Appuntamento con Marc Chagall: una passeggiata tra i suoi inconfondibili dipinti

Appuntamento con Marc Chagall: una passeggiata tra i suoi inconfondibili dipinti

Appuntamento con Marc Chagall: una passeggiata tra i suoi inconfondibili dipinti

Cosa rende la pittura di Chagall inconfondibile? L’unico modo per scoprirlo è far parlare i suoi coloratissimi dipinti, via d’accesso a un mondo sofferto e sognante.

Lo scorso 7 luglio si sono spente le 135 candeline dalla nascita di uno dei pittori più longevi della storia dell’arte: Marc Chagall.
Nato a Lëzna nel 1887 da una famiglia di religione ebraica e condizione modesta, fin da subito mostra una vocazione insopprimibile verso la pittura, come egli stesso spiega nell’autobiografia Ma Vie, in cui racconta delle insistenti preghiere alla madre per saltare la scuola e recarsi alla bottega del maestro Yehuda Pen, il solo pittore di Vitebsk. Vedono così la luce i primi “quadretti” che anticipano la lunghissima e prolifica carriera artistica.
Quindi, lasciamo parlare i suoi inconfondibili dipinti, via d’accesso a un mondo sofferto e sognante.

FRAGOLE. BELLA E IDA AL TAVOLO, 1916

All’età di 22 anni “il ragazzo con lo sguardo di una volpe” incontra “la ragazza dalla pelle d’avorio e dai grandi occhi neri” e tra i due scoppia un sentimento che li accompagnerà per tutta la vita. Dal primo momento Bella Rosenfeld diventa musa ispiratrice delle opere dell’artista bielorusso, che sposerà nel 1915. Quel legame puro e totalizzante li solleva da terra, li porta a fluttuare in aria, tanto che Chagall si ritrae spesso in volo con lei – basti pensare a La passeggiata o Sulla città. Il loro amore però affonda le radici nella realtà semplice e autentica della Russia contadina. Lo testimonia Fragole. Bella e Ida al tavolo, che celebra la nascita della figlia e mostra uno stile pittorico decisamente diverso dal solito e più realistico.

LA DANZA, 1928

Ci sono alcuni oggetti che ricorrono nella pittura di Chagall, in particolare il ventaglio, il violino e la pendola. Il primo costituisce un ponte tra la Francia, paese di adozione, e la Russia. Molto in voga negli eleganti ambienti parigini, viene rappresentato con pizzi sofisticati per richiamare la tradizione dei merletti di Vologda. La fama della loro pregevolezza portò all’apertura di numerose fabbriche a San Pietroburgo, dove, non a caso, C. frequentò l’Accademia Russa di Belle Arti. Il secondo omaggia sia gli artisti di strada che popolavano le rues parigine sia la cultura chassidica, nella quale il violinista riveste un ruolo importante in occasione di feste e cerimonie. Il terzo, secondo la religione ebraica, è lo strumento che permette di scandire lo scorrere del tempo, partendo dal microcosmo della propria casa e arrivando poi a misurare il ritmo dell’universo.

 

BUE SCUOIATO, 1947

La drammaticità degli avvenimenti che dilaniano l’Europa negli anni del nazismo spinge Chagall a dare sfogo alle terribili immagini che ossessionano la sua mente. La tematica dell’orrore della guerra trova compiutezza nel Bue scuoiato, in cui il pittore sostituisce al Cristo crocefisso un enorme bue insanguinato e sospeso, a cui fa da sfondo lo scenario notturno di Vitebsk. L’animale rappresenta un ricordo d’infanzia – il nonno era macellaio e lo zio mercante di bestiame – e una memoria della gioventù parigina, trascorsa a La Ruche, vicino al mattatoio.

