si interessò al suo lavoro e lo presentò, nel 1911, a Constantin Brâncuși, scultore rumeno allievo di Rodin. Brâncuși gli insegna i rudimenti della scultura e, in aperta opposizione alla tecnica di Rodin, la quale prevede un’unione di più volumi, persegue l’obiettivo di confrontarsi direttamente alla materia, alla pietra, abbandonando la titanicità dei muscoli di Rodin. Il periodo passato presso l’atelier di Brâncuși non rappresenta una semplice parentesi artistica, ma una vera esperienza contrassegnata dallo sperimentalismo formale.

Già a partire da questo periodo di apprendistato si possono notare alcuni caratteri tipici della tecnica di Modigliani, quali l’allungamento del collo e la stilizzazione delle forme, senza dimenticare un’attenzione importante ai lineamenti del viso

Nel disegno a matita blu su carta Modigliani ritrae una cariatide, una figura femminile che sostiene il frontone di un tempio greco: la stilizzazione che apporta Modigliani a questa forma classica sottende l’intento di far scaturire una bellezza immanente, forse universale, attraverso la purezza dei volumi e delle linee. Modigliani sembra concepire, da quello che possiamo dedurre dai suoi disegni preparatori, un insieme di statue e cariatidi al fine di creare un tempio immaginario della bellezza universale, il quale troverebbe le sue radici nel classicismo antico e nell’ideale italiano di “bella figura” rinascimentale. 

Dopo qualche anno di ricerca e la produzione di circa 25 sculture in pietra, Modigliani abbandona misteriosamente la scultura: forse a causa di problemi legati alla sua salute, forse semplicemente perché essa non era più all’altezza della sua ricerca immanente. La tubercolosi, che si aggrava a causa del taglio della pietra, e altre ragioni non del tutto evidenti, lo obbligano a tornare alla pittura. Tuttavia sarebbe erroneo pensare che la scultura abbia rappresentato una semplice parentesi nell’ambito dell’esperienza artistica di Modigliani.

In questo primo ritratto di Beatrice Hastings Modigliani sembra recuperare la terza dimensione della scultura. Il ritratto infatti è proiettato in avanti, il collo come se fosse lo zoccolo del ritratto. Inoltre, intorno alla testa, ci sono delle piccolo linee: la tela sembra allora un blocco di pietra sul quale l’artista segna dove tagliare con lo scalpello. Modigliani abbandona la scultura, ma la scultura stessa riaffiora in filigrana nella sua tecnica pittorica in questo periodo cerniera e di passaggio. 

Tutti gli elementi del suo vocabolario singolare si dispiegano già in questo primo ritratto in pittura: l’allungamento eccessivo del collo, la stilizzazione delle forme, asimmetria degli occhi (spesso senza pupille), naso che si ispira alla scultura primitiva, lo sfondo oscuro. 

Dal 1915 comincia il periodo maturo della produzione artistica di Modigliani, spostandosi fra Parigi e la Provenza, e rientrando talvolta in Italia, a Livorno. Le sue condizioni di salute peggiorano progressivamente, fino alla morte, sopraggiunta  il 24 gennaio 1920 a causa di una meningite tubercolare.

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Murakami: la debolezza dell’esistere

Murakami: la debolezza dell’esistere

Murakami: la debolezza dell’esistere

Murakami Haruki, nato il 12 gennaio 1949 e fra i massimi esponenti della letteratura contemporanea giapponese, ha saputo cogliere magistralmente le inquietudini dell’individuo contemporaneo.

Murakami Haruki, cresciuto a Kobe, si laurea presso l’università Waseda di Tokyo nel 1975. A partire dal 1986 compie una serie di viaggi in Europa, fra la Grecia e l’Italia, per poi trasferirsi negli Stati Uniti, dove rimane fino al 2001.

Le esperienze vissute e le sensazioni provate da parte di un animo sensibile e tendente all’onirico risuonano con forza nei suoi romanzi e racconti, i quali riescono magistralmente a riassumere le inquietudini di una generazione di giapponesi vissuta nel benessere galoppante del Secondo dopoguerra, un periodo ancora memore della morte causata dal lancio delle due bombe su Hiroshima e Nagasaki.

