Il dieci agosto di Pascoli: il male esacerbato

Il dieci agosto di Pascoli: il male esacerbato

Il dieci agosto di Pascoli: il male esacerbato

Giovanni Pascoli compone la lirica del X agosto in memoria del padre ucciso di ritorno dal mercato di Cesena. Il barbaro assassinio assume una connotazione universale e metafisica, e le stelle cadenti tentano la purificazione da un male portato alle estreme conseguenze.

Il dieci agosto 1867 è una data dolorosa per Pascoli. Proprio nel giorno di San Lorenzo, appena dodicenne, perde il padre Ruggero, assassinato mentre stava rientrando verso casa, a San Mauro di Romagna, dal mercato di Cesena. 

La precoce perdita del padre e i lutti familiari che affliggeranno l’animo di Pascoli negli anni a venire lasceranno una marca indelebile nella sua poesia, semplicisticamente etichettata “delle piccole cose”. 

Una poesia metafisica

La poesia di Pascoli, che si articola in una seria di raccolte curate dall’autore stesso fino all’anno della sua morte nel 1912, è relegata dai manuali scolastici a poesia che si attarda sui particolari dimessi e umili della realtà, lasciando la sontuosità e l’edonismo del linguaggio ad un irriverente D’Annunzio, e la sperimentazione classicheggiante al pedante Carducci. 

Eppure la poesia di Pascoli, da La mia sera a Commiato, ma soprattutto nel X agosto, lambisce candidamente alcune tematiche che esulano dalla tanto decantata realtà modesta: la poetica di Pascoli si interroga sulla questione universale del male, sulla sua giustificazione, senza fornire una risposta che pretenda esaustività; la sua poetica scandaglia la possibilità di una vita dopo la morte, assai remota tuttavia per un poeta il cui sguardo oramai è disincantato e fustigato dal reale gretto.

X agosto: notte di San Lorenzo

La lirica X agosto, composta nel 1986 e confluente nella prima raccolta, Myricae, istituisce un tenue parallelismo fra il tragico destino del padre e la morte della rondine, la quale stava ritornando al nido col cibo per i rondinini: 

Ritornava una rondine al tetto:

l’uccisero: cadde tra spini:

ella aveva nel becco un insetto:

la cena de’ suoi rondinini.
(…)

Anche un uomo tornava al suo nido:

l’uccisero: disse: Perdono; 

I versi, fortemente pausati, comunicano tutta la tragicità dell’evento e non mancano di alludere all’altrettanto beffardo destino che attende i piccoli, privati del cibo e dell’elemento portante della famiglia, insistendo sempre sul parallelismo fra la rondine e il padre. 

Persino la volta del cielo sembra partecipare al compianto funebre del poeta: le stelle cadenti che si intravedono le notti del dieci agosto, quando il cielo è terso, diventano metaforicamente le lacrime per il male compiuto nei confronti degli innocenti, un estremo tentativo di purificazione della Terra.

Il male universale

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi

sereni, infinito, immortale,

oh! d’un pianto di stelle lo inondi

quest’atomo opaco del Male!

L’ “atomo del Male” cui si riferisce Pascoli nell’ultima strofa è la Terra: la comunità di uomini e donne che si affaccendano ogni giorno è la causa del male perverso che colpisce gli innocenti. La Terra, colpita dallo scellerato libero arbitrio dei suoi abitanti, è la sola, in tutto il cosmo, ad essere bagnata dal sangue e dal pianto. 

Il cielo, nella notte di San Lorenzo, martire cristiano abbrustolito sulla graticola, riversa sull’arido atomo un pianto di stelle nel disperato tentativo di una purificazione universale. 

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

L’inizio dell’era atomica: Hiroshima, 6 agosto 1945

L’inizio dell’era atomica: Hiroshima, 6 agosto 1945

L’inizio dell’era atomica: Hiroshima, 6 agosto 1945

Hiroshima passa per la storia ben due volte: il 6 agosto 1945, quando con lo sgancio della prima atomica si inaugura l’era dell’atomica, e il 27 maggio 2016, data in cui l’allora presidente Barack Obama visita per la prima volta dal 1945 Hiroshima.