 

 

 

DOMENICA, 1954

Nel 1910 Chagall si trasferisce a Parigi per entrare in contatto con le personalità più influenti dell’epoca, Picasso e Matisse, e lasciarsi influenzare dalle correnti artistiche d’avanguardia, il Fauvismo e il Cubismo, da cui rispettivamente erediterà l’uso di un colore anti-naturalistico e la tendenza a sovrapporre piani e figure. La città, che consacrerà la sua notorietà, si trasforma in materia onirica, viene dipinta a tinte vivide e brillanti per esaltarne la magia e l’atmosfera fiabesca.

Nessuna Accademia avrebbe potuto darmi tutto quello che ho scoperto divorando le esposizioni di Parigi, le sue vetrine, i suoi musei […]. Come una pianta ha bisogno di acqua, così la mia arte aveva bisogno di Parigi”. (M. Chagall, Ma Vie)

 

L’OROLOGIO, 1956

Le tele di Chagall, traendo ispirazione dalla tradizione folkloristica russa e attingendo all’iconografia ebraica, si popolano di una gran quantità di animali che, spesso, sovrastano i tetti dei villaggi sovietici – lo stesso C. vi saliva per contemplare la sua città dall’alto in solitudine. Tra gli animali più ricorrenti troviamo il gallo, simbolo di potenza e rinascita, ma anche vittima sacrificale alla vigilia dello Yom Kippur, e la capra, allegoria della condizione protetta e intima del focolare domestico. Ne L’orologio il colore supera i limiti della razionalità e diventa veicolo di intense emozioni, che tingono di una sfumatura profondamente malinconica e nostalgica l’intera composizione.

 

Di Ilaria Zammarrelli

Paul Gauguin, l’arte capace di accettare l’inesorabile decorso dell’esistenza umana

Paul Gauguin, l’arte capace di accettare l’inesorabile decorso dell’esistenza umana

Paul Gauguin, l’arte capace di accettare l’inesorabile decorso dell’esistenza umana 

Conosciuto per la bellezza innocente delle sue donne polinesiane, Paul Gauguin seppe coniugare nella sua arte amore per la vita e accettazione della condizione terrena. Punte di spiritualismo e colori vividi descrivono un percorso interiore in costante equilibrio tra sentimento e lucida analisi.

Paul Gauguin ricorre a tre lapidarie domande esistenziali per dare il titolo a ciò che è messa in scena di un ciclo di esistenza universalmente condiviso e al contempo testamento spirituale di un artista.

La lettura, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, comincia a partire dalla sezione destra della tela. È posta una prima domanda: Da dove veniamo? Un bambino dorme, il suo sonno è spensierato e privo di angosce, due donne vegliano su di lui. Poco più indietro, una figura accovacciata si volta con sguardo attonito verso due giovani assorte nel riflettere, forse sul loro destino. Ma ecco che incalza una nuova domanda: Chi siamo? Al centro della scena, un giovane nel pieno del vigore della giovinezza, raccoglie un frutto, carpendo con esso i piaceri della vita. Il balzo è rapido, perché segue immediato un ultimo e più doloroso interrogativo: Dove andiamo? Un’anziana donna tiene tra le mani il volto, la carnagione è spenta, accanto a lei siede una giovane. Forte è il contrasto tra due distinte età della vita. L’anziana tuttavia accetta il proprio destino, futili sarebbero vuote parole consolatorie, la cui inutilità è ben resa dall’uccello bianco che trattiene inesorabilmente tra le zampe una lucertola. Dietro di loro sta Hina, dea lunare polinesiana simbolo di femminilità e vitalistica creatività.

Dodici figure si distribuiscono complessivamente sulla scena di Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? secondo un perfetto equilibrio di disposizione che contrappone e accosta insieme le diverse età della vita.
Sullo sfondo dai toni magico-religiosi si interseca un simbolismo che in parte si rifà a riferimenti biblici. Il giovane al centro coglie un frutto, il suo gesto evoca alla mente quello compiuto da Eva nel giardino dell’Eden. In parte attinge dal primitivismo di realtà incontaminate come la Polinesia e l’isola di Giava, come evidenzia sullo sfondo la figura a petto nudo di Hina.
Realizzata intorno al 1897 su tela, l’opera Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? si configura come una ricerca di spiritualità priva di adesione mimetica alla realtà.
Scrive Gauguin:
«Prima di morire ho trasmesso in questo quadro tutta la mia energia, una così dolorosa passione in circostanze così tremende, una visione così chiara e precisa che non c’è traccia di precocità e la vita ne sgorga fuori direttamente».
L’opera manca di prospettiva geometrica. In primo piano stanno i colori più caldi, un giallo acceso contrasta ai blu, verde e azzurro dello sfondo. Manca il chiaroscuro. La tecnica adottata prende il nome di cloissoniste: zone di colori intensi sono delimitate da nette linee di contorno.

