Buon compleanno Winona Ryder!

Buon compleanno Winona Ryder!

Buon compleanno Winona Ryder!

Nel 51esimo compleanno della Ryder, ricordiamo insieme alcuni dei più grandi successi di una delle più talentuose attrici che Hollywood abbia mai conosciuto.

Una carriera da paura

Winona Ryder, classe 1971, è conosciuta nel mondo cinematografico soprattutto per le sue interpretazioni in film horror o in thriller psicologici; in questi generi la Ryder è riuscita a dare il meglio di sé, immergendosi a pieno in personaggi psicologicamente complessi e problematici. La sua carriera prende il via già nel 1988, alla giovane età di 17 anni, con il film Beetlejuice, in cui interpreta il ruolo di un’adolescente con tendenze suicide alle prese con una coppia di fantasmi che infesta la sua casa. Grazie a questo film inizia a essere notata da diversi registi, tra cui Tim Burton, il quale la sceglie come co-protagonista al fianco di Johnny Depp in Edward mani di forbice, e Richard Benjamin, con cui lavora nel film Sirene con Cher, Bob Hoskins e Christina Ricci. Successivamente, idolatrata ormai come principessa dei dark e paladina della new generation contestatoria, viene immortalata dal regista Francis Ford Coppola nel film Dracula di Bram Stoker. Dopo diversi anni nel cinema (in pellicole come Schegge di follia e La casa degli spiriti) arriva un nuovo ruolo psicologicamente molto complesso che la Ryder riesce a interpretare alla perfezione, ovvero la diciottenne Susanna Kaysen nel film drammatico Ragazze interrotte. Dal 2016 l’abbiamo poi vista nuovamente sul grande schermo nella serie tv americana Stranger Things, nei panni di Joyce Byers, la madre di Jonathan e Will.

I ruoli più conosciuti

Come abbiamo già detto, quest’oggi l’attrice spegne ben 51 candeline e alle spalle ha una carriera da far invidia ai più talentuosi attori hollywoodiani, ma quali ruoli sono stati tra i più significativi per la Ryder? Sicuramente bisogna menzionare il ruolo di Kim Broggs nel film Edward mani di forbice, ovvero la figlia adolescente della coppia che accoglie Edward in casa. Dopodiché un altro ruolo che ha segnato particolarmente la sua carriera è stato sicuramente Charlotte Flax, un’adolescente inquieta e sessualmente repressa, nella commedia familiare Sirene. Successivamente la Ryder ha iniziato a interpretare anche ruoli di donne appartenenti ad altre epoche, come May Wellend, una ragazza aristocratica nella pellicola L’età dell’innocenza, e come Jo March in Piccole donne. Più recentemente, nel 2010 Winona Ryder ha interpretato l’ex prima ballerina Beth Macintyre nel film campione d’incassi Il cigno nero, thriller psicologico che ha portato nuovamente alla luce la capacità straordinaria dell’attrice nell’immedesimarsi completamente in personaggi molto complessi da interpretare.

Questi ovviamente sono solo alcuni dei tanti ruoli che la Ryder ha messo in scena, ma seppur pochi, già solo da questo breve elenco si può constatare quanto la bravura di questa donna non si sia mai dissipata nel tempo.

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Cecilia Gavazzoni

Ciao, sono Cecilia e studio Lettere Moderne. Adoro scrivere e spesso fingo di essere anche esperta di moda (un’altra mia grande passione). Ah, a volte do anche consigli di Lifestyle e pareri non richiesti. Ma niente di serio, non vi preoccupate.

RAMBO HA QUARANT’ANNI. MA VA FORTE COME ALLORA.

RAMBO HA QUARANT’ANNI. MA VA FORTE COME ALLORA.

RAMBO HA QUARANT’ANNI. MA VA FORTE COME ALLORA

Nell’ottobre del 1982 esce il film che rivoluziona il genere avventuroso. Sospeso tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, grazie all’interpretazione di Sylvester Stallone diverrà un classico assoluto.

They drew first blood, not me”, “hanno sparso loro sangue per primi, non io”. Così risponde l’ex berretto verde John Rambo al suo superiore, il colonnello Trautman, che lo accusa di aver causato alcuni danni. In “First blood” romanzo pubblicato nel 1972, l’attenzione è dunque posta su chi colpisce per primo, ossia lo Stato; la società ne utilizza la forza per controllare gli impulsi devianti, non volendo togliere il velo che copre ma non nasconde le cause di tale devianza, mentre il reduce di guerra è uno psicopatico violento, una macchina da guerra che ha perso il lavoro, ed ora è inutile e pericolosa per gli altri.

Ma il film tratto dal libro non vede la luce subito.