La mattina del 6 agosto 1945 gli abitanti di Hiroshima, città costiera dell’Honshu meridionale, si svegliano come se fosse una giornata del tutto normale, nonostante la guerra in corso: gli uomini si dirigono al lavoro, in fabbrica o in ufficio, i bambini e le bambine a scuola, le donne si apprestano a svolgere le faccende di casa; c’è anche chi si dirige verso i campi. 

Nessuno poteva immaginare la catastrofe che stava per abbattersi su questa cittadina che al tempo contava circa 300.000 abitanti. E nessuno poteva immaginarsi che la catastrofe di Hiroshima avrebbe dato inizio alla minaccia e all’era dell’atomica

Paul Tibbets

All’epoca dello sgancio della prima atomica su Hiroshima Paul Tibbets, colonnello dell’aviazione americana incaricata dell’operazione, aveva 29 anni, ed era di stanza sull’isola di Tinian, nell’arcipelago delle isole Marianne. 

Decollato da Tinian a bordo di un Boeing B-29, fu Paul Tibbets a sganciare la bomba su Hiroshima. 

Secondo la sua testimonianza, dopo lo sgancio l’aereo di Tibbets compi’ una virata per vedere che cosa fosse successo, e scorsero una nube a fondo che, tempo della virata, raggiunse l’altezza alla quale si trovava il B-29, e cioè a 11.000 m di quota. Sotto la nube la città di Hiroshima non era più visibile, coperta da una coltre nera e fumosa, densa. Tibbets testimonia che la città:

sembrava ribollire come la superficie di un barile di catrame quando si asfalta una strada. (…) L’effetto era identico, vedevamo bollire la città.

Tibbets si stupì dell’effetto dell’atomica su Hiroshima, assai diverso da quello di una bomba convenzionale: quando si sgancia una bomba convenzionale, il punto colpito a terra e in fiamme, dunque visibile. In seguito allo sgancio di una bomba atomica, al contrario, della città colpita, in questo caso Hiroshima, non rimane nulla; una superficie assai vasta per coprirla con una bomba sola. 

Effetti dell’atomica

Quando una bomba atomica viene sganciata causa uno spostamento d’aria, in secondo luogo un’ondata di calore e infine un’irradiazione di particelle gamma. 

Lo spostamento d’aria è simile a quello di una bomba convenzionale: si calcola che dei 100.000 morti di Hiroshima, solo 20.000 morirono per cause dovute al trauma dell’esplosione.

L’ondata di calore è generata dal fatto che la temperatura, quando la bomba esplode, è di 6.000 gradi, la stessa del Sole, e produce scottature mortali persino a Km di distanza: 60.000 abitanti di Hiroshima morirono bruciati vivi. 

Infine, le radiazioni gamma producono danni gravissimi al midollo osseo e al sistema nervoso e al sistema gastro-intestinale, quest’ultimi manifestando sintomi quali diarrea e vomito; coloro che vengono colpiti al sistema nervoso non vivono più di 5 minuti. Col tempo, molti sopravvissuti al 6 agosto 1945 manifestarono effetti tardivi e a lungo termine quali cancro e leucemia.

La visita di Obama a Hiroshima

Il 27 maggio 2016 l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, decide di intraprendere un’impresa immane e scardinare dal profondo un tabù della storia recente statunitense visitando la città di Hiroshima. Simbolo di questa visita rimasta nella storia è l’abbraccio fra Barack Obama e Mori Shigeaki, un sopravvissuto della strage del 6 agosto, di fronte al cenotafio in onore delle vittime dell’atomica. Durante il discorso, l’allora presidente degli Stati Uniti non ha chiesto perdono per la strage compiuta (il che sarebbe stato controverso in patria), ma ha lanciato un monito per la debellazione totale dell’arma atomica, minaccia che incombe sugli equilibri della comunità internazionale.

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Tolkien: il ciclo arturiano ne Il Signore degli Anelli

Tolkien: il ciclo arturiano ne Il Signore degli Anelli

Tolkien: il ciclo arturiano ne Il Signore degli Anelli

Il 29 luglio 1954 John Ronald Reuel Tolkien pubblica la trilogia de Il Signore degli Anelli, l’illustre capostipite del moderno romanzo fantasy, nella quale è ravvisabile un richiamo alla letteratura del ciclo arturiano.