Testamento spirituale di Gauguin, l’opera ne assomma i principali motivi stilistici ed espressivi, summa di un’arte antinaturalisita per eccellenza, precorritrice di Simbolismo, Fauvismo ed Espressionismo primonovecenteschi. Si tratta di un modo di fare pittura marcatamente soggettivistico. Gauguin elabora uno stile che fa del colore uno strumento evocativo di sentimenti ed emozioni. Su quella linea diventata nota come post-impressionismo, l’opera d’arte riproduce la natura non per come è vista, ma per come è sentita dall’autore. Il colore e le immagini diventano esternazione rielaborata dell’interiorità dell’artista, acquistano un potere evocativo capace di esprimere un’acuta sensibilità.

Gauguin desidera evadere dalla società per ritrovare un mondo più puro e incontaminato. Convinto del fatto che la vita moderna arrechi all’uomo un disagio esistenziale, questi ormai assorbito dal caos della modernità, assiste a uno sgretolarsi di ogni rapporto autentico e profondo.
Questa percezione, fortemente sentita dall’artista, ne giustifica la fuga verso una civiltà incorrotta quale era quella della Polinesia.
Nato a Parigi nel 1848, Paul Gauguin trascorre i primi anni della sua infanzia in Perù. Tornato in Europa, ha contatti con l’Impressionismo e stringe in particolare amicizia con Vincent Van Gogh con il quale trascorre un lungo periodo ad Arles. Un rapido susseguirsi di eventi quali la rottura con Vincent, le crescenti difficoltà economiche e la morte della figlia Aline, spingono l’artista a scegliere di abbandonare definitivamente l’Europa alla volta della Polinesia. Qui trascorrerà il resto della propria vita sino al 1903, dove muore nel carcere dell’isola di Hiva Oa, dopo essersi opposto alla politica razzista allora vigente.

Quella di Paul Gauguin è un’arte permeata di simbolismo, evocatività, bisogno di evasione e capacità di riflessione. Un mondo riprodotto con lo sguardo di chi in grado di osservare al di là dell’apparenza, rielabora i contorni della realtà attingendo alla superficie più profonda della propria interiorità.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Abitare i ricordi con Matteo Massagrande: l’arte di mescolare memoria e colori su tela

Abitare i ricordi con Matteo Massagrande: l’arte di mescolare memoria e colori su tela

Abitare i ricordi con Matteo Massagrande: l’arte di mescolare memoria e colori su tela

Le tele di Matteo Massagrande tornano alle origini dell’arte e aprono una finestra su un mondo magico, ma familiare, in cui ritrovare i nostri ricordi più preziosi.

I raggi del sole filtrano tra le vetrate opacizzate dal tempo, il soffitto è sostenuto da spessi rami di alberi secolari, il pavimento maiolicato si srotola come un tappeto rosso per accogliere il più curioso degli esploratori. L’aria è mite e tutt’intorno aleggia un silenzio ancestrale, rotto sporadicamente da un lieve cinguettio o, più in lontananza, dal rumore sordo delle onde del mare.
Generalmente non è facile soddisfare le aspettative di cui si alimenta la nostra immaginazione, ma quando si parla di Matteo Massagrande è tutta un’altra storia.

Il pittore padovano nasce nel 1959 e a soli quattordici anni inizia a esporre in tutta Italia, collezionando una lunga serie di prestigiosi riconoscimenti. Il colore gli scorre nelle vene; i pennelli sembrano prolungamenti dei suoi arti; la pittura per Massagrande è connaturata, naturale e… naturalistica!