Sylvester Stallone è già arrivato al secondo capitolo della saga di Rocky. È ormai una star planetaria, ma non vuole ora essere identificato solamente con il ring. Si mette alla ricerca di una sceneggiatura che ne esalti la figura e lo lanci definitivamente come attore completo; inoltre ha rifiutato il ruolo del reduce dalla guerra del Vietnam in “Tornando a casa”, film che pochi anni prima aveva portato il protagonista Jon Voight (e Jane Fonda) al premio Oscar. È un errore cui deve porre rimedio.

L’ambizione di Sly incontra l’intuizione di Mario Kassar e Andrew Vajna, i boss della Carolco, casa di produzione che ha rilevato i diritti per la trasposizione cinematografica del romanzo di David Morrell. I due vogliono puntare sul tema dell’underdog, dell’escluso reietto dalla società corrotta che trionfa contro ogni previsione.

Il topic sta diventando un classico in quel periodo: del 1984 è “The Karate Kid” che ha come protagonista Daniel Larusso il ragazzo italo-americano che diventa superkarateka (e come regista John Avildsen, quello di Rocky); del 1983 è “Stayin’ alive” sequel de “La febbre del sabato sera” con Tony Manero che, da guinea in fuga dalla New York “sbagliata” nel 1977, diventa star di Broadway (e la regia è, guarda caso, del buon Sylvester).

E dunque chi meglio dell’interprete dello Stallone Italiano può ripagare lo sforzo economico della Carolco?

Eppure, dopo che il passaggio dei diritti tra diverse case di produzione, i ripetuti cambi di registi, attori principali ed antagonisti e i numerosi rimaneggiamenti della sceneggiatura abbiano fatto guadagnare al progetto una aura di film problematico, anche Sylvester Stallone rinuncia. Accetta solo quando gli viene accordata la facoltà di riscrivere la sceneggiatura.

Così, pur mantenendo il titolo del romanzo, l’attore punta tutto su Rambo.

L’opera pone le basi degli action movie del decennio: imprese sovrumane, figure iconiche e laconiche, torti da vendicare e cattivi sempre meno sfaccettati e sempre più determinati nella loro cattiveria; il vice sergente Galt in questo caso è particolarmente sadico.

Rambo invece è l’esercito di un solo uomo. Si può dire che senza l’eroe di Stallone non avremmo avuto Jean-Claude Van Damme, Dolph Lundgren e i vari Die Hard, e gli anni Ottanta non sarebbero stati ricordati, tra le altre cose, come gli anni che hanno rivoluzionato il genere.

Stallone, infatti, comincia con questo film a ritagliare, per sé e per i suoi colleghi la figura di personaggio solitario, silente e sempre meno espressivo; la sua comica umiltà del primo film del pugile di Philadelphia si squaglia, così come restano poche tracce di ironia (quando assale un mezzo dell’esercito ed espelle il pilota: “Guarda la strada, è così che accadono gli incidenti”).

Le scene della fuga nei boschi sono straordinarie e coinvolgenti, e il protagonista si mostra subito a suo agio nella guerriglia; scappa da ogni trappola e i suoi inseguitori lo credono morto. Solo Trautman capisce, non senza personale soddisfazione, che Rambo è ancora vivo.

Il contrasto tra le scene di guerriglia e quelle in cui viene pretestuosamente arrestato per vagabondaggio è però evidente. Rambo, almeno nel primo film della serie, non appare affatto come un eroe senza macchia. È fragile, terrorizzato, devastato dal suo passato, e non comprende come possano i suoi connazionali trattarlo come un appestato e contestargli l’essere un assassino di civili inermi; come possa essere un indesiderato persino dalle forze dell’ordine.

L’ex berretto verde è ancora legato all’humus culturale del decennio precedente che ci ha regalato opere come “Quel pomeriggio di un giorno da cani” con Al Pacino e John Cazale. La società si vergogna di questi reduci, e li tiene fuori dall’uscio di casa. Nella scena finale lo sguardo perso di John verso gli abitanti della cittadina da lui devastata ricorda proprio quello di Al Pacino/Sonny arrestato all’aeroporto.

In questo il personaggio di Stallone (e ovviamente non di Morrell) è ancora sospeso tra i due decenni e paga il tributo a figure come il Travis Bickle di “Taxi Driver”, o anche proprio il Bob Hyde di “Tornando a casa”.

La complessità e le lacerazioni interiori lasceranno spazio nei sequel alla totale dedizione verso la causa (la ricerca di soldati prigionieri in Vietnam e il sostegno alla guerriglia afghana); il presidente Ronald Reagan loderà i film successivi, vedendo in Rambo il simbolo del militare americano, che nel terzo capitolo si accanisce contro una delle più stereotipate edizioni del soldato sovietico. Nel terzo film della saga Rambo, pur rimanendo diversissimo, strizza l’occhio al Michael Kirby di “Berretti Verdi” del 1968, interpretato da John Wayne, mai così agghindato come uno Zio Sam ultraconservatore.