Murakami, più volte in lizza per il Premio Nobel, ha saputo incarnare l’inquietudine dell’individuo contemporaneo: pur essendo tale inquietudine informe, di difficile inquadramento, un po’ come l’ingombrante chora platonica, essa aleggia sui personaggi dei romanzi, condizionandone le azioni nella costante ricerca di qualcosa che appare indefinito, labile come il ricordo, caduco come un autunno precoce. I personaggi delle opere di Murakami sono intimamente consapevoli che il mondo va come deve andare, e che difficilmente tale corso possa essere interrotto o anche solamente sviato.

In La fine del mondo e il paese delle meraviglie, edito nel 1985 e tradotto solo nel 2002 in italiano, un misterioso colonnello, abitante di una città immaginaria e metafora dell’interiorità umana, si fa portavoce dell’ineluttabilità del reale:

Se proprio vogliamo, è colpa di come è fatto il mondo. Però non lo si può cambiare. Come non si può invertire il corso di un fiume.

Il protagonista e voce narrante del romanzo, attratto da una ragazza che lavora nella biblioteca di questa città immaginaria e allegorica, apprende che quest’ultima, come tutti gli abitanti della città, non ha il cuore. Il cuore non è solo un organo fondamentale alle funzioni vitali di un corpo, ma “è qualcosa di più profondo, di più forte. E di più contraddittorio.”. Il cuore è il fulcro dei sentimenti, della psiche umana, dell’essenza stessa dell’individuo che non abdica alla propria naturale tendenza all’amore:

E lei dovrà imparare ogni cosa da solo. Questa è una città perfetta, mi spiego? Il che significa che ha tutto, tutto. Ma se non riuscirà ad assimilarlo in maniera adeguata, per lei sarà come non avere nulla. Il nulla perfetto. (…) Gli altri le potranno dare un certo numero di informazioni, ma quello che avrà imparato da solo se lo porterà in corpo. E la salverà. (…) interpreti il significato delle suggestioni che riceverà dalla città. Usi anche il suo cuore, finché ne ha uno.

Il cuore, sede dei sentimenti, è la cifra che rende tale un individuo: di fronte al pericolo del nulla contemporaneo (che appare, tuttavia, inevitabile), del benessere come unico senso dell’esistenza, il cuore è l’unica antitesi ponibile, pur essendo la via del cuore ostica e difficile da seguire.

Altro celebre romanzo di Murakami, Nel segno della pecora del 1982 racconta le vicende di un agente pubblicitario abbandonato dalla moglie e al quale viene affidato un compito assai bizzarro: il ritrovamento di una pecora.

Ricorrendo ad uno stile dal taglio onirico, in cui le vicende si intrecciano in un vorticoso susseguirsi che dal reale volge al surreale e viceversa, la pecora, che ha una macchia a forma di stella sulla schiena, diventa simbolo della ricerca del singolo; tale ricerca appare tuttavia nebulosa:

– Anche a me ogni tanto vien voglia di partire alla ricerca di qualcosa, – proseguì lui, – ma prima dovrei capire cos’è che vorrei trovare. Mio padre ha cercato quella pecora per tutta la vita, e ancora adesso continua a farlo. (…) Così ho finito col convincermi che la vita sia proprio questo. Una lunga ricerca.

Ecco che l’individuo, secondo Murakami, rischia di perdersi, manca una bussola che lo guidi e che indichi una direzione certa. Nella totale incertezza del reale e col rischio di un ritorno anzitempo al nulla, i tentativi di una ricerca di senso si susseguono all’insegna di una sola certezza: la debolezza umana e il poco tempo a disposizione:

– Debolezza nei confronti di cosa?

– Di tutto. È una debolezza morale, mentale…è una debolezza dell’esistenza stessa.

Risi. Mi venne spontaneo.

– Messa così, chi è che non è debole? Lo siamo tutti!

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Bernini: pensare l’arte in modo pieno

Bernini: pensare l’arte in modo pieno

Bernini: pensare l’arte in modo pieno

Il 7 dicembre del 1598 nasceva a Napoli Gian Lorenzo Bernini, campione del barocco italiano e figura di spicco della Roma papale del XVII secolo. 