Nei suoi dipinti, infatti, la presenza umana è assente, inquilina fantasma di dimore in attesa di una rinascita. Sulla scena resta la natura che abbraccia interni abbandonati, privi di arredi, testimoni di una vita declinata al passato.  Le “stanze emotive” conservano nei muri scrostati, negli infissi consumati e fatiscenti l’impronta di una delicata intimità.

Sono spazi evocativi in cui si mescolano ricordi sbiaditi, intense suggestioni, nostalgie di momenti mai vissuti. M. ci invita a entrare in punta di piedi per ascoltare voci dimenticate, recuperare odori perduti e lasciarci ipnotizzare dai raffinatissimi giochi di luce, vera protagonista delle sue tavole. Pallida, vivida, pulviscolare, si insinua tra le fessure delle abitazioni per spogliarle della dura carica iperrealistica e rivestirle di una morbida patina onirica.

Il ‘perché’ delle mie composizioni nasce da un assoluto bisogno, da un’assoluta ricerca di equilibrio; quella che io chiamo una grande armonia cosmica… Un’armonia segreta che io ho necessità di trasformare in disegno”. (Matteo Massagrande intervistato da Guido Del Turco)

È proprio a causa di tale “armonia segreta” che i trompe-l’œil si concedono alcune licenze prospettiche. Curvature anomale, sprofondamenti dissonanti, rammentano allo spettatore di trovarsi davanti a un’opera pittorica, non certo a una fotografia. Massagrande vaga in cerca dei luoghi da cui farsi sedurre, ne osserva e studia ogni particolare. Senza alcun appiglio fotografico, sceglie e ricostruisce le atmosfere, attingendo dalla propria memoria.

La fotografia è un aiuto molto importante per gli artisti di oggi, ma è sempre molto pericoloso usarla, perché è troppo potente per non incatenare la fantasia del pittore. Può servire per osservare i dettagli, o come promemoria, ma non per dipingere. Una volta visto o individuato un luogo, quasi mai mi accontento di com’è, quindi lo modifico, perché riesca ad emanare quella sensazione che ho provato io nel vederlo, che deve essere più vera del reale”. (Matteo Massagrande intervistato da Luisa Negri)

Inoltre, da cultore e amante della materia, M. si inserisce perfettamente nel solco della tradizione della rappresentazione figurativa. Dalla concezione prospettica rinascimentale a quella danese dell’Ottocento (Vilhem Hammershoi), passando per la scuola pittorica olandese del Seicento (Pieter de Hooch), Massagrande non perde occasione per trarre spunto e lasciarsi ispirare dai grandi del passato.

Ad oggi, l’artista divide la sua attività tra lo studio di Padova e quello di Hajòs, Ungheria. Le sue tele tornano alle origini dell’arte, aprono una finestra su un mondo magico e al contempo familiare, sospeso e immanente. Divertirsi a combinare le sue stanze dipinte ci regala la possibilità di creare interni familiari e personalissimi, capaci di riaccendere i nostri ricordi più preziosi.

 

Di Ilaria Zammarrelli

 

Photo credit: https://www.instagram.com/matteo.massagrande/

Giorgio Morandi nella Galleria Mattia De Luca con “Il tempo sospeso”

Giorgio Morandi nella Galleria Mattia De Luca con “Il tempo sospeso”

Giorgio Morandi nella Galleria Mattia De Luca con “Il tempo sospeso”

Con la mostra Giorgio Morandi, Il tempo sospeso, la Galleria Mattia De Luca prosegue il percorso di esposizioni dedicate a grandi Maestri del Novecento italiano e internazionale.

