I protagonisti dei meme più virali: storia e destino

I protagonisti dei meme più virali: storia e destino

I protagonisti dei meme più virali: storia e destino

I meme sono oramai parte integrante del quotidiano. La straordinarietà del meme risiede nella semplicità e immediatezza di fruizione da parte di un pubblico sempre più connesso. Ecco alcune curiosità sui protagonisti dei meme più virali del web, e come appaiono oggigiorno.

Il mondo del web è dominato da contenuti virali che in un lampo si propagano a colpi di condivisioni sia sulle pagine social sia nelle proprie storie. Fra questi i meme, indubbiamente, hanno monopolizzato l’attenzione degli utenti di tutte le età. Come è noto, il meme ironizza solitamente su fatti culturali e comportamenti replicabili e imitabili di una società o gruppo. 

Il meme ha a tal punto impregnato il quotidiano che è possibile ritrovarlo anche in ambiti meno prevedibili rispetto alla sua normale fruibilità. Basti pensare alla professoressa d’italiano Simona Bitassi, la quale crea meme virali che veicolano ironia e umorismo su tematiche che toccano da vicino il mondo della scuola e la didattica. 

Spesso i meme del web nascono fortuitamente: da un’innocente foto condivisa dopo una vacanza ad un disegno appena abbozzato, gli utenti di internet, perlomeno i più geniali, trasformano tali contenuti apparentemente anonimi in fenomeni di massa. I protagonisti di alcuni fra i meme più virali degli ultimi anni assistono in tal caso ad un cambiamento radicale della propria vita, a tal punto che alcuni preferiscono mantenere il riserbo circa la propria identità.

I meme più celebri del web

First world problem:

tale meme ha come protagonista una donna dai capelli castani visibilmente affranta. Vi si ricorre per ironizzare su alcuni problemi snob e e tipici del mondo altolocato, come ad esempio “La mia casa è troppo grande, non arriva il wi-fi in tutte le stanze”, oppure “Sono stato a cena fuori, non ho scattato nemmeno una foto”. Ebbene, la protagonista di questo meme è un’attrice italiana che risiede a Los Angeles, Silvia Bottini, la quale, intervistata dal Corriere della Sera, non si ricorda bene quando il suo volto è diventato un meme. 

Distracted boy: 

nasce da una foto scattata da Antonio Guillem e disponibile inizialmente su licenza su Shutterstock, il portale per le foto stock. I due protagonisti sono Mario e Laura (nomi fittizi per tutelarne l’identità), due modelli che risiedono a Barcellona e che hanno collaborato col fotografo spagnolo per molto tempo. La foto venne condivisa per la prima volta nel 2017 su Instagram accompagnata dal testo “Tagga quel tuo amico che si innamora una volta al mese”, ma il primo vero e proprio meme di Distracted Boyfriend non ebbe molto successo. Lo scatto è diventato virale circa 6 mesi dopo, quando un utente su Twitter ha recuperato l’immagine utilizzandola per ironizzare sui millennials e la loro affinità per il socialismo. Da allora il meme è stato condiviso innumerevoli volte e, proprio per la semplicità dello schema io, lei e l’altra, adattato alle più svariate situazioni semplicemente sostituendo il testo. 

Roll Safe: 

deriva da un mockumentary, ossia un documentario parodico, che Kayode Ewumi aveva girato poco dopo essersi diplomato, nel 2015. Kayode aveva chiesto ad un suo amico di filmarlo sempre quando erano insieme: in un fotogramma Kayode pone il dito indice sulla nuca, nell’iconico gesto che lo ha reso virale. Kayode oggi è un attore, e lavora anche come produttore per la BBC. 

Chloe che guarda di lato:

nel settembre 2013 lo YouTuber KAftC ha caricato un video intitolato Lily’s Disneyland Surprise… Again, nel quale vi sono due sorelle, Lily e Chloe, che reagiscono alla notizia di un viaggio a sorpresa a Disneyland. Da un lato la sorella maggiore, Lily, scoppia in lacrime di gioia, dall’altro la più piccola, Chloe, guarda per un istante di sbieco la telecamera; tale sguardo è conosciuto come “Chloe che guarda di lato”.

In questi anni la ragazzina del meme ha creato un canale YouTube con la sorella, dal nome “Lily & Chloe“, che conta più di 259.000 iscritti. 

