Il vuoto incolmabile di un figlio perduto – “I barattoli della memoria” e il sostegno al lutto perinatale – intervista

Il vuoto incolmabile di un figlio perduto – “I barattoli della memoria” e il sostegno al lutto perinatale – intervista

Il vuoto incolmabile di un figlio perduto – “I barattoli della memoria” e il sostegno al lutto perinatale – intervista

La perdita di un figlio, a prescindere dall’età, è sempre un evento sconvolgente nella vita di un genitore. Ancor di più quando questo lutto si verifica durante la gravidanza da cui si aspetta la vita e invece, ci si ritrova bruscamente a dover interagire  con l’esperienza del vuoto e della morte.

 

Cos’è il lutto perinatale è un’esperienza traumatica che si vive quando si perde un bambino durante la gravidanza, durante il parto o dopo la nascita. È un evento che segna le famiglie che lo vivono e che può avere delle conseguenze sulla salute dei singoli genitori e sulla coppia. L’interruzione del progetto di genitorialità si ripercuote in maniera diversa tra il padre e la madre. Se la madre deve confrontarsi con l’assenza del vuoto dopo essere stata per quel bambino custode e culla, anche il padre seppur parta da un vissuto differente, non vive un dolore meno intenso; anzi, la donna ha avuto nove mesi per abituarsi all’idea di diventare genitore, ha persino i segni fisici di una gravidanza addosso, un papà invece, prende consapevolezza nello stesso istante della nascita e della morte del suo bambino facendosi carico, con un certo senso di impotenza sia della vita spezzata, che del dolore della compagna.

Un figlio perduto lascia un vuoto incolmabile ed insostituibile. È dunque fondamentale affrontarlo, parlarne, liberare dolori e pensieri, confrontarsi e non temere il giudizio degli altri.

Lo sanno bene i volontari dell’associazione “I barattoli della memoria” di Cassano Magnago (VA) che operativi sul territorio dal 2017 offrono supporto a coloro che hanno vissuto questo lutto, indicando quale strada percorrere per ritrovare la luce. L’associazione nasce dall’esperienza diretta dei suoi fondatori che per primi hanno imparato sulla loro pelle quanto sia utile trovare supporto e quanto sia impossibile affrontare un dolore così forte da soli.

Abbiamo parlato con Diana Pasin, vicepresidentessa dell’associazione varesina, che ha raccontato a noi quanto il peso delle parole sia importante e di come sia possibile sopravvivere al dolore.

 

 

INTERVISTA

 

Quando nasce l’associazione “i Barattoli della memoria” e cosa vi ha spinto a creare tale associazione?

“Dopo aver perso la nostra bambina nel 2014, io e mio marito decidiamo di intraprendere un percorso psicologico. Durante questo percorso incontriamo altre cinque coppie che come noi stavano affrontando lo stesso dolore e conoscendoci, ci siamo resi conto di quanto ci sentissimo liberi di parlare con qualcuno che poteva davvero capire quello che stavamo vivendo. Questo nostro parlare ci faceva stare bene, così pensammo “se parlare ha fatto così bene a noi, quante persone potremmo aiutare se consentissimo anche agli altri di poterlo fare?”. Nasce così “i Barattoli della memoria”, fondata da coppie per le coppie, ma aperta a tutti quei volontari che vogliono offrire il proprio aiuto. Non forniamo direttamente alcun aiuto medico o psicologico, siamo semplicemente coppie che tramite l’ascolto e la condivisione si aiutano a vicenda ad affrontare e superare questo dolore”.

Da quante persone è composta la vostra associazione? Avete anche associati o volontari? Come è strutturata gerarchicamente?

“L’associazione è stata fondata da me, mio marito e da altre cinque coppie che hanno condiviso con noi il percorso psicologico post-parto. Si può aderire tramite tessera e una quota associativa annuale simbolica (euro 10). Attualmente contiamo un centinaio di tesserati”.

Da dove nasce il nome dell’associazione? 