Gian Lorenzo Bernini nasce a Napoli il 7 dicembre 1598 da famiglia di origini fiorentine. La sua figura di scultore e architetto poliedrico si staglia, per quasi un secolo, nella Roma barocca imprimendo il proprio inconfondibile stigma, sia nel tessuto urbano che nella tecnica scultorea, conferendo a quest’ultima uno statuto nobilitante fino ad allora inedito.

Sin dall’antichità infatti la téchne (τέχνη) scultorea visse in una posizione di subalternità rispetto alla pittura. La scultura, nella visione antica e medievale, è fortemente compromessa con la materia: che sia bronzo o marmo, il rapporto fra materiale e forma da un lato e tecnica dall’altro deve attestarsi necessariamente sull’equilibrio; in poche parole, lo scultore deve conoscere il materiale e le sue caratteristiche intrinseche poiché il soggetto da scolpire, nella maggior parte dei casi, veniva fortemente condizionato dalla materia stessa. 

Lo scultore veniva considerato come un “alto artigiano”, o un individuo che operava essenzialmente con le mani. La pittura, al contrario, permetteva una maggiore astrazione in virtù di un esercizio più attento del logos (pensiero) da parte del pittore. Lo scultore, dunque, opera con le mani, mentre il pittore col pensiero. Tale valore della pittura ha spesso relegato la scultura in secondo piano: in antica Grecia lo scultore era considerato un operaio, e non un artista tutto tondo, al contrario del pittore.

Nomi come Polignoto di Taso, Zeusi di Crotone o Apelle, risuonarono nelle pagine della Naturalis Historia di Plinio, e ancora oggi, nonostante di loro non si conosca un’opera originale, ma solo supposte riproduzioni o copie, riempiono di magnificenza l’immaginario degli appassionati di storia dell’arte e non solo.

Nel medioevo, il primo a nobilitare la scultura fu Dante: nel X canto del Purgatorio il viator Dante, accompagnato da Virgilio, mira gli esempi di umiltà che sono scolpiti nello zoccolone della parete del monte, nella I cornice del purgatorio. I personaggi intagliati nel marmo sono quelli della Vergine Maria, del re David e dell’imperatore Traiano; la magnificenza dell’intaglio e la resa dei dettagli suscitano la meraviglia di Dante, che così’ scrive:

[…] esser di marmo candido e addorno 

d’intagli sì, che non pur Policleto, 

ma la natura lì avrebbe scorno.                                       

 

L’angel che venne in terra col decreto 

de la molt’anni lagrimata pace, 

ch’aperse il ciel del suo lungo divieto,                           

 

dinanzi a noi pareva sì verace 

quivi intagliato in un atto soave, 

che non sembiava imagine che tace.

La maestranza divina che ha plasmato il marmo ha reso gli intagli nello sperone della montagna sacra così realistici che paiono veri, infinitamente migliori di quelli di Policleto, e anzi la natura stessa verrebbe sconfitta (avrebbe scorno). L’angelo Gabriele, giunto in visita a Maria, sembra vero (verace), come se stesse per pronunciare il suo saluto alla regina dell’Empireo. 

Ciò’ che Dante affibbia alle sculture del Purgatorio è il movimento che rende quasi vere le sculture; quello stesso movimento che diventerà la marca predominante di Bernini. 

Sulla scia delle movenze secentesche, la scultura di Bernini si pasce di movimento e di resa delle espressioni, dell’animo dei personaggi ritratti; il moto berniniano, a differenza della scultura rinascimentale, rincorre i movimenti della coeva pittura barocca (Caravaggio, ad esempio). Bernini anzi conforma la scultura ai canoni stupefacenti, immaginifici e teatrali del Barocco, e la sua téchne fomenta l’anima stessa del marmo.  

La resa del momento transitorio è già presente nel capolavoro dell’età giovanile di Bernini: Apollo e Dafne.

Il gruppo scultoreo, databile fra il 1622 e 1625, immortala il momento culminante della metamorfosi della naiade Dafne in albero di alloro, rincorsa da un Apollo insolente: in passi di danza fatale, la naiade prova orrore per le sporche mani della divinità che si posano colpevolmente sul suo fianco sinistro. Il braccio destro di Dafne, supplichevole, si protende nello spazio implicando anche lo spettatore nell’intensità emotiva della scena tratta dalle Metamorfosi di Ovidio. La resa teatrale dei sentimenti dei personaggi, nettamente in antitesi, si rivestono di una forte carica erotica nel tocco violento della divinità sul candido corpo di Dafne. 