Disaster girl:

la fotografia della ragazza e della casa in fiamme è stata scattata da Dave Roth nel gennaio 2004: la casa in fiamme sullo sfondo non è altro che un addestramento dal vivo dei vigili del fuoco a due isolati da casa sua a Mebane, nella Carolina del Nord. Mentre osservava il fuoco, Dave sorprese la figlia, Zoe, mentre sorrideva diabolicamente davanti all’esercitazione. La popolarità del meme ha aiutato Zoe a pagarsi gli studi all’università: e infatti, Zoe ora è una studentessa e sul suo account Instagram pubblica foto con amici di panorami, nonché delle sue attività di volontariato. 

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Torquato Tasso: l’arte come argine della follia

Torquato Tasso: l’arte come argine della follia

Torquato Tasso: l’arte come argine della follia

Torquato Tasso nasce a Sorrento l’11 marzo 1544. La ricerca di uno stile meraviglioso e la necessità di esprimersi hanno caratterizzato la vita di questo straordinario poeta, animato da un profondo tumulto spirituale e dal costante bisogno di approvazione.

La vicenda biografica di Torquato Tasso, nato a Sorrento da padre bergamasco e madre toscana l’11 marzo 1544, è segnata, come noto, da alcuni eventi che, scadendo spesso nel mito, hanno fomentato (se non esasperato), la sua fama di folle e lunatico, nonché di maniacale revisore del suo poema dalle tinte ombrose, emblema di un Rinascimento splendente destinato oramai al tramonto. 

La Gerusalemme Liberata, la cui stesura impegna Torquato Tasso dalla tenera età di quindici anni (un primo stralcio del futuro poema eroico è intitolato Gerusalemme, 1559) e giunge ad un primo compimento durante il felice periodo ferrarese (entro il 1575 circa), gioca sull’opposizione fra bene e male, incarnati rispettivamente dalle forze cristiane e quelle pagane. 

La scelta di stendere un poema epico che abbia come argomento le vicende della prima crociata, conclusa come noto con la conquista della città di Gerusalemme nel 1099, è il frutto di un profondo lavorio teorico circa la materia da trattare in poesia: le riflessioni del Tasso sono raccolte nei Discorsi sull’arte poetica. Scrive infatti il Tasso:

La materia, che argomento può ancora comodamente chiamarsi, o si finge, ed allora par che il poeta abbia parte non solo ne la scelta, ma ne la invenzione ancora; o si toglie da l’istorie. Ma molto meglio è, a mio giudicio, che da l’istoria si prenda; perché dovendo l’epico cercare in ogni parte il verisimile (presupongo questo, come principio notissimo), non è verisimile ch’una azione illustre, quali sono quelle del poema eroico, non sia stata scritta, e passata a la memoria de’ posteri con l’aiuto d’alcuna istoria.

L’argomento può essere completamente inventato oppure tratto dalla storia. Dovendo cimentarsi con un poema epico ed eroico, scrive Tasso, sarebbe opportuno tirare l’argomento dai fatti passati e realmente accaduti in quanto degni di nota, nonché di essere rimaneggiati. 

Se la storia è maestra di vita, come afferma Cicerone nel De Oratore, è anche vero che il poeta, in qualità di specialista della parola, ha la licenza di operare alcune migliorie sul piano formale e retorico al fine di risultare più efficace, senza tuttavia cambiare il significato universale del fatto in sé:

Poco dilettevole è veramente quel poema, che non ha seco quelle maraviglie, che tanto muovono non solo l’animo de gl’ignoranti, ma de’ giudiziosi ancora […] deve il giudizioso scrittore condire il suo poema; perché con esse invita ed alletta il gusto de gli uomini vulgari, non solo senza fastidio, ma con sodisfazione ancora de’ piú intendenti.

In poche parole, la materia del poema epico e eroico deve necessariamente essere storica (avere un riscontro nei fatti passati) e verosimile (materia tratta dal passato ma soggetta a licenze di natura poetica in virtù dell’inventio del poeta). La verosimiglianza del poema non può rinunciare alla bella forma e al gentile ornamento che invita alla lettura, alla variatio delle situazioni e personaggi che inducono i lettori stessi alla catarsi estetica (per dirla alla Croce). 

La complessa personalità di Torquato Tasso si manifesta già alla fine del felice periodo ferrarese: non solo aggredì con un coltello un servo della corte estense da cui si sentiva spiato, ma dopo un periodo di confinamento presso il convento di San Francesco di Ferrara, peregrinò per la penisola, per poi ritornare nella città estense dove, in occasione del matrimonio fra il duca Alfonso d’Este e Margherita Gonzaga, venne arrestato e incarcerato nell’ospedale di Sant’Anna a causa di un eccesso d’ira. 