Un genere sottovalutato

La trasposizione cinematografica della trilogia Il Signore degli Anelli di Tolkien nei primissimi anni Duemila, ad opera di Peter Jackson, ha permesso al grande pubblico di appassionarsi ad una pietra miliare della cultura fantasy del secondo Novecento. A distanza di quasi vent’anni dall’uscita nelle sale dell’ultimo capitolo della trilogia (Il ritorno del re), le lande dell’Ithilien che fanno da sfondo all’epica battaglia dei Campi del Pelennor, proprio di fronte a Minas Tirith, hanno impresso un segno indelebile nell’immaginario degli spettatori e, soprattutto, dei lettori. 

Al di là della libera ispirazione cinematografica, indubbiamente di pregio nonostante l’elisione di alcuni episodi o personaggi (ad esempio, Tom Bombadil compare nel primo romanzo La compagnia dell’Anello, ma non nel primo film della trilogia di Jackson), la trilogia letteraria di Tolkien ha anticipato e inaugurato la fiorente stagione del romanzo fantasy. Un merito indiscusso del romanziere e umanista inglese, il quale è riuscito nell’intento di sgretolare la forte ipoteca intellettuale che gravava (e a tratti grava ancora oggi) su un genere avvertito come infantile, relegabile ai piani più bassi dell’universo romanzesco. 

Eppure, Il Signore degli Anelli non è solo una formidabile trilogia fantasy che soddisfa la fame di fantasia utilizzando sapientemente materiale mitologico e folkloristico della tradizione nord europea; ma accoglie le istanze dei nostalgici i quali, all’indomani della Seconda guerra mondiale, millantano un passato edificante e puro, scevro del dolore e della miseria, rappresentato nel romanzo dalla verde Contea abitata dagli Hobbit, in contrapposizione al progresso industriale che ha causato spesso sofferenza, incarnato invece dalla nera terra di Mordor. 

La complessità dell’opera di Tolkien non si esaurisce tuttavia nel suo sensu moralis e nella velata critica della contemporaneità. 

Gli interessi del giovane Tolkien

Tolkien infatti, fin dall’adolescenza, dimostrò un fervido interesse per le lingue classiche, nonché il goto, il finnico e l’islandese; interesse che perfezionò presso l’Exeter College di Oxford, dove ottenne il Bachelor of Arts

Durante la sua carriera studentesca prima e di docente poi si interessò al popolare ciclo arturiano o bretone, il quale si diffuse ampiamente nell’Europa del XII secolo. Come noto, il ciclo arturiano o bretone definisce un filone letterario di storie e leggende, prevalentemente di ambiente celtico, ben più antiche del XII secolo. Personaggi del calibro di re Artù, del mago Merlino o della fata Morgana popolano ancora oggi l’immaginario comune, e trovano il proprio nucleo originario nella Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, cronaca favolosa dei re di Britannia composta in latino a partire dal 1135. 

A tal proposito, Tolkien è autore di un poema incompiuto, La Caduta di Artù, in cui tratta direttamente la materia bretone; tuttavia proprio la tradizione arturiana traluce nella trilogia de Il Signore degli Anelli in virtù di alcuni parallelismi tra i personaggi del ciclo e quelli tolkieniani. 

I parallelismi col ciclo arturiano

Il parallelismo che forse appare più scontato è quello fra il mago Merlino e Gandalf. 

Nella tradizione bretone Merlino è un personaggio ambiguo: secondo alcuni è infatti il figlio del demonio, ma grazie alla guida della madre e di un sacerdote le sue inclinazioni malvagie vengono smussate. Merlino, come è noto, è l’aiutante magico sia di Artù che di suo padre, Uther Pendragon. 

Anche Gandalf ha alcuni tratti ambigui: nonostante la bontà delle sue azioni sia innegabile, lo stregone è fortemente tentato dall’anello, conoscendo già le nefaste conseguenze di una presa di controllo da parte del manufatto. 

Entrambi gli stregoni sembrano avere inoltre un rapporto complicato con le torri. Merlino, tentando di sedurre la sua allieva Viviana, viene rinchiuso in una torre che la stessa Viviana crea, intrappolato in una dimensione ulteriore, sospeso fra spazio e tempo; così come Gandalf, il quale viene imprigionato da Saruman sulla cima della torre di Isengard. 