“Il nome “i Barattoli della memoria” prende spunto dagli statunitensi Memory Jar, dei contenitori usati per conservare i ricordi legati ad una vacanza, ad un avvenimento importante o ad un anno specifico. Noi abbiamo voluto fare lo stesso. Creare un barattolo da riempire di ricordi dei bambini volati in cielo ma il nostro barattolo – come quello presente sul logo- è aperto, perché lasciato libero di essere colmato di nuovi ricordi e di nuove esperienze ad esso legate”.

Quale tipo di supporto offrite alle coppie che richiedono la vostra consulenza? Come avviene l’incontro?

“L’obiettivo della nostra associazione è di aiutare tramite il dialogo e la condivisione le coppie a superare il lutto nella piena e totale libertà di sentirsi finalmente capiti da chi questo dolore lo conosce e lo ha vissuto sulla propria pelle. Perché ammetto che è difficile parlarne fuori, le persone faticano ancora ad accostare la parola “morte” alla parola “neonato” e questo le fa cadere talvolta, anche in buona fede in domande o risposte che non fanno altro che ferire chi questo dolore lo vive quotidianamente. Le coppie del circondario (perché siamo una realtà territoriale) ci contattano tramite social o tramite mail oppure tramite i recapiti forniti dagli ospedali e psicologi varesini. Dopodiché organizziamo gli incontri scegliendo coppie che hanno storie simili. Ci incontriamo nel nostro salottino e iniziamo a raccontarci”.

Hai avuto supporto o ostruzionismo da parte delle istituzioni nella realizzazione di questo progetto?

“La mia esperienza è stata positiva, ho sorprendentemente trovato tanta collaborazione e comprensione dalle istituzioni sia a livello burocratico che a livello istituzionale. Ricordo che all’inaugurazione dell’associazione erano presenti il primario e le ostetriche dell’ospedale di Gallarate, il ginecologo e gli psicologi della zona tutti interessati a conoscere meglio questo fenomeno”.

Quanto è stato importante per te affidarti ad percorso psicologico nel superamento del dolore?

“Fondamentale. Ho desiderato il percorso psicologico fin da subito appena uscita dall’ospedale. Ogni coppia si rialza in modo diverso, nel mio caso di aiuto è stata la fede. Io consiglio di rivolgersi ad un professionista, perché a volte si ha l’illusione di aver passato il trauma, di esserne usciti ma in realtà se non viene affrontato se non si impara ad elaborarlo nella maniera corretta questo continuerà sempre a ripresentarsi anche a distanza di anni”.

Secondo te, la mancanza di un percorso può intaccare la solidità di una coppia che affronta questo dolore?

“Non è detto che il percorso psicologico salvaguardi dalla rottura del matrimonio. I fatti vissuti e le emozioni provate sono estremamente soggettive, ci sono troppe variabili per poter definire una regola”.

Come dovrebbe comportarsi la famiglia invece?

“Ci sono coppie che si sono avvicinate molto alla propria famiglia dopo questa esperienza, io invece ho voluto chiudermi in me stessa. Non esiste un manuale d’istruzioni per le famiglie, credo che l’unica cosa che si possa fare è dimostrare vicinanza senza che questa diventi invadenza, sarà poi la coppia quando si sentirà pronta a cercare il loro aiuto”.

In base alla tua esperienza e al tuo percorso che consiglio daresti a chi sta affrontando questo dolore?

“Direi di non nascondere il dolore, non fare finta che non sia mai successo ma affidarsi ad uno specialista, imparando a vivere tutte queste emozioni, senza però rimanerne intrappolati. Esternarle e poi andare avanti, perché dal dolore ci si può rialzare e perché dalle esperienze negative si può sempre imparare”.

Ci sono coppie che, dopo un lutto perinatale, decidono di avere altri bambini: come si racconta agli altri figli?