Tale personalità di difficile inquadramento, tale squilibrio incline ad una follia scalpitante viene magistralmente riassunto da una ottava della Gerusalemme Liberata:

Or mentre in guisa tal fera tenzone

è tra ’l Fedele esercito e ’l Pagano,

salse in cima alla torre ad un balcone

e mirò, benché lunge, il fier Soldano,

mirò, quasi in teatro, od in agone,

l’aspra tragedia dello stato umano:

i vari assalti e ’l fero orror di morte,

e i gran giochi del caso e della sorte.

Nell’ottava 73 del ventesimo canto del poema tassiano Solimano, il valoroso sultano di Nicea che muore per mano di Rinaldo, dall’alto di una torre di Gerusalemme ammira l’atroce scontro fra i cristiani e gli infedeli: l’amarissima constatazione de “l’aspra tragedia dello stato umano” ben esemplifica la fragilità di un destino individuale appeso ad un filo sottilissimo: vista dall’alto, tutta l’umanità, sia cristiani che pagani, sembra insensatamente violenta, destinata ad una fine tragica. 

Ma Tasso stesso visse una vita all’insegna della tragedia: dopo la scarcerazione, cominciò un ennesimo periodo di peregrinazioni nervose per tutta Italia, assillato dalla revisione del suo poema e dalla ricerca dell’unità di azione, dello stile magnifico e adatto ad un poema eroico. Abbattuto dalla pubblicazione del suo poema senza la sua autorizzazione durante la sua incarcerazione, durata ben sette anni, Tasso, nonostante la grande notorietà acquisita grazie alla Gerusalemme Liberata, si sentiva incompreso sia dagli umanisti che dai signori italiani. 

Il riferimento alla tragedia nell’ottava 73 sottende un chiaro bisogno di essere ascoltato: è un verso riassuntivo che rimarca la necessità di pubblico da parte di Tasso e l’intento di mostrare e cantare la tragicità della condizione umana; quella stessa tragicità che ha caratterizzato la sua biografia, all’insegna di un profondo tumulto spirituale e interiore. 

La ricerca dello stile magnifico, adatto al poema eroico, è ricerca dell’arte, della perfezione del ritmo poetico e del tessuto sonoro: con buona pace della fanbase ariostesca, Tasso non solo ha raggiunto altissimi livelli di compenetrazione fra suono e ritmo, fra poesia e immagine, ma l’arte poetica stessa diventa al contempo espressione e argine, medicina della follia tragica che caratterizza la sua esistenza. Si veda ad esempio l’ottava 19 del canto settimo:

Sovente, allor che su gli estivi ardori

giacean le pecorelle all’ombra assise,

nella scorza de’ faggi e degli allori

segnò l’amato nome in mille guise,

e de’ suoi strani ed infelici amori

gli aspri successi in mille piante incise,

e in rileggendo poi le proprie note

rigò di belle lagrime le gote.

La celebre vicenda di Erminia, principessa di Antiochia e prigioniera in un primo momento del valoroso Tancredi, la quale ricerca lievità presso i pastori dalle sue pene amorose, ha ampiamente colpito l’immaginario dei lettori e artisti: l’amato nome di Tancredi che viene inciso sulle cortecce è un iniquo compenso per un amore che non troverà mai soddisfazione, un modo per perpetuare il ricordo del valoroso cavaliere cristiano. Il culmine patetico raggiunto in questa ottava è il perno della messa in scena della tragedia umana di Erminia, inseguita dall’amato non per amore, e archetipo ideale della tragedia di una passione non ricambiata. 

Torquato Tasso muore poco prima di essere incoronato poeta, nell’aprile del 1595, e viene sepolto presso il convento di Sant’Onofrio sul Gianicolo, a Roma. Per molto tempo la sua tomba giacque senza una lapide che la rendesse riconoscibile: grazie alle lagnanze di alcuni letterati, fra i quali Giovan Battista Marino, solo in seguito si procedette alla costruzione di un monumento funebre al celebre cantore della Liberata, strenuo testimone del tramonto di un’epoca.  