Un altro chiaro parallelismo è rappresentato dalla coppia re Artù e Aragorn, re di Gondor: non solo entrambi sono connotati dalle qualità regali del coraggio e dell’audacia, nonché aiutati, come già accennato, da due maghi; ma brandiscono armi eccezionali quali Excalibur e Narsil. Entrambe le spade conoscono vicende alterne che possono essere equiparate: ad esempio, Excalibur si spezza dopo un duello, così come accade a Narsil dopo aver staccato l’unico anello a Sauron. 

E proprio l’unico anello segna un’ennesima consonanza con un oggetto mitico del ciclo arturiano: il Graal. A ben vedere, le narrazioni ruotano intorno a questi mitici artefatti, oggetti di una quête estenuante, e che conferiscono qualità soprannaturali, quali la vita eterna. 

I parallelismi, ad una attenta analisi, si infittiscono e confermano l’assoluto valore e pregio di un’opera straordinaria: ad esempio la coppia Dama del lagoGaladriel, entrambe legate agli elementi naturali e aventi il dono della profezia, nonché quella Frodo – Artù giovane, entrambi capaci di riunire attorno a sé una compagnia di nobili uomini, la Compagnia dell’anello da un lato e i cavalieri della celeberrima Tavola Rotonda dall’altro. 

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Pessoa e Penna: poetica del frammento

Pessoa e Penna: poetica del frammento

Pessoa e Penna: poetica del frammento

Fernando Pessoa, esponente di spicco della letteratura portoghese contemporanea, è stato capace di condensare nella brevità dei suoi pensieri tutta la problematica esistenziale che si staglia nel Novecento; allo stesso modo l’italiano Sandro Penna è in grado, adottando una linea intimista e lieve, di esprimere con forza la virulenza dell’esistenza stessa.

Vorrei chiedere agli Dei di custodirmi come uno scrigno, difendendomi dalle amarezze ma anche dalla felicità della vita. 

Pessoa, Il libro dell’inquietudine, frammento 178

 

Io vivere vorrei addormentato

entro il dolce rumore della vita

Sandro penna 

 

La complessità del quotidiano non manca di offrire spunti di riflessione. Il reale, direbbe Agostino, è come un campo di battaglia: vi sono due schiere che si azzuffano, che si affrontano con tenacia. La violenza nella quale un soldato è immerso durante uno scontro è pervasiva e il discernimento diventa una qualità quasi inoperabile in tanta confusione. Colui che riesce a ragionare in tale caos è paragonabile ad un militare che dall’alto della collina, avendo una visione privilegiata, muove le azioni belliche. Ebbene, il reale può essere paragonato ad un campo di battaglia: complesso, labirintico, ad un primo sguardo quasi insensato. 

Tessere le fila della realtà e crearne una trama che tenga conto di tutte le sfumature è ardito e complesso: il romanzo moderno e contemporaneo, ad esempio, ha raccolto la sfida ma la rappresentazione, nella maggior parte dei casi, è tacciabile di parzialità. 

Di fronte a questo adynaton alcuni autori hanno deciso di adottare la frammentarietà per rappresentare il reale: scomporre un corpo complesso e considerarne piccole parti risulta più agevole allo sguardo individuale.

Pessoa e il frammento

A tal proposito l’opera emblematica di Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine (Livro do Desassossego), prende a base costitutiva proprio il frammento la cui forma duttile viene declinata abilmente nei meandri della realtà. Giornale intimo, diario esistenziale: la classificazione di quest’opera sfugge al sistema dei generi canonicamente utilizzato. Potremmo definirla un diario dell’anima attraverso il quale l’esplorazione frammentaria del reale prende una forte piega intimista, immergendosi fino alle profonde pieghe della coscienza. L’incessante porsi domande di Bernardo Soares, eteronimo e voce principale dell’opera, scandisce questa esplorazione bifronte, del reale sensibile ed emozionale. 

Le confessioni frammentarie sono affidate proprio ad uno dei principali eteronimi creati da Pessoa: Bernardo Soares. Sebbene la creazione degli eteronimi (e. g. Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Alvaro de Campos) sia un artificio di natura letteraria, quella di Soares ha un significato tutto particolare: il sognatore triste e malinconico di Rua dos Douradores, indifeso di fronte alla vita, rispecchierebbe più degli altri eteronimi la personalità di Pessoa.

