“Il barone rampante” e il coraggio di essere liberi

“Il barone rampante” e il coraggio di essere liberi

“Il barone rampante” e il coraggio di essere liberi

Il barone rampante, romanzo pubblicato da Italo Calvino nel 1957, ripercorre la vita straordinaria di un bambino che rinuncia alla normalità e sceglie di essere pienamente libero. 

Siamo incoerenti per tutta la vita. Viviamo di rimorsi e di rimpianti, di scelte che “forse non dovevo fare”. C’è chi vive sempre nello stesso posto, che guarda il mondo dal medesimo punto di vista ogni singolo giorno. C’è chi un altro punto di vista non lo vuole neppure conoscere, perché va bene così, non serve cercare altro. Ci si sveglia la mattina e si seguono regole implicite, che contrastano l’originalità e ci costringono a vivere la vita così com’è.
Ci sono persone che s’illudono di essere folli soltanto perché hanno cambiato città, rimanendo con i piedi ben piantati per terra. Spesso si crede che rischiare, trasgredire equivalga a sposare un’originalità che non gli appartiene poi così tanto. Ci sono gli abitudinari, ci sono i trasgressori che provano a essere folli.

E poi c’è chi non fugge dalla realtà, ma assume soltanto un punto di vista nuovo, inedito e, soprattutto, coerente nella sua originalità: Cosimo, il protagonista de “Il barone rampante” di Italo Calvino. Il romanzo viene pubblicato nel 1957 e Calvino dà prova ancora una volta del suo inarrivabile talento. Uno scrittore che cerca di comprendere la realtà attraverso la fantasia. Una fantasia verosimile e distante al tempo stesso.

Cosimo ha 12 anni, ma una personalità che gli altri costruiscono a fatica per una vita intera. Non rinuncia alla realtà, alla vita e alla sua famiglia. Rinuncia alle regole che muovono la vita sociale e familiare, troppo rigide e restrittive. Rinuncia alla normalità, a essere un uomo tra gli uomini. Cosimo vuole osservare il mondo da una prospettiva diversa, privilegiata ma anche estremamente faticosa. Per comprendere meglio leggiamo insieme l’incipit:

Fu il 15 giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi.

“Per l’ultima volta.” Il lettore si chiede cosa voglia dire Biagio, fratello minore di Cosimo e narratore del romanzo. Egli guiderà la nostra lettura, ci accompagnerà in un viaggio di cui non è il protagonista, ma solo lo spettatore. Biagio è l’esatto opposto di suo fratello. Biagio è tutti noi, esseri umani ordinari che vivono una vita ordinaria. Biagio guarda Cosimo dal basso e Cosimo guarda tutti gli altri dall’alto.

Cosimo, un giorno come tanti altri, seduto a tavola con la sua famiglia, respinge un piatto di lumache, disubbidisce e se ne va. Sale su un albero, intenzionato a non scendere.

Nostro padre si sporse dal davanzale. – Quando sarai stanco di star lì cambierai idea! – gli gridò.
– Non cambierò mai idea, – fece mio fratello, dal ramo.
– Ti farò vedere io, appena scendi!
– E io non scenderò più! – E mantenne la parola.

Il capriccio si trasforma in uno stile di vita. Un bambino di 12 anni decide di trasformare una condizione temporanea nella sua casa. Una casa priva di pareti.

Cosimo vive sul ramo di un albero e riesce a vedere il mondo da un punto di vista diverso, per cercare di comprenderlo e accettarlo. Guarderà i suoi genitori e suo fratello dall’esterno. Una scelta folle, libera e coraggiosa. Una scelta coerente, che gli permetterà di vedere la realtà con occhi diversi, cogliendo tutte le sfaccettature invisibili sulla terra. Cosimo vive tra cielo e terra, tra realtà e fantasia.

Forse qualche volta per comprendere la realtà che ci circonda vorremmo soltanto guardarla dall’esterno, pur facendone parte. Non riusciamo a capire quello che viviamo perché siamo coinvolti pienamente. Non siamo coraggiosi abbastanza, non sappiamo neppure come sperimentare quel coraggio che ci renderebbe liberi, anche solo per un po’.

Cosimo ci insegna a scegliere di scegliere, a non accettare passivamente, a ribellarci. Una forma di ribellione, la sua, inverosimile per noi, ma che rappresenta la metafora di uno stile di vita libero da condizionamenti.

Cosimo non è un eterno Peter Pan, non rifiuta di diventare adulto. Fa un patto con sé stesso e sceglie di non abitare, ma di vivere. Sceglie di rinunciare a un piatto di lumache e a tutto ciò che comporta, ma non lo fa solo una volta. Rifiuta quelle lumache per tutta la vita, e con esse l’ordinarietà di una vita prima di individualità. Sceglie di essere sé stesso, si dedica alla lettura, che diventa per lui fondamentale, si innamora. Vive.