La mostra, a di Marilena Pasquali, fondatrice e direttrice del Centro Studi Giorgio Morandi di Bologna, è realizzata in collaborazione con il Centro Studi Morandi e con il patrocinio del Comune di Roma e del Comune di Grizzana Morandi. Si articola in due tappe: dal 30 aprile al 2 luglio 2022 nella sede di Roma saranno esposti capolavori dipinti da Morandi nell’arco di quarant’anni, dagli anni Venti ai primi anni Sessanta; in autunno la sede di New York ospiterà un’esposizione antologica ancora più ampia, accompagnata da una ricca selezione di lavori su carta.

Nata da una precisa idea di Mattia De Luca, la mostra mira a restituire puntualmente la parabola artistica del suo autore, attraverso prestigiosi prestiti e depositi da importanti istituzioni (come quelle bolognesi o il Museum für Gegenwartskunst Siegen) e collezioni private.

La sospensione del tempo

La forza eterna dei dipinti morandiani si è trasformata in una costante nei pensieri di De Luca, che ha così sentito l’urgenza di questa esposizione. E così, la sospensione del tempo che si è imposta su tutti con la pandemia, si lega a quella che aleggia sulle opere di Morandi, sulla loro atmosfera, su quella luce peculiare.

La scelta di affidare a Marilena Pasquali – una delle massime esperte dell’opera del pittore bolognese – la curatela, ha così concretizzato una visione e definito questo progetto. Una formula anomala per una galleria, ma che esibisce chiaramente la totale passione per l’arte che muove De Luca nel presentare nel modo più efficace le opere dei mostri sacri che sceglie di esporre.

La mostra romana

Nella mostra romana circa una quarantina tra dipinti e opere su carta ripercorrono il percorso artistico di Morandi, nella volontà di approfondire la conoscenza della sua arte “difficile e segreta”, per parafrasare Cesare Brandi. Il serrato accostamento tra alcune “varianti” morandiane mette in luce nuovi spunti critici, come anche alcuni documenti inediti emersi recentemente dagli archivi di famiglia e integrati al percorso espositivo. Una scoperta che aggiunge dettagli originali sulla vita di un maestro dal percorso unico e rappresenta un importante valore aggiunto al pregio di questo articolato progetto espositivo.

Giorgio Morandi, Il tempo sospeso vuole valorizzare la figura di Morandi come uomo e artista saldamente ancorato al ventesimo secolo: un uomo che ha vissuto due guerre mondiali e provato il peso della disillusione, la perdita di riferimenti, la sconfitta di ogni credo. Per arginare la deriva dell’umano il pittore ricerca un ordine mentale, un’armonia della forma, una materia che si fa luce, senza tuttavia cancellare il brivido del dubbio che si ritrova in ogni sua immagine, trasformato in attesa, sospensione.

 

La curatrice Marilena Pasquali definisce così la forza dell’arte di Morandi:

“Mettere il reale tra parentesi per riuscire a viverlo. Prendere le distanze dal mondo per poterlo abitare, per accettarlo senza perdere autonomia di pensiero e umanità di comportamento. Sostenere l’importanza della sospensione, la necessità dell’attesa, il bisogno di distacco.

E continua: 

Raramente un artista ha saputo trasmettere tutto questo – ragione e sentimento fusi insieme – come ha fatto Giorgio Morandi con le sue composizioni di oggetti, i suoi scorci di natura, i suoi fiori di seta, immagini in apparenza così “neutrali” e in realtà così forti, così vuote di uomini e così colme di umanità. Morandi è artista “sull’orlo”, sempre in equilibrio sulla soglia di un tempo e di un mondo che stanno cambiando a grande velocità, e come tale oggi è più che mai necessario, in questo tempo difficile e sempre più veloce, inafferrabile e spesso incomprensibile”.

A corredo del progetto espositivo di Roma e New York, verrà pubblicato un catalogo con saggi della curatrice e di altri studiosi, letterati, artisti, e che raccoglierà anche le immagini di entrambe le mostre, i documenti inediti e le testimonianze sulla vita e l’opera di Giorgio Morandi studiati e analizzati appositamente per questo progetto.