Siamo però nel 1988 e questa iconografia è ormai agli sgoccioli. Dello stesso anno è il film “Danko” dove Arnold Schwarzenegger è un poliziotto in trasferta a Chicago, discretamente robotizzato ma simpatico e ben assortito con il collega yankee Jim Belushi. Il mondo sta cambiando.

La carica profondamente umana in esso trasfusa fa di “Rambo” un film che si lega al suo periodo storico e al tempo stesso ne travalica i confini, mantenendo il suo fascino e la sua forza espressiva ancora oggi. Al di là di ogni etichetta, John Rambo è un eroe universale, la sua lotta per la sopravvivenza lo ha portato fino a noi intatto nel carisma e nel messaggio.

Danilo Gori

Robert De Niro: domenica in chiesa, lunedì all’inferno

Robert De Niro: domenica in chiesa, lunedì all’inferno

Robert De Niro: domenica in chiesa, lunedì all’inferno

Compie 79 anni uno dei simboli più genuini dell’italianamerican, che rivela il suo talento rivoluzionario nel primo capolavoro di Martin Scorsese.

La carriera di Robert De Niro decolla all’alba degli anni Settanta. Mean Streets esce nel 1973; In Italia il titolo non viene tradotto, ma l’aggiunta del sottotitolo con i due giorni della settimana introduce la dialettica degli opposti; De Niro interpreta Johnny Boy Civello, giovane disadattato che fa esplodere per gioco le cassette della posta, rincorso dai creditori e alla ricerca di nuovi gonzi cui prendere denaro. È sospeso tra la sua inaffidabilità e la devozione per l’amico Charlie (Harvey Keitel), che cerca di difenderlo da tutti, soprattutto da sé stesso.

Johnny boy tornerà più volte, sarà il Travis Bickle di Taxi Driver, Jake La Motta di Toro Scatenato o Noodles di C’era una volta in America; eroi universali tormentati ed alienati dal contesto sociale che si evolve spietatamente, senza riguardo per gli inadatti, siano essi persone fragili o reduci di una guerra persa.

C’è qualcosa di più sullo sfondo delle sue performance: nei Seventies il contesto in cui si muove l’attore è una New York economicamente sconfitta: austerity con tagli all’energia e saccheggi metropolitani; il sindaco nel 1975 chiede a Washington il salvataggio, che Gerald Ford non concederà. Il Daily News titolerà “Crepa New York!”, riferendosi alla risposta di Mr. President.

John Naughton su GQ arriva a identificare De Niro con la sua città. L’uomo con le sue nevrosi e i suoi flussi di incoscienza è il newyorchese che ha perso i riferimenti, mentre NYC è ancora la città che non dorme mai, ma per motivi tutt’altro che nobili. Il sogno americano langue e denuncia i suoi limiti e le sue ipocrisie; all’inizio degli anni Novanta è sempre De Niro che ne mostra l’altra faccia, con la clamorosa interpretazione dell’apparentemente tranquillo Max Cady che si trasforma in sadico aguzzino del suo avvocato in Cape Fear. E John Hinckley, dopo aver attentato alla vita di Ronald Reagan nel marzo del 1981, dichiarerà di essere rimasto stregato dal film, da Jody Foster (che recita la parte di una baby prostituta) e di essersi ispirato proprio al personaggio di De Niro.

LA RECITAZIONE.

“Una volta Robby mi dice: “sai come un attore legge una sceneggiatura?”. “Come?” – rispondo io. “Adesso te lo mostro.” E inizia a camminare e a scorrere lo script dicendo: “stronzate! Stronzate! Stronzate!””.

“Harvey Keitel, Kennedy Center Honors per Robert De Niro, 2009.

Secondo i dettami della Stella Adler Academy, De Niro cerca la totale immersione nel personaggio, con un approccio che vuole favorire l’immaginazione prima ancora che le emozioni; l’attore quindi toglie, ma è incredibilmente attento ai dettagli, per essere prima ancora che interpretare. Con una stupefacente e giustamente famosa trasformazione fisica acquista 30 kg per impersonare la parte del grande campione di pugilato La Motta. lo ritrae dalla gloria del ring fino al suo imbolsimento; poi recita in siciliano nel Padrino parte II (e riceve l’Oscar), si rovina i denti e se li fa risistemare a spese sue per Cape Fear.

De Niro spinge come nessuno prima i limiti del concetto di versatilità dell’attore: prende la licenza e guida il taxi di notte per mesi nella sua città (You talkin’ to me?), impara a suonare il sassofono nel flop New York New York.  Si infuria con Mickey Rourke durante le riprese di Angel Heart, per i ritardi sul set e gli atteggiamenti da divo.