Rimane immutato lo spazio, il posto. Il tempo, ahimè, continua a scorrere, e con esso anche i suoi anni. “Il barone rampante” è un percorso e noi lettori siamo liberi di interpretare quel che il narratore omette. Siamo liberi di leggervi la nostra vita o quella che non vivremo mai. Siamo liberi di amare o odiare Cosimo, ma non siamo liberi di dimenticarlo. Egli è eterno.

 

Martina Macrì

Sono Martina, ho una laurea in Lettere e studio Semiotica a Bologna. La scrittura è il mio posto sicuro, il mio rifugio. Scrivo affinché gli altri, o anche solo una persona, mi leggano e si riconoscano. Su IoVoceNarrante mi occupo principalmente di letteratura.  

Guida all’eteronimia: Alberto Caeiro

Guida all’eteronimia: Alberto Caeiro

Guida all’eteronimia: Alberto Caeiro

Questo articolo è il terzo di una serie completamente dedicata ai quattro principali eteronimi creati da Fernando Pessoa. L’eteronimo analizzato è Alberto Caeiro.

Fernando António Nogueira Pessoa è uno degli scrittori più celebri e fuori dagli schemi della letteratura portoghese. È difficile ingabbiare Pessoa in un unico genere e nel suo caso persino in una un’unica personalità letteraria, grazie alla sua applicazione nella scrittura del concetto di Eteronimia (Heteros: altro – Onoma: Nome). Il termine non è stato coniato da Pessoa, ma egli ha sicuramente aggiunto un significato. La parola “eteronimo” veniva già utilizzata in linguistica per indicare due termini con base diversa che insieme formano una struttura semantica (madre, zio, fratello), oppure in senso grammaticale più stretto sono in relazione di eteronimia le coppie di nomi animati, relativi sia alla sfera umana sia a quella animale, che esprimono la polarità (ad esempio maschio / femmina).

Pessoa utilizza l’eteronomia in ambito letterario, superando il semplice concetto di “pseudonimo”: egli, infatti, pubblica opere in prosa e in poesia vestendo i panni di altri scrittori, con vite e stili diversi, rimanendo tuttavia nel campo delle avanguardie della sua epoca. Non si limita, dunque, a utilizzare un nome fittizio, e neppure a creare un solo eteronimo, ma ben quattro. Pessoa (in quanto ortonimo) fa della sua molteplicità la sua forza. In Lettera sulla genesi dell’eteronimia spiega le sue molteplici personalità letterarie utilizzando teorie mediche in voga all’epoca, ovvero diagnosticandosi “un’isteria-nevrastenica che mira alla spersonalizzazione e alla simulazione.”

Gli eteronimi principali sono quattro: Álvaro de Campos, Alberto Caeiro, Ricardo Reis e Bernardo Soares. In questo articolo analizzeremo la figura di Alberto Caeiro.

Alberto Caeiro è un eteronimo fondamentale per l’esperienza letteraria di Pessoa in quanto ortonimo. Caeiro è ritenuto da lui stesso un maestro, colui che con il suo stile di scrittura ha contribuito alla formazione stilistica del suo vero io. In Lettera sulla genesi dell’eteronimia Pessoa spiega come Alberto Caeiro siano nato all’improvviso, di getto, ma che contemporaneamente abbia contribuito a formare di conseguenza Álvaro de Campos, Ricardo Reis e il resto delle figure che ruotano intorno alla sua persona.

“Un giorno […] – era l’8 marzo 1914 – mi sono accostato ad un alto comò e, preso un foglio di carta, ho iniziato a scrivere, in piedi, come sempre scrivo ogni volta che posso. E ho scritto più di trenta poesie di seguito, in una specie di estasi la cui natura non riuscirei a definire. È stato il giorno trionfale della mia vita e non potrò mai averne un altro così. Ho iniziato con un titolo, O Guardador de Rebanhos (“Il pastore di greggi”). E quanto è seguito è stata la comparsa di qualcuno in me, a cui ho dato subito il nome di Alberto Caeiro. Mi scusi l’assurdo della frase: era apparso in me il mio maestro.”

Come possiamo notare, in quanto fondatore di tutto, Pessoa lo costruisce radicato a uno stato di natura primitivo, lo circonda di un desiderio di semplicità. Caeiro ritorna al periodo in cui l’uomo non era costituito da impalcature sociali, politiche e religiose complesse, come avviene ad esempio con Ricardo Reis, espatriato in Brasile per dissensi politici. Questo eteronimo può essere posizionato nel grado zero dell’umanità, ha ancora il potere della scoperta, di lasciarsi affascinare. Questa caratteristica esistenziale la ritroviamo di conseguenza all’interno delle sue poesie, in grado di creare un’immagine arcaica e contemporaneamente leggera nella mente del lettore.