Torquato Tasso: l’arte come argine della follia

Torquato Tasso: l’arte come argine della follia

Torquato Tasso: l’arte come argine della follia

Torquato Tasso nasce a Sorrento l’11 marzo 1544. La ricerca di uno stile meraviglioso e la necessità di esprimersi hanno caratterizzato la vita di questo straordinario poeta, animato da un profondo tumulto spirituale e dal costante bisogno di approvazione.

La vicenda biografica di Torquato Tasso, nato a Sorrento da padre bergamasco e madre toscana l’11 marzo 1544, è segnata, come noto, da alcuni eventi che, scadendo spesso nel mito, hanno fomentato (se non esasperato), la sua fama di folle e lunatico, nonché di maniacale revisore del suo poema dalle tinte ombrose, emblema di un Rinascimento splendente destinato oramai al tramonto. 

La Gerusalemme Liberata, la cui stesura impegna Torquato Tasso dalla tenera età di quindici anni (un primo stralcio del futuro poema eroico è intitolato Gerusalemme, 1559) e giunge ad un primo compimento durante il felice periodo ferrarese (entro il 1575 circa), gioca sull’opposizione fra bene e male, incarnati rispettivamente dalle forze cristiane e quelle pagane. 

La scelta di stendere un poema epico che abbia come argomento le vicende della prima crociata, conclusa come noto con la conquista della città di Gerusalemme nel 1099, è il frutto di un profondo lavorio teorico circa la materia da trattare in poesia: le riflessioni del Tasso sono raccolte nei Discorsi sull’arte poetica. Scrive infatti il Tasso:

La materia, che argomento può ancora comodamente chiamarsi, o si finge, ed allora par che il poeta abbia parte non solo ne la scelta, ma ne la invenzione ancora; o si toglie da l’istorie. Ma molto meglio è, a mio giudicio, che da l’istoria si prenda; perché dovendo l’epico cercare in ogni parte il verisimile (presupongo questo, come principio notissimo), non è verisimile ch’una azione illustre, quali sono quelle del poema eroico, non sia stata scritta, e passata a la memoria de’ posteri con l’aiuto d’alcuna istoria.

L’argomento può essere completamente inventato oppure tratto dalla storia. Dovendo cimentarsi con un poema epico ed eroico, scrive Tasso, sarebbe opportuno tirare l’argomento dai fatti passati e realmente accaduti in quanto degni di nota, nonché di essere rimaneggiati. 

Se la storia è maestra di vita, come afferma Cicerone nel De Oratore, è anche vero che il poeta, in qualità di specialista della parola, ha la licenza di operare alcune migliorie sul piano formale e retorico al fine di risultare più efficace, senza tuttavia cambiare il significato universale del fatto in sé:

Poco dilettevole è veramente quel poema, che non ha seco quelle maraviglie, che tanto muovono non solo l’animo de gl’ignoranti, ma de’ giudiziosi ancora […] deve il giudizioso scrittore condire il suo poema; perché con esse invita ed alletta il gusto de gli uomini vulgari, non solo senza fastidio, ma con sodisfazione ancora de’ piú intendenti.

In poche parole, la materia del poema epico e eroico deve necessariamente essere storica (avere un riscontro nei fatti passati) e verosimile (materia tratta dal passato ma soggetta a licenze di natura poetica in virtù dell’inventio del poeta). La verosimiglianza del poema non può rinunciare alla bella forma e al gentile ornamento che invita alla lettura, alla variatio delle situazioni e personaggi che inducono i lettori stessi alla catarsi estetica (per dirla alla Croce). 

La complessa personalità di Torquato Tasso si manifesta già alla fine del felice periodo ferrarese: non solo aggredì con un coltello un servo della corte estense da cui si sentiva spiato, ma dopo un periodo di confinamento presso il convento di San Francesco di Ferrara, peregrinò per la penisola, per poi ritornare nella città estense dove, in occasione del matrimonio fra il duca Alfonso d’Este e Margherita Gonzaga, venne arrestato e incarcerato nell’ospedale di Sant’Anna a causa di un eccesso d’ira. 