È un lavoratore instancabile e perfezionista, e quando decide di prendersi una pausa nel 1977, si imbatte nella sceneggiatura del Cacciatore. Il film parla dell’impatto della guerra nel Vietnam su una comunità di operai della Pennsylvania, e stravolge i programmi di Bob. Risultato: cinque Oscar, tra cui il miglior film. Una delle sue frasi iconiche rimarrà: “Il talento è nelle scelte”.

Stavamo girando “Quei bravi ragazzi”; nella scena in cui io accoltello ripetutamente Frank Vincent steso nel bagagliaio, ad un certo punto mi accorgo che De Niro al mio fianco mi fissa perplesso. Gli dico: “Che c’è Bob?”. “Nulla” fa lui, ma io insisto: “O parli o pugnalo te invece di Frank!”. “Stavo pensando…” – fa allora lui – “stai colpendo troppo in fretta; non si può entrare e uscire dalle costole di un uomo così velocemente. Non sei credibile Joe”.

“Joe Pesci, intervento, AFI Life Achievement per Robert De Niro, 2003”.

LA TIMIDEZZA

Una caratteristica ben nota e frustrante per i giornalisti del settore è la ritrosia del divo a rilasciare interviste. Scherzando ma non troppo Martin Scorsese, ospite del Tonight Show, saputo dal conduttore Jimmy Fallon che De Niro era stato lì poco prima, chiede “Did he speak?”. La capacità di trasformarsi e di rubare la scena sul set si è perfettamente saldata con la sua necessità di non dire. E negli anni questo aspetto del suo carattere ha portato il pubblico ad immaginare, anche al di fuori dei film, e a riempire i suoi vuoti. Solo più di recente ha aperto la bocca più spesso; ha destato stupore il suo proposito di “prendere a pugni” il presidente Donald Trump per alcuni aspetti della sua politica.

Nel nuovo millennio si è dedicato anche a ruoli più leggeri, magari autoironici come in “Un boss sotto stress” o “Ti presento i miei”, ma Robert De Niro, è diventato una star recitando spesso il ruolo dell’outsider, del cattivo o di uno dei cattivi del film. Non si è mai veramente preoccupato di opinioni degli addetti ai lavori, pur rispettandone il ruolo. Ha lasciato parlare la sua arte.

Personalmente nessuno come lui, se non il migliore Al Pacino, mi ha fatto apprezzare in un attore la volontà di cogliere in un essere umano virtù e debolezze, slanci di umanità e bassezze. Sempre con compassione, mai volendo giudicare. Tutti gli attori e le attrici devono fare i conti con la sua arte, con il suo modo sincero, senza sconti e senza preconcetti, di entrare nel mondo dell’uomo descritto nella sceneggiatura.

Voler capire da dove nasce il male nei suoi gangster, senza probabilmente considerarli tali. Non cercando né buoni né cattivi, solo persone senza etichette, attraverso le quali lanciare messaggi universali su di noi.

“Eravamo a Parigi, e in un pomeriggio stavamo sostenendo settanta interviste per la promozione di “Terapia e Pallottole”, e Bob mi voleva sempre con sé, per il semplice motivo che io parlo. Bob odia parlare nelle interviste: si limita a fare le sue smorfie, e alla fine dice “basta così, no?”

“Billy Cristal, introduzione della cerimonia, AFI Life Achievement per Robert De Niro, 2003”.

Corri, Forrest, corri!

Corri, Forrest, corri!

Corri, Forrest, corri!

Storia di corse improvvisate e consapevolezze arrivate.

Forrest Gump, film degli anni Novanta con protagonista il celeberrimo Tom Hanks che narra le avventure straordinarie e al limite dell’inverosimile di un ragazzo dell’Alabama. Serve davvero aggiungere altro? Serve effettivamente un ulteriore articolo che parli di questo cult del cinema? Probabilmente no. Ma appena ho messo gli occhi su questo titolo qualcosa in me ha risuonato, qualcosa mi ha urlato a gran voce di scrivere questo pezzo.

Potrebbe essere che tutto ciò sia utile solo alla mia persona, ma sono convinta che quello che mi ha risuonato dentro possa essere un filo conduttore tra di noi, una sensazione e un bisogno condiviso anche in chi sta leggendo queste righe.Il fil rouge di tutto il film è sicuramente la corsa, dalla famosa scena in cui il piccolo Forrest corre per la prima volta, nonostante i tutori alle gambe lo rallentino, fino alla corsa per tutti gli Stati Uniti perché semplicemente si sentiva di correre e non fermarsi più.