Una carica erotica che si ritrova nell’altro grande capolavoro, questa volta dell’età matura, di Bernini: l’Estasi di Santa teresa d’Avila, datata fra il 1645 e il 1652.

Se l’Apollo e Dafne rappresenta un gruppo scultoreo a sé stante, l’Estasi si colloca in un contesto del tutto differente. L’istanza teatrale è altamente enfatizzata dalla collocazione del gruppo scultoreo: alla scena mistica infatti assistono alcuni personaggi a tutto tondo che si collocano ai lati della cappella in cui l’opera è custodita (cappella Cornaro, presso la chiesa di Santa Maria della Vittoria, a Roma). 

Lo stesso spettatore viene rapito dalla scena: il momento supremo dell’unione con Dio è sospeso fra spiritualità e una forte carica erotica che provoca, irrita e compiace al contempo. Bernini avrebbe seguito pedissequamente ciò che la santa ha lasciato scritto nelle sue memorie: 

Dio volle che vedessi alla mia sinistra un angelo sotto forma corporea. Non era grande, ma bellissimo. Aveva in mano un lungo dardo d’oro, dalla cui punta di ferro usciva una fiamma. Mi colpì subito il cuore fin nelle fibre più profonde e mi parve che, nel ritirarlo, ne portasse con sé dei lembi. 

La santa spagnola, avvolta in un panneggio languido e partecipativo del momento sacro, esprime uno stato di esaltazione che coinvolge lo spirito e la carne. Teresa offre il suo corpo all’angelo dal sorriso sardonico che tiene in mano la freccia dell’amor divino, pronto a penetrare il petto della santa. Una penetrazione ambivalente, dolorosa e carica di tensione, come quella di Tancredi su Clorinda nel poema tassiano. La luce, che scende teatralmente dall’alto, dona l’idea di un moto verso l’alto, preludio dell’ascesa della santa al cielo. 

Bernini, formatosi nell’ambiente manierista fiorentino, diventa il simbolo di una scultura in movimento, di una materia (soprattutto il marmo) che, libera dalle sue costrizioni intrinseche si fa duttile e plasmabile come la pittura, suscettibile di spettacolarizzazione e provocazione. Non i pennelli, ma gli scalpelli si fanno leggeri e incisivi al contempo nell’arte di Bernini: il logos rivive nelle sue opere. 

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

René Magritte: l’arte non copia la natura

René Magritte: l’arte non copia la natura

René Magritte: l’arte non copia la natura

René Magritte, esponente del movimento surrealista, nasce a Lessines, in Belgio, il 21 novembre 1898; conobbe una grande fortuna nella seconda metà del XX secolo, soprattutto in campo grafico e pubblicitario.

René Magritte fu un insigne esponente del movimento surrealista europeo.

L’esperienza surrealista trae la propria necessità dall’interpretazione fenomenica del primo Novecento: il locus horribilis fra le due guerre sfugge ad ogni esegesi positivista; un positivismo quasi del tutto esaurito alle soglie degli anni Venti, spazzato via con virulenza, dopo che la guerra di trincea abbatté ogni certezza dell’uso della ragione.

Nel 1924 André Breton, poeta, romanziere e teorico venuto a conoscenza della teoria psicoanalitica di Freud, firma e pubblica il Manifesto del Surrealismo, nel quale si legge:

“Surrealismo, sostantivo maschile. Puro automatismo psichico attraverso cui si intende esprimere verbalmente, con la scrittura o attraverso qualsiasi altro metodo, il vero funzionamento della mente. È il dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica o morale. (…) Il Surrealismo è basato (…) nell’onnipotenza del sogno, nel gioco incontrollato del pensiero.”

Il cuore, dunque, del movimento surrealista risiede nella negazione del primato della ragione dogmatica, di una ragione che intende chiarificare e giustificare il reale. Di conseguenza, ogni aspetto dell’irrazionale, dell’illogico, dall’automatismo al gioco, dal caso all’assurdo, vengono assunti ad aspetti cardini dell’esistenza e dell’espressione.