Tale personalità di difficile inquadramento, tale squilibrio incline ad una follia scalpitante viene magistralmente riassunto da una ottava della Gerusalemme Liberata:

Or mentre in guisa tal fera tenzone

è tra ’l Fedele esercito e ’l Pagano,

salse in cima alla torre ad un balcone

e mirò, benché lunge, il fier Soldano,

mirò, quasi in teatro, od in agone,

l’aspra tragedia dello stato umano:

i vari assalti e ’l fero orror di morte,

e i gran giochi del caso e della sorte.

Nell’ottava 73 del ventesimo canto del poema tassiano Solimano, il valoroso sultano di Nicea che muore per mano di Rinaldo, dall’alto di una torre di Gerusalemme ammira l’atroce scontro fra i cristiani e gli infedeli: l’amarissima constatazione de “l’aspra tragedia dello stato umano” ben esemplifica la fragilità di un destino individuale appeso ad un filo sottilissimo: vista dall’alto, tutta l’umanità, sia cristiani che pagani, sembra insensatamente violenta, destinata ad una fine tragica. 

Ma Tasso stesso visse una vita all’insegna della tragedia: dopo la scarcerazione, cominciò un ennesimo periodo di peregrinazioni nervose per tutta Italia, assillato dalla revisione del suo poema e dalla ricerca dell’unità di azione, dello stile magnifico e adatto ad un poema eroico. Abbattuto dalla pubblicazione del suo poema senza la sua autorizzazione durante la sua incarcerazione, durata ben sette anni, Tasso, nonostante la grande notorietà acquisita grazie alla Gerusalemme Liberata, si sentiva incompreso sia dagli umanisti che dai signori italiani. 

Il riferimento alla tragedia nell’ottava 73 sottende un chiaro bisogno di essere ascoltato: è un verso riassuntivo che rimarca la necessità di pubblico da parte di Tasso e l’intento di mostrare e cantare la tragicità della condizione umana; quella stessa tragicità che ha caratterizzato la sua biografia, all’insegna di un profondo tumulto spirituale e interiore. 

La ricerca dello stile magnifico, adatto al poema eroico, è ricerca dell’arte, della perfezione del ritmo poetico e del tessuto sonoro: con buona pace della fanbase ariostesca, Tasso non solo ha raggiunto altissimi livelli di compenetrazione fra suono e ritmo, fra poesia e immagine, ma l’arte poetica stessa diventa al contempo espressione e argine, medicina della follia tragica che caratterizza la sua esistenza. Si veda ad esempio l’ottava 19 del canto settimo:

Sovente, allor che su gli estivi ardori

giacean le pecorelle all’ombra assise,

nella scorza de’ faggi e degli allori

segnò l’amato nome in mille guise,

e de’ suoi strani ed infelici amori

gli aspri successi in mille piante incise,

e in rileggendo poi le proprie note

rigò di belle lagrime le gote.

La celebre vicenda di Erminia, principessa di Antiochia e prigioniera in un primo momento del valoroso Tancredi, la quale ricerca lievità presso i pastori dalle sue pene amorose, ha ampiamente colpito l’immaginario dei lettori e artisti: l’amato nome di Tancredi che viene inciso sulle cortecce è un iniquo compenso per un amore che non troverà mai soddisfazione, un modo per perpetuare il ricordo del valoroso cavaliere cristiano. Il culmine patetico raggiunto in questa ottava è il perno della messa in scena della tragedia umana di Erminia, inseguita dall’amato non per amore, e archetipo ideale della tragedia di una passione non ricambiata. 

Torquato Tasso muore poco prima di essere incoronato poeta, nell’aprile del 1595, e viene sepolto presso il convento di Sant’Onofrio sul Gianicolo, a Roma. Per molto tempo la sua tomba giacque senza una lapide che la rendesse riconoscibile: grazie alle lagnanze di alcuni letterati, fra i quali Giovan Battista Marino, solo in seguito si procedette alla costruzione di un monumento funebre al celebre cantore della Liberata, strenuo testimone del tramonto di un’epoca.  

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.