Ma cos’è che spinge il protagonista a correre sempre e comunque? Inizialmente si percepisce come la corsa sia per lui una liberazione, sia un talento, un dono che gli permette di liberarsi dai tutori per le gambe, distruggendoli in mille pezzi durante il primo scatto. Da questo primo momento non si fermerà più, in qualsiasi posto andrà ci andrà correndo. Diventerà poi una possibilità di salvezza, Forrest grazie alla sua abilità di correre veloce riuscirà a scappare più volte dai bulli, riuscirà ad entrare al college come giocatore di football e successivamente si salverà dai bombardamenti in Vietnam.

Tutto questo però acquisisce una svolta, un nuovo significato quando, dopo molti se non troppi eventi dolorosi e difficili Forrest inizia a correre, a suo dire “senza una ragione in particolare”, inizia a correre e correre, fino alla fine della strada, della città, della contea e dello Stato, fino poi a raggiungere l’oceano. In questo momento Forrest non corre più perché c’è qualcuno a dirgli “Corri, Forrest, corri”, corre perché è rimasto da solo, corre perché gli sono accadute troppe cose e ha bisogno di pensare, di elaborare, e l’unico modo che gli è naturale è la corsa. È la necessità di allontanarsi, di muoversi per rientrare in contatto con sé stessi per ascoltarsi e capirsi.

Io dal canto mio invece ho passato tutta la mia vita a odiare la corsa, la trovavo inutile, noiosa, sfiancante. Qualsiasi torto mi si potesse fare non sarebbe mai stato così tragico e tagliente come l’obbligarmi a correre. Al contrario, per mio padre la corsa è da sempre stata ossigeno puro, è sempre stato il suo modo per sentirsi forte, invincibile, proprio come per Forrest. Una delle sue frasi preferite era infatti “io da giovane non camminavo mai, correvo”. Ed era vero, andava a fare la spesa per mia nonna e dal fruttivendolo ci arrivava a furia di staffette. Invece di aspettare il tram come i comuni mortali, lui ci gareggiava, solo per il gusto di poter correre veloce. Ovviamente non ho mai capito il senso di tutto ciò, io che come filosofia di vita invece di camminare, passeggiavo. Come non capivo lui, non capivo neanche tutti quei pazzoidi che a marzo, a inizio lockdown si son scoperti appassionati di jogging come mai prima in vita loro. Li vedevo, mentre passeggiavo verso il parco, nei loro completini iper-tecnici, con le tute coordinate e le scarpe scintillanti, li vedevo correre su e giù per il quartiere come deficienti, e più li guardavo e più me ne chiedevo il senso. Onestamente ero anche infastidita da questa ricerca di libertà fittizia, che un criceto sulla ruota in confronto sembrava un viaggiatore di mondo. Li osservavo e non capivo, tornavo a casa, ci pensavo e ancora non capivo.

Poi qualcosa dentro di me è scattato. Come Forrest mi sarei messa a correre per la via, per il quartiere, per la città e anche per tutto lo Stato se le gambe mi avessero retto. Una serie di eventi veloci, terribili e drammatici ha stravolto la mia vita. Una telefonata da parte della compagna di mio padre, appena ho risposto mi si è raggelato il sangue nelle vene “Vale, papà ha avuto un ictus, è in ambulanza”. Una videochiamata da parte di mio padre dalla stanza dell’ospedale “Pulce, fai venire qui anche la mamma, vi devo dire una cosa importante”.

Da quella prima telefonata, dalla successiva diagnosi di tumore al cervello, ho sentito solo il bisogno ancestrale di correre, correre dietro a quella maledetta ambulanza, correre attraverso tutta la città, correre per i corridoi dell’ospedale, correre tra i numeri delle stanze, correre tra le braccia di mio padre. Avevo solo bisogno di correre da lui, avevo solo bisogno di quella normalità che mi era stata brutalmente tolta d’improvviso. Nulla di tutto ciò però mi era permesso.

Quarantene forzate, reparti Covid, i contagi in aumento. Tutto il mondo stava crollando sotto il peso di una pandemia, ma io sentivo solo il bisogno di rimettere insieme i pezzi del mio microcosmo. Allora ho fatto anche io l’unica cosa che mi era permesso fare, ho tirato fuori dall’armadio le mie scarpe da corsa mai utilizzate e più scintillanti che mai, ho messo addosso una tuta non proprio tecnica e neanche troppo coordinata, sono uscita e ho iniziato a correre su e giù per il parco del quartiere. Ho corso come mai pensavo avrei fatto, con tutta l’energia e la determinazione di cui disponevo, ho corso così tanto da perdere il fiato, ho corso così a lungo da non sentire più le gambe. Mi sono distrutta, mi sono sfiancata. Eppure, alla chiamata rituale con mio padre, ormai giornaliera e sempre puntuale al minuto, ho risposto euforica “Papà! Finalmente ho capito”.

di Valentina Nizza

L’Asian Film Festival di Roma definisce il programma: gli 8 paesi protagonisti

L’Asian Film Festival di Roma definisce il programma: gli 8 paesi protagonisti

L’Asian Film Festival di Roma definisce il programma: gli 8 paesi protagonisti

Si terrà al Farnese Arthouse, dal 7 aprile al 13 aprile 2022, la diciannovesima edizione di Asian Film Festival, la vetrina sul miglior cinema d’autore dei paesi dell’Asia orientale organizzata da Cineforum Robert Bresson con la direzione artistica di Antonio Termenini.