Nel frammento sopracitato, il numero 178, lo sguardo di Bernardo Soares pare annullarsi: con le poche battute di questa preghiera tutta pagana la gioia e le delusioni della vita, due poli opposti della ricerca individuale, si parificano e diventano elementi di egual valore dello spleen esistenziale, punto di incontro e motore della raccolta di frammenti. Il male di vivere, il male del secolo, il male ad amare o di morire, il male di dire: lo spleen, ben riassumendo tutte queste sensazioni, diventa una protezione dal reale, come uno scudo, e privilegia l’adozione di una posizione alienante dalla realtà; l’io lirico desidera diventare spettatore, seppur consapevole, passivo e nascosto, al riparo dai rivolgimenti della vita. L’identità delle divinità invocate è a tal punto incerta che ben riflette le inquietudini di un animo che, pur di essere conservato, rinuncia a una vita attiva. 

L’essenzialità di Sandro Penna

Anche nel secondo estratto citato pare che si rinunci alla vita attiva, e il frammento, questa volta in forma di distico di endecasillabi, ne veicola l’armonioso ritmo. 

I due celebri versi di Sandro Penna appaiono nella sua prima raccolta del 1939 intitolata Poesie: in essa i tratti essenziali dello stile di Penna, quali l’essenzialità e la sintassi iterativa, accompagnata al gusto per un timido quotidiano, trovano già riscontro. 

Il distico citato inscena un io lirico che vorrebbe tenere per sé solo la dolcezza del reale, evitando le ferite sia corporali sia dell’anima. Il desiderio, che nel frammento di Pessoa è di custodia e di protezione, si configura in Sandro Penna come sogno, voglia di vivere in una dimensione onirica, eternamente soave e uguale a sé stessa, integra nella sua magnificazione parmenidea. L’aspirazione alla felicità di un’anima sensibile non passa attraverso battaglie o boriose allocuzioni, ma al sacrificio di una parte di sé. 

Il reale ha nella forma concisa ed essenziale del frammento un principio di completezza: se il valore fattuale è difficilmente rappresentabile in termini di parole, rime, tele o colpi di scalpello il punto di vista di un individuo si interiorizza massimamente e capovolge i ruoli. Se la rappresentazione del reale appare complicata l’io lirico descrive le sensazioni che i fatti stessi ispirano e una conseguenza di ciò, ben rappresentata nella letteratura e nelle arti pittoriche (vedi il simbolismo), è un allontanamento dal reale stesso

A ben vedere lo straniamento è il punto di incontro fra i due frammenti citati: la preservazione e il sogno, due temi cari a Pessoa e Penna, imbrigliano la forma frammentaria, ne ridimensionano l’espressione per un potente significato escatologico. 

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

A che cosa serve la letteratura

A che cosa serve la letteratura

A che cosa serve la letteratura

La letteratura, in ogni sua forma, è specchio della mutovolezza nella quale l’esistenza si srotola. Se Tasso e Manzoni avevano come fine l’utile che pone in essere le contraddizioni del reale, Walter Siti si scaglia contro un’idea conformista e perbenista di letteratura che attanaglia l’industria editoriale degli ultimi anni.

Se non fosse che la realtà e il vero siano mutevoli e pedanti, non si capirebbe come la letteratura, nella sua più ampia accezione e concezione, ne sia lo specchio precipuo. 

Di tale convinzione, sembra farsi carico Cesare Pavese, il quale nel dialogo Le muse, l’ultimo della sua formidabile opera Dialoghi con Leucò, scrive:

MNEMÒSINE: “Ma anche tu, caro (a Esiodo, n.d.a.), esisti, e per te l’esistenza vuol dire fastidio e scontento.”

(…) ESIODO: “Ascoltandoti, certo. Ma la vita dell’uomo si svolge laggiù tra le case, nei campi. Davanti al fuoco e in un
letto. E ogni giorno che spunta ti mette davanti la stessa fatica e le stesse mancanze. È un fastidio alla fine, Melete.
C’è una burrasca che rinnova le campagne — né la morte né i grossi dolori scoraggiano. Ma la fatica interminabile, lo
sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate —
quest’è il vivere che taglia le gambe, Melete.”

(…) MNEMÒSINE: “Prova a dire ai mortali queste cose che sai.”