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Leon Battista Alberti: la prima grammatica della lingua italiana

Leon Battista Alberti: la prima grammatica della lingua italiana

Leon Battista Alberti: la prima grammatica della lingua italiana

Leon Battista Alberti, grande umanista che scrive sia in latino sia in volgare, opera in un’epoca di grande fermento culturale che investì dapprima la penisola, in seguito tutta l’Europa; è autore di un primo abbozzo della grammatica della lingua italiana, detta “grammatichetta”.

L’Umanesimo volgare, inaugurato nel secondo Quattrocento da Leon Battista Alberti, rientra nel più vasto movimento culturale che, dalla fine del Trecento e fino agli albori del Cinquecento, sarà propedeutico agli splendori del Rinascimento.  Eppure il magnifico Umanesimo, derubricato nei manuali scolastici (e talvolta universitari) a epoca monda e luminosa, senza incrinature, presenta alcune criticità che Antonio Gramsci non manca di sottolineare cinque secoli più tardi: perché la cultura italiana e umanista, oggi come allora, appare lontana dagli interessi della “nazione”, avulsa da un rinnovamento profondo del senso del sapere e dell’educazione: cosa può la semplice intelligenza di fronte all’emergenza della contingenza?  Senza addentrarci in un terreno scivoloso nel quale si rischia di impantanarsi in sterili polemiche, Leon Battista Alberti, archetipo ideale dell’umanista dedito allo studio e alla cultura dei classici antichi, riesce a dare nuovo corso ad una cultura letteraria che in larga misura giudicava la lingua volgare frutto dell’infrazione grammaticale del latino
Leon Battista Alberti nasce a Genova: il padre, neanche a dirlo, è un esule fiorentino, nonché banchiere; la madre, una nobile genovese. Si forma presso le università di Padova e di Bologna, occupandosi principalmente di giurisprudenza, ma senza trascurare i suoi interessi in campo letterario e architettonico.  Forse a causa di problemi legati all’eredità paterna che i suoi parenti gli negavano, Alberti nel 1431 intraprende la carriera ecclesiastica: è segretario del patriarca di Grado; l’anno successivo giunge a Roma presso la corte di papa Eugenio IV in qualità di abbreviatore papale (ossia, in qualità di funzionario il cui incarico consisteva nel redigere la bozza delle temutissime bolle papali).  Alberti rivestì l’incarico per ben 34 anni, vivendo a Roma, ma viaggiando in numerose città europee e italiane (Rimini, Firenze, Mantova), nelle quali realizzò importanti progetti di architettura Nel 1452 Alberti pubblica il De re Aedificatoria: questo trattato cardine nell’ambito dello studio architettonico quattrocentesco pone le regole della progettazione di edifici i quali, in ottemperanza agli ideali di armonia e grazia, sono pensati in relazione allo spazio e alla funzione. Tali edifici, sotto il profilo stilistico, esibiscono un ampio repertorio classico, derivando dall’architettura romana, ad esempio, la monumentalità spaziale, le colonne, le volte, nonché le ampie cupole. Ma ancor più importante, nel De re aedificatoria Alberti pone le basi di una nuova concezione dell’architettura, intesa non più come attività legata essenzialmente al cantiere, ma come attività pienamente intellettuale: l’architetto è, secondo Alberti, a tutti gli effetti un intellettuale le cui capacità si sintetizzano in progettazione, competenze estetiche ed etiche. 
Come già accennato, gli sforzi dell’Alberti si profusero anche in campo letterario e linguistico. A ben vedere il poliedrico umanista, a differenza di gran parte dei suoi contemporanei, era convinto che il volgare italiano fosse oramai maturo per affrontare argomenti seri e importanti non solo in poesia, ma anche in prosa scientifica e nei trattati.  Si attribuisce all’Alberti, intorno al 1440, la stesura della prima grammatica dell’italiano: essa ci viene trasmessa da un codice conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana di Roma. Questa precocissima grammatica dell’italiano, che tratta del fiorentino nell’uso vivo al tempo dell’Alberti, è nota col nome di grammatichetta in relazione proprio alle piccole dimensioni dell’opera, la quale conta sedici carte in tutto.  Nonostante l’umiltà di queste carte, è importante sottolineare che con la stesura di una grammatica dell’italiano (l’unica grammatica di una lingua romanza redatta prima di quella dell’Alberti è il Donatz proensals di Uc Faidit, per la lingua poetica dei trovatori), l’Alberti intendeva inserirsi nel dibattito umanistico circa la nascita e la dignità del volgare, dimostrando che anche il volgare aveva, come il latino, delle regole grammaticali.  La grammatichetta, pur precoce, non ebbe seguito: non circolò e non fu data alle stampe. Bisognerà aspettare la prima metà del Cinquecento per delle grammatiche della lingua italiana di ampia diffusione, come quelle di Bembo e Fortunio. Ciò non va a detrimento, tuttavia, del grande contributo fornito da una mente geniale, curiosa, e caratterizzante un’epoca, il cui lascito spazia dall’arte alla letteratura. 