Quest’anno il cartellone prevede 30 lungometraggi provenienti da 8 paesi dell’Estremo Oriente (Cina, Corea del Sud, Filippine, Giappone, Hong Kong, Singapore, Taiwan, Thailandia), divisi tra film in concorso, fuori concorso e sezione Newcomers dedicata ad esordi e giovani registi. Tutti i film sono in lingua originale con sottotitoli in italiano. 

A sostegno dell’Asian Film Festival si annoverano prestigiose partnership quali quelle con la Regione Lazio, la Direzione Generale Cinema, il Comune di Roma e la Roma Lazio Film Commission. Alla sua realizzazione hanno poi contribuito anche il Ministero degli Affari Esteri e l’Associazione Italia Asean, nata con l’obiettivo di rafforzare il dialogo, la conoscenza e gli scambi tra il nostro Paese e quelli dell’Asean. Ulteriori partnership di particolare rilievo sono quelle con il Film Development Council of the Philippines, UniPhilippines e con il Japan National Tourism Organization. 
Anche quest’anno, inoltre, il Festival ospiterà all’interno della sua programmazione delle giornate speciali interamente dedicate ad alcune delle cinematografie asiatiche. In particolare, venerdì 8 aprile si terrà, in collaborazione con l’Ambasciata della Thailandia e il Tourism Board della Thailandia il Thailand Day. Nel corso di questo evento verranno presentati i film The Edge of Daybreak di Taiki Sakpisit, Come Here di Anocha Suwichakornpong, The Medium di Banjong Pisanthanakun e Anatomy of Time di Jachavral Nilthamrong. 
Grazie alla collaborazione con l’Istituto di Cultura Coreano di Roma, sabato 9 aprile si terrà invece il Korean Day, una giornata interamente dedicata al cinema sudcoreano in cui verranno presentati i film The Day Is Over di Qi Rui, Mom’s Son di Dong-min Shin, A Leave di Lee Ran-hee, Rolling di Min Seung-kwak e Three Sisters di Seung-Won Lee. Fanno parte del programma anche i cortometraggi Last Meal e Mother In The Mist. 
Domenica 10 aprile
, con il patrocinio dell’Istituto di Cultura Giapponese di Roma, si svolgerà invece il Japan Day. Nel corso di questo verranno presentati i film Somebody’s Flowers di Yusuke Okuda, Tsuyukusa di Hideyuki Mirayama, Moonlight Shadow di Edmund Yeo, Hokusai di Hajime Hashimoto e In The Wake di Takaisa Zeze.

Il programma

Giovedì 07 aprile 2022
15:00 Reunion Dinner (Ong Kuo Sin, Singapore, 2022, 90’) – Ah Ma è un’anziana che vive da sola nonostante soffra di demenza, il suo unico desiderio è quello rivedere la sua famiglia unita, che sembra invece averla dimenticata. L’esordio alla regia di Danielle Wei Koh ci porta in uno dei più grandi timori umani: l’abbandono. Un film elegante e scarno, dalle tinte drammatiche. Anteprima Italiana
16:45 Ms. Pearl (Yunbo Li, Cina, 2020, 98’) – Quando Ms. Pearl scopre che sua madre è malata di cancro decide di organizzare incontri al buio per trovare finalmente un uomo adatto a lei ed esaudire così l’ultimo desiderio della madre, ovvero quello di vedere la propria figlia felicemente sistemata. Anteprima italiana
18:30 Big Night (Jun Robles Lana, Filippine, 2021, 96’) – Dharna è sulla lista dei sospettati tossicodipendenti, in un solo giorno dovrà trovare il modo di dimostrare la sua innocenza. Un film che unisce toni da commedia con il ritratto della corruzione del governo filippino. Dal regista Jun Robles Lana, già premiato nell’edizione 2020 con Kalel, 15. Precede la proiezione il cortometraggio The Season Cuckoo Sings (Cina, 2021, 21’) Anteprima italiana
21:15 The Mole Song: Final (Takashi Miike, Giappone, 2021, 129′) – Ultimo capitolo della pazza saga diretta dal sublime Takeshi Miike. Il poliziotto Reiji questa volta dovrà infiltrarsi nella più grande organizzazione yakuza del Giapponese e intercettare un giro d’affari da milioni di yen. Anteprima italiana