Esiodo, come è noto, è il poeta più antico della Grecia continentale. A colloquio con la madre delle nove muse, Mnemosine, nel dialogo pavesiano egli incarna perfettamente lo slancio tedioso dell’individuo contemporaneo; uno slancio che la letteratura, nella sua qualità più performante, pone in essere in un clima culturale tendente al conformismo e all’egocentrismo.

Retrogradando lo sguardo di qualche secolo, Pietro Bembo compone le Prose della volgar lingua nella prima metà del XVI secolo e istituisce un criterio letterario per “valutare” le lingue. Il suo obiettivo non è certamente quello di svilire gli altri volgari della penisola, come il veneziano: al contrario, pochi hanno scritto in veneziano, molti in un certo fiorentino; il fiorentino, quindi, appare come lingua adatta alla pratica letteraria. Perché? 

La letteratura come filtro del reale

La letteratura, a ben vedere, è filtrazione della realtà attraverso una forma. Che sia prosa o poesia, romanzo o trattato, l’esercizio della parola scritta pone le basi per un diverso approccio al reale nel quale si è immersi. 

Tale fatto al Bembo non può essere sfuggito: il fiorentino trecentesco, nelle personalità imitabili del Petrarca e del Boccaccio, simboli di un’epoca giunta agli sgoccioli, seppe esprimere un disagio esistenziale, il senso di qualcosa che finisce, una nostalgia vacua e inesorabile, nonché irrimediabile. La letteratura del Trecento, oltre ad essere il filone aureo dal quale attingere per poter scrivere bene, è anche custode di inquietudine filtrata dalla forma

Da Torquato Tasso ad Alessandro Manzoni

Già alcuni fra i letterati più rappresentativi della letteratura italiana si sono interrogati sul significato e fine della letteratura. 

Torquato Tasso, autore della Gerusalemme Liberata (1575), afferma nei Discorsi del poema eroico (1594) che la letteratura, pur traendo la propria materia dal mutevole reale, debba perseguire l’utile, quindi essere edificante moralmente e rifuggire il mero diletto, come aveva fatto Ariosto attardandosi sulle lascivie di Alcina e Ruggero. Tasso solleva una questione spinosa e a tratti imbarazzante: può l’artista abbandonarsi esclusivamente alla piacevolezza, al dilettevole, al “vendibile”, e abdicare al proprio ruolo civile e educativo?

Tale questione venne ripresa qualche secolo dopo da Alessandro Manzoni il quale, come è noto, afferma che lo scopo della letteratura sia l’utile. L’artificio poetico assolve a una ben precisa funzione educativa, civile, e morale occupandosi degli oppressi e donando loro una voce altrimenti inascoltata, e deve necessariamente rifuggire il banale diletto, pena il ripiego della letteratura stessa a decoro e fronzolo del reale, totalmente avulso da qualsivoglia contesto.  

Walter Siti e la tendenza contemporanea

Contrariamente alla recentissima tendenza di una letteratura pseudo progressista e palliativa, Walter Siti, in Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli, 2021), si fa campione di un nuovo modo di intendere il significato della letteratura. Se recentemente la nuova interconnessione fomentata dalle reti social (Facebook, Instagram, TikTok, ecc…) ha reso sempre più pedante la retorica sul bene, coadiuvata da un’inarrestabile ondata di egocentrismo, la letteratura, dalla prosa alla poesia, nonché tutte le discipline artistiche, sembra essersi adeguata ai nuovi parametri di fruibilità.

La letteratura non deve essere terapeutica

In parole povere, Walter Siti accusa la letteratura odierna di perseguire ostinatamente il bene a tutti i costi: i romanzi devono far stare bene i lettori e le lettrici, intervengono per lenire le ferite interiori, curano; ma può la letteratura essere terapeutica? Walter Siti risponde, giustamente, che la letteratura dovrebbe rifuggire tali istanze da salotto, e che può benissimo complicare le cose, far ammalare poiché incapace di assorbire i traumi, se mai esasperarli. A fronte dell’egocentrismo stentoreo di alcuni autori evanescenti quali D’Avenia, Baricco, Saviano, che incarnano ideali monotonali e facilmente cavalcabili dal commercio di libri e idee, la letteratura, infine, dovrebbe favorire la contraddizione, la pluralità di idee e la provocazione, nonché l’esasperazione, proprio perché il reale non è o bianco o nero, ma labirintico e intricato. 

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.