Il movimento surrealista rintraccia nelle figure di Rimbaud e di De Sade, in letteratura, e di Bosch, Arcimboldo e Füssli, in campo strettamente artistico, i precursori e anticipatori, e annovera fra le proprie fila una schiera eterogenea di teorici e artisti, fra i quali Max Ernst, Salvador Dalì, Joan Mirò, Louis Aragon, Raymond Queneau; nonché René Magritte.

René Magritte è con ogni probabilità il surrealista che ha avuto un maggior successo di pubblico. Tranne un breve periodo di permanenza a Parigi, fra il 1927 e il 1930, durante il quale ebbe la possibilità di fraternizzare e litigare con André Breton, Magritte passò la maggior parte della sua vita a Bruxelles, ben adattandosi ad uno stile di vita borghese.

I vari manuali di storia dell’arte non mancano di segnalare il suicidio della madre come esperienza capitale della sua esistenza: quando Magritte aveva quattordici anni la madre si suicidò e venne trovata annegata nelle acque del fiume Sambre, un affluente della Mosa, con una camicia da notte avvolta al viso. E a ben vedere, nelle opere di Magritte ritornano con insistenza alcune figure femminili non solo associate all’acqua, ma anche avvolte da panni, come ne Les amants (Gli amanti, 1928) e L’histoire centrale (La storia centrale, 1928).

Si formò principalmente in Belgio, dove poté sviluppare un certo piacere nell’associare l’umorismo al macabro. Le sue opere, che ebbero particolare risonanza nel Secondo dopoguerra, sono testimoni della contrapposizione fra consueto e assurdo, spesso a vantaggio di quest’ultimo, del trionfo della dimensione onirica che perturba e capovolge, dello stupefacente che deride il reale borghese.

Tuttavia, il contributo, forse, più importante di Magritte resta la serie di opere nelle quali si legge Ceci n’est pas une pipe, la prima delle quali è stata intitolata L’uso della parola I.

Se Ferdinand De Saussure scrisse che il legame fra un significato, e cioè l’oggetto designato, e un significante, ossia l’elemento formale del significato, sono legati da un rapporto del tutto arbitrario, Magritte pare voglia esasperare, se non dissolvere l’arbitrarietà e negare il legame tra pensiero, parola e rappresentazione.

Se si pensa, ad esempio, a una farfalla, saremo portati a rintracciarla nella realtà in qualità di insetto con due ali relativamente fragili e colorate. E allo stesso modo, qualora si volesse rappresentarla, ci si sforzerebbe di riprodurne la forma alla quale i nostri sensi sono avvezzi. Sarebbe difficile scambiare una farfalla per un’ape.

Eppure Magritte non è d’accordo: in L’uso della parola I sotto ad una elementare pipa vi è la scritta Ceci n’est pas une pipe (questa non è una pipa). Secondo l’artista belga l’arte pura non ha nulla a che fare con la realtà, ma con il pensiero. Se io disegno una pipa, non è scontato che il mio pensiero abbia proprio inteso ciò che comunemente viene accettato come pipa. La pipa, quella che si utilizza quotidianamente, è una cosa; la pipa che il pensiero intende e che l’arte rappresenta è un’altra. L’uso della parola I prende di mira una convenzione accettata universalmente: l’arte ha valore nella misura in cui rappresenta o si ispira al reale. Non importa se i muscoli di un Eracle saranno esagerati e disumani: si riconosce sempre la forma umana.

Magritte rigetta questa convinzione, affermando che l’arte non copia la natura o il reale, né tantomeno ricerca tale imitazione: l’arte è un codice, usa un linguaggio convenzionale, come la scrittura; e come tale, rivendica una sua autonomia dal reale e dal quotidiano. La pipa rappresentata, quindi, non afferisce al reale, ma è un prodotto del pensiero.

La radicale mancanza di legame tra pensiero, parola e rappresentazione strappa un sorriso se si pensa alla polisemia della parola “pipe”, che in francese non traduce solo “pipa”, ma anche “tubatura” (tuyau), nonché una variante gergale e dimessa di fellatio.

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.