 

Venerdì 08 aprile 2022 | | | THAYLAND DAY | | |
15:00 The Edge of Daybreak (Taiki Sakpisit, Thailandia, 2021, 115’) – Il percorso dolente e pieno di sofferenze dell’animo di due donne attraverso trent’anni di storia thailandese in un film tagliente in bianco e nero.
17:15 Come Here (Anocha Suwichakornpong, Thailandia, 2021, 69’) – Una gita tra quattro amici sembra non avere niente di speciale, ma a volte basta uno specchio d’acqua per cambiare prospettiva. Anteprima italiana
18:30 The Medium (Banjong Pisanthanakun, Thailandia, 2021, 130’) – Direttamente dalla Thailandia, un horror incentrato sull’angoscia e la paura di un gruppo di giornalisti costretto a fare i conti con sciamani e società primordiali. Anteprima europea
21:00 Anatomy of Time (Jakraval Nilthamrong, Thailandia, 2021, 117’) – Ambientato nella Thailandia degli anni ’60, il film attraversa la storia d’amore di Maem, una giovane ragazza con il cuore diviso tra due uomini. Una riflessione profonda sul significato del tempo affacciata su un background politico thailandese difficile e tortuoso.

 

 

Sabato 09 aprile 2022 | | | KOREAN DAY | | |            
14:30 The Day Is Over (QI Rui, Cina, 2020, 108’) – Offesa da una lettera ingiuriosa, una ragazza decide, insieme alle sue amiche del cuore, di andare a cercare suo padre in città. Il viaggio, però, sarà reso complicato da una serie di imprevisti, dai quali le giovani non si lasceranno scoraggiare. 
16:30 Mom’s Son (Shin Dong-min, Corea del Sud, 2020, 73’) – Il film descrive la vita di una donna forte che, all’interno della società coreana contemporanea, deve destreggiarsi e saper affrontare le difficoltà che le si presentano. Un viaggio attraverso la spiritualità e il silenzio. Anteprima italiana
17:45 A Leave (Lee Ran-Hee, Corea del Sud, 2020, 81’) – In una società in cui la produttività ha più valore della vita umana, Jae-bok lotta per i diritti dei lavoratori, mettendoli al primo posto anche rispetto al diritto delle proprie figlie di avere il padre con sé. Precede la proiezione il cortometraggio Last Meal (Taiwan, 2021, 25’) Anteprima italiana.
19:45 Rolling (Kwak Min-Seung, Corea del Sud, 2021, 75’) – Una madre amorevole, un locale di kimbap ed un cerotto; sono per Ji-roo gli ingredienti giusti per una vita dal gusto inaspettatamente nuovo. Precede la proiezione il cortometraggio Mother In The Mist (Cina, 2021, 21’) Anteprima europea
21:30 Three Sisters (Lee Seung-won, Corea del Sud, 2020, 115’) – Tre sorelle vivono le loro caotiche vite intrattenendo sporadici rapporti telefonici e incontri spesso imbarazzanti. Il compleanno del padre sarà un’occasione per rincontrarsi, ma un inaspettato evento farà degenerare velocemente la situazione.

Domenica 10 aprile 2022 | | | JAPAN DAY | | |
14:00 Somebody’s Flowers (Yusuke Okuda, Giappone, 2021, 115’) – A causa di un evento drammatico, il giovane Takaaki, a cui è stato strappato il fratello in un incidente, sarà costretto ad affrontare nuovamente i dolori del lutto. Anteprima europea
16:00 Tsuyukusa (Hideyuki Mirayama, Giappone, 2022, 95’) – Una donna e un bambino, due vite diverse ma legate dallo stesso dolore. Un viaggio difficile che descrive la speranza dei due protagonisti. La felicità è dietro l’angolo, bisogna solo saperla trovare. Anteprima mondiale
17:40 Moonlight Shadow (Edmund Yeo, Giappone, 2021, 92’) – Un film delicato e surreale che esplora il dolore della perdita e della vita dopo la morte attraverso un misterioso fenomeno che si verifica durante la luna piena. Tratto dall’omonimo romanzo di Banana Yoshimoto. Anteprima europea
19:15 HOKUSAI (Hajime Hashimoto, Giappone, 2021, 129’) – Sebbene il governo decida di censurare ogni forma d’arte, il giovane pittore Hokusai è deciso a continuare la creazione delle proprie opere, in rappresentanza della sua più profonda essenza interiore. La vita dell’artista leggendario che ha ispirato Van Gogh e Monet. Anteprima italiana
21:30 In The Wake (Takahisa Zeze, Giappone, 2021, 134’) – A distanza di nove anni dal grande disastro del Tohoku, il detective Tomashino si trova alle prese con un caso di omicidio seriale che lo riporta a quei giorni nefasti. Una critica al sistema amministrativo nipponico racchiuso in un thriller mozzafiato, diretto dal regista di culto Takahisa Zeze. Anteprima europea