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Matteo Saudino a Filosofarti 2022: l’eredità della scuola di Mileto

Matteo Saudino a Filosofarti 2022: l’eredità della scuola di Mileto

Matteo Saudino a Filosofarti 2022: l’eredità della scuola di Mileto

In data 23 febbraio 2022, nell’ambito di Filosofarti, il festival di filosofia della provincia di Varese, Matteo Saudino si è soffermato su alcune caratteristiche fondamentali della scuola di Mileto, pioniera del pensiero filosofico occidentale, e sull’eredità che questa può trasmette all’individuo contemporaneo.

Ancora una volta Matteo Saudino, professore di filosofia e divulgatore, con  chiarezza e disarmante passione divulgativa, riesce a offrire notevoli spunti di riflessione su questioni contemporanee. 

In un tempo in cui il nichilismo si fa faro dell’odierna civiltà pensante, nonché ripiegamento necessario alla luce dei fatti bellici che forzano l’Europa occidentale a uscire dalla sua fase post storica, l’indagine che si rivolge agli albori della filosofia occidentale potrebbe offrire nuova linfa al fine di porre nuove fondamenta per l’essere umano di domani. 

La storia del pensiero occidentale riconosce nella scuola di Mileto, senza negare il contributo del pensiero orientale,  la pietra angolare e incipit del pensiero atto all’indagine fisica e metafisica. 

Perché proprio Mileto, polis greca dell’Asia Minore (attuale Turchia), assiste alla nascita di tale cenacolo intellettuale? Come sottolinea il prof. Saudino, Mileto, nel panorama ellenico, era una città relativamente libera, i cui abitanti erano mossi dallo spirito di curiosità e dal pionierismo che li porterà ben presto ad un incontro/scontro con l’ascendente Impero persiano. 

La lettura della scuola di Mileto è antidoto alla frammentarietà dell’anima dell’individuo contemporaneo. I suoi tre principali esponenti, e cioè Talete e Anassimene, nonché lo straordinario Anassimandro, pongono le fondamenta per un’indagine guidata dalla curiosità e dalla meraviglia

La curiosità è voglia di scoperta che non contempla fini carrieristici e pratici, che guida uno spirito libero all’uso del logos nell’indagine fenomenica. A tal proposito emblematico è l’esempio di Talete il quale, secondo la tradizione, misurò l’altezza della piramide di Cheope e previde un’eclissi osservando i movimenti del sole e della luna. La filosofia che nasce a Mileto è una disciplina affrancata dalla praticità, fine a sé stessa e anarchica, la quale rende veramente liberi proprio per la sua inservibilità. 

Tale è la portata dell’esempio di Talete: in una società in cui fare senza perseguire un fine è un lusso, in cui persino la scuola si avvelena di istanze imprenditoriali atte a formare più lo spirito pratico che critico, la scuola di Mileto è foriera di libertà spirituale e intellettuale. Essere curioso, ribadisce il prof. Saudino, è un diritto, come lo è  l’indagine scevra di fine pratico. 

La curiosità ha il segno indelebile della polemica. Essa non è misera e sterile scena televisiva come quella alla quale si assiste ultimamente tra virologi supponenti e no-vax irriducibili. La polemica che nasce a Mileto è quella che abitua alla complessità del reale, è fertilizzante che fomenta la maturazione. La nostra contemporaneità è caratterizzata dalla mancanza di polemica, sia a livello politico che scientifico. Quanti sono i biologi, virologi che, in questi ultimi anni di pandemia, hanno assunto una postura paternalistica e anti divulgativa, che abituasse la popolazione ad una scienza del dubbio, aperta e accessibile, che cambia al cambiare del virus? Quanti politici sono digiuni di scienza, quasi avulsi dal reale? 