“Una delle nostre coppie aveva già una bambina e lei si è affidata ad un percorso psicologico su come comunicarle la notizia. Io invece ho avuto figli dopo, e nonostante avessimo potuto tacerglielo abbiamo deciso di fargli sapere che prima di loro c’era una bambina che adesso è in cielo con Gesù. Abbiamo ritenuto che fosse giusto così, perché un bambino percepisce il dolore dei genitori… ma non esiste un modus operandi comune, è necessario però chiedere aiuto, perché senza il giusto supporto questo dialogo può diventare rischioso”.

 

 

Elaborare un lutto di questo tipo non significa in alcun modo dimenticare il bambino scomparso, ma imparare a collocarlo nel posto giusto della propria storia personale, riuscendo ad utilizzare i ricordi per restituire dignità e memoria a quella vita interrotta in maniera così prematura. E quando ci si rende conto che gli affetti non bastano, occorre sapere di poter fare affidamento sui gruppi di auto-mutuo-aiuto, in cui confrontarsi con chi ben conosce il sapore di quelle lacrime, oppure ricorrendo a professionisti specializzati che possano accompagnare i genitori e la famiglia ad integrare la perdita con un possibile sguardo sul futuro.

Per saperne di più è possibile visitare il loro sito internet a questo link

e-mail: ibarattolidellamemoria@gmail.com

facebook: I Barattoli Della Memoria (facebook.com)

 

Nicole Prudente

Laureata in scienze della comunicazione, ho acquisito esperienza nel campo digital e ufficio stampa. Curiosa per natura, testarda di carattere e scrittrice nel sangue. Scrivere per me è un impulso a cui non so resistere.

La forza della squadra contro il “Covid-19”: la storia del Rolling Goat

La forza della squadra contro il “Covid-19”: la storia del Rolling Goat

La forza della squadra contro il “Covid-19”: la storia del Rolling Goat

Che cosa ne è stato del mondo della ristorazione in questo 2020? Com’è stato dover alzare e abbassare la serranda non sapendo mai che cosa sarebbe successo il giorno dopo? Lo abbiamo chiesto a Claudio, Emanuele e Richard, i proprietari del Rolling Goat di Cassano Magnago.

Sono passati oltre nove mesi da quando le serrande dei negozi si sono abbassate la prima volta a causa della pandemia. Nove mesi dal lockdown, dieci dal primo caso accertato di “Covid-19” in Italia. Eppure siamo ancora nella stessa difficile situazione di incertezza: guardiamo il domani e non sappiamo che cosa succederà, usciamo da un locale e non sappiamo se potremo tornarci prima del 2021.

Questo 2020 ha messo tutti in difficoltà e ha obbligato a rivedere delle scelte, a rimettere in discussione quelli che in inglese vengono definiti i Business Plan, a cercare il modo di reinventarsi, tirando, come si suol dire, a campare in attesa di tempi migliori. Per capire meglio com’è andato questo 2020 nel mondo della ristorazione abbiamo chiesto a Claudio CattaneoEmanuele Eriani e Richard Temporiti (rigorosamente in ordine alfabetico), i “ragazzi del Rolling Goat”, un pub, una birreria, un piccolo angolo di pace “liquida” a Cassano Magnago, in provincia di Varese. Li chiamiamo ragazzi perché sono giovani, non per sminuire quella che, a tutti gli effetti, è una delle realtà più interessanti (e lungimirante) nel mondo della ristorazione del varesotto.

Avevamo tanti sogni nel cassetto, tante idee, tanti progetti per questo 2020”, ci racconta Richard. “Avevamo appena rifatto la cucina, la cella, gli impianti e poi è arrivato il “Covid-19”. È stato uno schiaffo che ha colto tutti impreparati. Ci ha obbligato a rivedere tutto e ci ha costretti a reinventarci. In un paio di giorni quello che era il nostro lavoro non era più lo stesso”.