Lunedì 11 aprile 2022
15:00 The Way Back In The Mirror (Yu Zhou, Cina, 2021, 96’) – Nella Guangzhou del XXI secolo, Xu deve affrontare le difficoltà della vita che gli serviranno da insegnamento per il futuro. La forza di un uomo che, nonostante le avversità della vita, riesce a guardare oltre e a superare ogni ostacolo. Anteprima europea
17:00 The Wheat (Tang Yu-qiang, Cina, 2021, 96’) – Nella Cina rurale, una donna, lasciata sola dal marito, trasferitosi nella megalopoli per lavoro, si rifugia tra le braccia di un uomo sposato. La dispotica moglie di lui farà di tutto per separarli, non pensando però alle conseguenze. Anteprima europea
18:45 Love After Love (Ann Hui, Hong Kong, 2020, 144’) – La giovane ed umile Ge Weilong decide di andare a trovare la zia benestante ad Hong Kong sperando di ottenere un aiuto economico per continuare i suoi studi; l’incontro tra questi due mondi non sarà così facile.
21:15 Anita (Lok Man Leung, Hong Kong, 2021, 137’) – Tra grandi successi, attivismo, incontri e difficoltà, la storia della celebre attrice e cantante pop Anita Mui raccontata in un’opera biografica intensa e toccante.  Anteprima europea

Martedì 12 aprile 2022        
15:00 The Falls (Chung Mong-hong, Taiwan, 2021, 129’) – Durante la pandemia, la relazione tra una madre e la figlia adolescente diventa quantomai tesa quando si trovano a dover passare insieme la quarantena nel loro appartamento. Costrette tra quattro mura, avranno modo di riflettere sul loro rapporto passato e presente. The Falls è stato scelto per rappresentare Taiwan agli Oscar 2022. Anteprima italiana
17:15 The Brokers (Daniel Palacio, Filippine, 2021, 107’) – Daniel Palacio ci trasporta in una Manila al centro di intrighi, affari e potere, che sarà lo sfondo per la vicenda di un giovane agente immobiliare, disposto a tutto per salvare la propria carriera. Anteprima europea
19:15 Resbak (Brillante Mendoza, Filippine, 2021, 105’) – La vita del giovane Isaac si intreccia in una lotta per la sopravvivenza a suon di rap battle. Sullo sfondo delle elezioni del Sangguniang Kabataan, Brillante Mendoza lancia una forte critica alla malavita e alla corruzione politica presente nelle Filippine. Anteprima europea
21:15 Gensan Punch (Brillante Mendoza, Filippine, 2021, 110’) – Diretto dal pluripremiato Brillante Mendoza, il film è liberamente ispirato alla storia vera di  Nao, un pugile giapponese mutilato, fin dalla nascita di una gamba. Combattivo sia sul ring che nella vita, egli farà di tutto pur di poter praticare la disciplina dei suoi sogni. Anteprima europea

 Mercoledì 13 aprile 2022
15:00 Tion Bahru Social Club (Tan Bee Thiam, Singapore, 2020, 88’) – Il trentenne Ah Bee vive una vita monotona con la madre. Dopo essere stato licenziato, si iscrive al Tiong Barhu Social Club per riorganizzare la sua esistenza. Ben presto egli scoprirà che sotto la patina del progresso, qualcosa non sta andando per il verso giusto.  Anteprima italiana
16:45 On the Job, the Missing 8 (Erik Matti, Filippine, 2021, 204’) – Dopo 8 anni Erik Matti realizza il sequel di “On the job” (2013). Un thriller poliziesco che attraverso gli occhi di personaggi ben definiti, mostra verità che la stampa spesso omette. Un film tratto da eventi realmente accaduti che porterà gli spettatori in un viaggio tra politici gangster, giornalisti corrotti e detenuti sicari.
20:45 Cerimonia di premiazione, a seguire The Great Yokai War Guardians (Takashi Miike, Giappone, 2021, 118′) – Folclore giapponese e Takashi Miike, una garanzia per il successo. Battaglie, nuove amicizie, coraggio ma soprattutto la famiglia saranno la cornice e lo stimolo di una grande forza interiore. Anteprima europea
23:00 Late Night Ride (Koh Chong Wu, Singapore, 2021, 80’) – Cosa potrebbe andare storto quando si fa un giro a tarda notte? Tre storie, a bordo di tre mezzi di trasporto differenti, si intrecciano tra di loro, in un horror ambizioso che tiene lo spettatore con il fiato sospeso. Anteprima europea