La polemica, infatti, implica che il sapere sia orizzontale e verticale e non calato dall’alto. A differenza della scuola di Pitagora, gerarchica e piramidale, nell’ambito della quale solo in presenza della rivelazione si era in grado di dispensare sapere, quella di Mileto è orizzontale, abituata all’esercizio collettivo del logos. A Mileto non era lesa maestà essere in disaccordo con un sapiente, sottolinea il prof. Saudino. 

Infine, l’ultimo e fondamentale carattere messo in evidenza della scuola di Mileto è il coraggio che porta all’anticonformismo. Essere anticonformista non significa livellarsi sul banalismo odierno. Si tratta invero di un atto profondo e audace, figlio del logos spregiudicato che osa andare contro l’ordine sapienziale costituito.

Un esempio di tale audacia è rappresentato dal celebre Anassimandro, padre dell’apeiron (infinito). A tal proposito il prof. Saudino afferma:

Coricarsi con al proprio fianco l’infinito può dare inquietudine; meglio coricarsi con la finitudine. 

Come può l’uomo, finito e caduco, proiettarsi sull’infinito? Anassimandro incarna proprio l’inquietudine tutta umana del senza-limite: l’infinito è l’archè che governa il mondo, la causa della natura. L’infinito causa vertigine: pensare a infiniti mondi nello spazio e nel tempo abitua il logos a scardinare dalle fondamenta gli assetti del finito comunemente accettati. Ecco l’audacia del pensiero e l’anticonformismo che si dovrebbe riscoprire e imparare, quell’audacia che scrolla l’essere umano dall’intorpidimento del totale ripiegamento in sé stessi, dal nichilismo, che ispira l’azione del logos, edificazione morale.  

L’anticonformismo di Anassimandro, aggiunge il prof. Saudino,  lo spinge ad affermare che ciò che accade è secondo ananke (necessità) e dike (giustizia), i quali guidano il divenire del mondo. Quante volte abbiamo incolpato soggetti terzi di ciò che accade? L’ananke e la dike smentiscono la colpa, poiché ciò che si verifica è giusto: la natura di per sé non conosce errore o ingiustizia.

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

La parola ingannatrice in Dostoevskij e Gorgia

La parola ingannatrice in Dostoevskij e Gorgia

La parola ingannatrice in Dostoevskij e Gorgia

Dostoevskij, fra i massimi autori russi, fa propria l’estetica della parola di Gorgia, il celebre sofista di Lentini: adulazione e inganno, insiti nella parola, sono scevri di qualunque connotazione morale, e la parola stessa è libera di ammaliare l’ascoltatore, pur peccando di falsità.

L’atto di seduzione implica in senso proprio un “tirare da parte, condurre verso di sé”. Il fascino di un frangente o di una persona diventa un potente narcotico che attraverso il mezzo dell’adulazione incatena il buon senso, subordinato alle ragioni del corpo o dello spirito. La lode oltre misura, esagerata, quasi veemente dell’adulazione è dettata dall’istinto di compiacenza, nonché da un vivo interesse i cui scopi non sempre sono chiari. 

Ne sa qualcosa la povera Elena di Sparta:  secondo Gorgia, filosofo del V secolo nativo di Lentini, in Sicilia, la regina e figlia di Leda non avrebbe colpe se accettò di seguire il giovane Paride a Troia e gettare le basi di una guerra che sarebbe durata dieci anni. 

Il rapimento della bella Elena sarebbe giustificato da ben tre motivi: dalla forza, per amore o per la seduzione della parola. Nel primo caso, afferma Gorgia, bisognerebbe biasimare Paride, colui che opera una violenza sul più debole, in questo caso la regina di Sparta; se invece la giovane regina fosse innamorata del principe troiano, non bisognerebbe biasimarla perché gli uomini non hanno potestà sui fatti di amore, che competono invece, come l’odio, agli dei. 

Nel caso della seduzione attraverso la parola, Gorgia scrive:

(…) la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà.

Gorgia concepisce la parola come una struttura recepita dal nostro sistema sensibile e formata da una parte materiale e corporale (quando parla di corpo piccolissimo e invisibilissimo) e da una parte immateriale, cioè il suo significato. 