Reinventarsi, la parola chiave del 2020, soprattutto per realtà come la vostra. Come avete reagito?
Non è stato semplice, ci siamo trovati catapultati in un mondo sconosciuto per tutti da un giorno all’altro – ci spiega Emanuele –, tra norme che cambiavano quotidianamente e restrizioni sempre più accentuate. Sarebbe stato facile lasciarsi andare, cercare di vendere i nostri prodotti il più rapidamente possibile, magari con offerte quasi a prezzo di costo, pur di rientrare delle spese, ma noi non l’abbiamo fatto. Anche con le spalle al muro abbiamo deciso di non piangerci addosso. Ci siamo guardati in faccia e abbiamo deciso di mantenere i nostri impegni, di continuare a proporre quello “stile Rolling Goat” basato sulla qualità del prodotto che in questi anni ci ha fatto togliere diverse soddisfazioni”.

Aperture ordinarie, aperture a pranzo, chiusure anticipate, un nuovo servizio d’asporto…
Non è stato semplice cambiare format, ma quello che è stato ancora più difficile è stato comunicare tutti questi cambiamenti ai clienti – racconta Claudio –, sapevamo letteralmente la sera prima quali sarebbero stati gli orari del giorno dopo. L’incertezza non ha aiutato, noi abbiamo cercato di essere il più chiari possibile. Abbiamo aperto a pranzo, lanciato il delivery…”.
“È inizialmente è andato bene – 
spiega Emanuele –, i clienti venivano in pausa pranzo, ci sostenevano, forse attratti da fascino della novità. Poi, come c’era da aspettarsi, il tutto è andato un po’ scemando”.
“Alla fine aprire a pranzo non è “nostro” – 
continua Richard – noi siamo un pub, una realtà serale dove venire a socializzare. Non abbiamo messo nemmeno la televisione, proprio per rispettare questo nostro concept. Ci siamo “riadattati”, abbiamo reinventato il possibile, ottimizzato il sito internet, creato un buon servizio d’asporto, ma non noi non siamo un ristorante. Possiamo dire di esserci reinventati, ma sempre seguendo la nostra linea…Non dobbiamo dimenticare chi siamo. Siamo un pub, tutto quello che viene in più, come l’e-commerce deve essere qualcosa in più, un’estensione, non il core business. Alla fine il punto è questo: fai ciò che sai fare meglio”.
“La parte più difficile – 
conclude Emanuele – è stata proprio quella comunicativa. Noi, anche in questo caso, abbiamo optato per la chiarezza: inizialmente a livello di orari, con tabelle chiare e aggiornate, e poi a livello di regole. Abbiamo sempre specificato a tutti i clienti che cosa si potesse fare e cosa no”.

Avete avuto un punto di vista (sfortunatamente) privilegiato su questa pandemia. Come avete visto le persone durante le due chiusure e cavallo tra di esse?
Durante il primo lockdown – sottolinea Claudio – le persone erano più spaventate nell’ordinare d’asporto. Temevano il contatto umano, ti accoglievano con guanti, mascherine, mantenendo ben oltre i due metri di distanza. Durante la zona rossa, invece, non era più così. Forse la stanchezza, forse la frustrazione, ma quella paura di marzo non c’era più…”.
“E non c’è stata nemmeno a cavallo dei due 
lockdown”, ci spiega Richard. “Basti pensare che abbiamo registrato, tra giugno e settembre un aumento del fatturato di oltre il venti per cento. Probabilmente le chiusure e le limitazioni hanno fatto venir ancora più voglia di bere, di divertirsi e di recuperare il tempo perduto. Non è stato semplice fare rispettare tutte le regole durante l’estate. Noi siamo stati il più possibile ligi al dovere, tra mascherine, posti distanziati e servizio rigorosamente al tavolo. Ci siamo anche ritrovati a chiudere prima del previsto di nostra iniziativa quando vedevamo che la serata iniziava a salire di giri e far rispettare le regole diventava complicato. A livello economico non era vantaggioso, ma era giusto.
Quando ci siamo dovuti fermare ancora a settembre provavamo astio, soprattutto nei confronti di altre realtà che hanno scelto di non rispettare i regolamenti, come abbiamo visto non solo a livello locale chiaramente. Magari se si fosse fatta più attenzione…”.