La ricezione di una parola può essere pervertita in quanto soggetta a certe modificazioni che sono ottenute attraverso l’arte della parola (la poesia e la retorica), costruendo una nuova realtà referenziale. Queste nuove realtà, plasmate dall’arte poetica e dalla retorica, sono delle manipolazioni che non hanno nulla a che vedere con la realtà del significato veicolato dalla parola, e che quindi non corrispondono al reale. La parola poetica e quella retorica, interventi dell’arte sul reale che si percepisce, rappresentano un inganno.  Per di più:

(…) gli ispirati incantesimi di parole sono apportatori di gioia, liberatori di pena. Aggiungendosi infatti, alla disposizione dell’anima, la potenza dell’incanto, questa la blandisce e persuade e trascina col suo fascino. Di fascinazione e magia si sono create due arti, consistenti in errori dell’animo e in inganni della mente. E quanti, a quanti, quante cose fecero e fanno credere, foggiando un finto discorso!

Se Elena di Sparta cedette al principe troiano, non fu colpa sua. Il bel parlare e l’ornato verbale del discorso (finto) ben strutturato induce in inganno un uditore dall’animo ben disposto. Secondo Gorgia la parola poetica non si differenzierebbe troppo da un farmaco: gli effetti che quest’ultimo sortisce sul corpo, dal sollievo al dolore, sarebbero gli stessi di un discorso d’arte. 

La sensibilità estetica del filosofo di Lentini è presente in uno dei più importanti autori russi dell’ottocento: Dostoevskij

Nelle tormentate pagine di Delitto e Castigo, apparso a puntate su una rivista nel 1866, l’incanto della parola diventa il mezzo del misterioso personaggio di Svidrigàjlov

Come noto, le vicende di Delitto e Castigo si svolgono in una Pietroburgo infernale, cinica testimone dei drammi umani, polverosa e meravigliosa al contempo, severa matrigna dei destini dei suoi abitanti. 

Il duplice omicidio perpetrato dal protagonista Raskòlnikov ai danni di una vecchia usuraia e, accidentalmente, di sua sorella rappresenta l’episodio chiave del romanzo attorno al quale si snoda l’ordito. La penetrazione psicologica, le accurate descrizioni, quasi maniacali nell’accentuazione dei minimi particolari, lo sguardo penetrante di un io narrante che assume una posizione titanica sui suoi personaggi e sugli eventi, sono alcuni tratti salienti che hanno concorso alla fortuna del romanzo.

I personaggi, fortemente caratterizzati, assommano diverse tendenze contrastive che pongono in luce la distruzione dell’io sotto il peso di teorie morali difficilmente applicabili nella vita di tutti i giorni. Se il superonomismo di Raskòlnikov, perfetto nella sua logica teorica, si autodistrugge nella pratica portando il protagonista ad autodenunciarsi e a scontare la sua pena in un gulag siberiano, la morale del “tutto è permesso” di Svidrigàjlov si cala in una depravazione cinica dedita alla concupiscenza che spingerà il personaggio al suicidio. 

Nel celebre dialogo fra i due, nelle pagine finali del romanzo, Svidrigàjlov, già sposato, confessa a Raskòlnikov la sua passione per la sorella del protagonista, Avdotja Romànovna. L’atto di seduzione della giovane passa attraverso la finzione (“recitai la mia parte abbastanza bene”) di cui l’adulazione è il mezzo principale:

Nulla al mondo è più difficile della franchezza e nulla è più facile dell’adulazione. Se nella franchezza la centesima parte di una nota è stonata, ne deriva subito una dissonanza, e dopo di essa… uno scandalo. L’adulazione invece, anche se tutte le note sono stonate, è sempre gradevole e la si ascolta con piacere: sarà un piacere volgare, ma nondimeno è un piacere. (…) E, per quanto grossolana sia la lusinga, almeno una metà di essa somiglia alla più pura verità.  

L’adulazione ben costruita aiuta a perpetrare l’inganno. La verità, in questo caso indicibile perché consiste in un adulterio, moralmente condannato dalla comunità, è celata dietro i dolci fronzoli della parola ingannevole. Il potente valore mellifluo della parola, come dice lo stesso Svidrigàjlov, potrebbe sedurre anche una vestale, vergine guardiana del fuoco di Vesta, e corrompe anche persone avvedute, appartenenti a tutte le classi sociali. 

L’estetica della parola nel discorso di Svidrigàjlov è asservita alla pervertita radice della sua anima: la confessione che egli fa della passione per Avdotja non è guidata da un sentimento sincero, ma dal desiderio di profanazione e possesso. La parola adulatrice diventa mezzo della miseria morale di un personaggio che ha fatto della sua vita un teatro grottesco, precipitato dal piedistallo del titanismo e del superomismo, destinato al dissolvimento nel nulla. 

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.