Capitolo economico: i ristori promessi sono arrivati?
“Dobbiamo essere molto onesti a riguardo: tutto quello che ci è stato promesso è arrivato”, dice Richard. “Dal bonus per le partite Iva, il rimborso dell’affitto come anticipo delle tasse, la cassa integrazione, il nuovo bonus del secondo lockdown – che ci è arrivato senza nemmeno doverne fare richiesta –, insomma, è arrivato tutto. Non abbiamo mai fatto polemica: ci siamo trovati in una situazione nuova per tutti e lo Stato ha scelto la salute prima dell’economia, possiamo comprendere la decisione…”
“Si poteva fare meglio?”, 
aggiunge Claudio. “Forse. Ma le promesse fatteci sono state mantenute”.

Quanto avete perso in questo 2020?
Adesso siamo aperti tre sere a settimana per l’asporto e in tre sere non facciamo i numeri di un normale venerdì sera prima della pandemia…”, risponde Emanuele.

Alla riapertura di giugno vi siete presentati con una novità: il formato unico di birra.
Ci tengo a precisare che non è stato per la pandemia. Era un’idea che avevamo in cantiere già da tempo”, ci spiega Claudio. “Il dubbio che avevamo era quanto potesse attecchire un formato unico, la birra da 0,3 definita in gergo “pinta romana” in questa zona. Temevamo che la clientela non capisse, ma invece ha risposto con entusiasmo…”.
“E questa scelta ci ha permesso anche di tenere bassi i prezzi e portare più persone ad assaggiare i nostri prodotti, a sperimentare nuove birre mai provate e ci siamo potuti concedere anche qualche sfizio, magari qualche birrificio che per prezzi sembrava irraggiungibile all’inizio”, 
aggiunge Richard.

Quali sono stati i tipi di birra più vendute in questi anni?
Le luppolate”, hanno risposto in coro. (Per chi non fosse pratico di birra, oltre a invitarvi ad andarli a trovare, le luppolate sono le birre che in linguaggio meno tecnico sono le “amare”, le IPA, le APA, le English Pale Ale, insomma, quelle birre che, per quanto maltate, avranno sempre il luppolo e il suo amaro a farla da padrone).

Com’è nato il Rolling Goat?
Il Rolling –  ci racconta Claudio –  è nato nel novembre di 4 anni fa, quando tornando a casa in macchina con Simone, il mio ex socio, abbiamo deciso di aprire un bar. Poteva sembrare una delle tante chiacchiere che si fanno tanto per, ma non lo era. Abbiamo cercato una location con un buon potenziale. Eravamo quattro soci, dopo un annetto gli altri tre hanno optato per altre strade. Richard ed Emanuele hanno deciso di scommettere su questa realtà e…beh, il resto è storia.
All’inizio – prosegue – non sapevamo che cosa sarebbe successo, come sarebbe andata, ma avevamo un’idea chiara in testa: fornire prodotti di qualità. I modi, le possibili iniziative che ci balenavano in mente erano molte, e molto diverse. Non è semplice decidere di investire sulla birra artigianale in una realtà come Cassano Magnago, i rischi sono molti, ma se c’è una cosa di cui sono orgoglioso è che in questi anni non siamo mai scesi a compromessi, specialmente sulla qualità
Adesso siamo in sette. Noi tre soci e quattro collaboratori. Un’ottima base”.

Scenario ideale: dal primo gennaio non ci sono più limitazioni e le aperture tornano quelle di una volta. Quali sarebbero gli obiettivi per il 2021?
La prima cosa che mi verrebbe da dire – spiega Richard – è di tornare alla normalità. Ma tornare semplicemente ai livelli del 2019 non sarebbe una vittoria. La vera vittoria sarebbe riuscire a crescere, a recuperare tutto e a ripartire da dove avevamo interrotto a febbraio. Dalla nuova cucina, dalla nuova cella, dal nuovo staff…”.
“E inoltre – 
aggiunge Emanuele – abbiamo ancora un quarto compleanno da festeggiare…”.