Tutta la pace della Natura erma
viene a sedersi accanto a me.
Ma io sono triste come un tramonto
per il nostro immaginare,
quando in fondo alla piana rinfresca
e si sente la notte entrata
come una farfalla dalla finestra.

Ciò che lo differenzia dai suoi compagni eteronimi è proprio la sua esperienza legata all’esistenza naturale, una natura che porta a nascere, a evolversi e infine a morire. Alberto Caeiro è infatti l’unico eteronimo la cui morte è effettivamente riportata e stabilita da Pessoa. Caeiro nasce nel 1889 a Lisbona e muore nel 1915 a causa della tubercolosi, dopo aver trascorso gran parte della sua vita in campagna, con un’istruzione elementare e senza una vera professione. Questi due elementi sottolineano come questo eteronimo abbia la funzione di riportare il lettore indietro nel tempo, fargli dimenticare la sua formazione, le sue conoscenze intrinseche o acquisite vivendo all’interno di una società complessa, società che tuttavia non ha nessun tipo di certezza o di verità.

Il mistero delle cose? Che ne so cos’è mistero!
L’unico mistero è che ci sia chi pensi al mistero.
Chi sta al sole e chiude gli occhi,
comincia a non sapere cos’è il sole
e a pensare molte cose piene di calore.
Ma apre gli occhi e vede il sole,
e non può pensare più a niente,
perché la luce del sole vale più dei pensieri
di tutti i filosofi e di tutti i poeti.
La luce del sole non sa cosa fa
e per ciò non erra e è comune e buona.

Federica Ventura

Laureanda in Editoria in perenne ricerca di nuovi stimoli. Prediligo letture disordinate in una vita spettinata. Montagne, oceani o città: l'importante è continuare a muoversi. 

Il castello dei destini incrociati: tarocchi o realtà?

Il castello dei destini incrociati: tarocchi o realtà?

Il castello dei destini incrociati: tarocchi o realtà?

Il castello dei destini incrociati di Calvino è un’opera intricati in cui immergersi e in grado di far riflettere sulla propria esistenza.

Il Castello dei destini incrociati è un’opera di Italo Calvino pubblicata per la prima volta da Franco Maria Ricci, una casa editrice parmense nel 1969 con il titolo Il mazzo visconteo di Bergamo e New York.  La casa editrice Einaudi lo pubblicò quattro anni dopo, arricchendo la raccolta con una spiegazione dell’autore sull’origine e la tipologia dei tarocchi utilizzati.

“Ogni scelta ha un rovescio cioè una rinuncia, e così non c’è differenza tra l’atto di scegliere e l’atto di rinunciare.”

L’opera, suddivisa in due parti (il Castello e la Taverna) è fondamentalmente una raccolta di racconti, in grado di differenziarsi dai tradizionali stili narrativi per alcune particolarità. Prima di tutto Calvino utilizza un mazzo di tarocchi per sviluppare la linea narrativa: i personaggi si trovano a vivere determinate storie ed esperienze man mano che le carte vengono scoperte sul tavolo. Nella prima parte utilizza i tarocchi Marsigliesi, mentre nella seconda quelli Viscontei (molto più particolareggiati); nell’edizione Mondadori è possibile visionare, durante la lettura, le carte posizionate a bordo della pagina. Un aspetto che rende unica questa raccolta è il fatto che i racconti sono legati tra di loro proprio dai tarocchi che man mano compaiono, non si ha quindi un inizio isolato o una fine che sbarra la via a futuri avvenimenti.

 

L’ambientazione e il timbro linguistico, invece, appaiono diversi nella prima, ambientata in un castello medioevale, e nella seconda, che si sviluppa invece in una taverna rinascimentale. Calvino si immerge infatti nelle realtà che vuole raccontare descrivendo situazioni verosimili, utilizzando un linguaggio oltremodo anticheggiante per il lettore contemporaneo.

La storia comincia con il racconto del narratore, il quale si trova in una foresta nel quale scorge un castello dove potersi fermare per riposare. Una volta entrato, il protagonista si accorge di non riuscire più a proferire parola e proprio come lui anche tutti gli altri personaggi presenti all’interno del castello, dai viandanti, al castellano, fino ai prodi cavalieri. Durante la cena è il castellano a donare ai propri commensali un mazzo dai tarocchi in modo tale da potersi finalmente esprimere e raccontare le proprie vicende di vita.

Riassumere l’intero libro risulterebbe complicato e pedante, oltre a toglierne uno dei suoi principali fascini: il desiderio di scoprire cosa il destino avrà in serbo per i vari protagonisti. Nelle storie si trovano sia personaggi inventati, sia personalità ben conosciute nel mondo letterario: come, ad esempio l’Orlando di Ariosto o Elena di Troia.

La scelta dell’utilizzo dei tarocchi non è solamente uno strumento narrativo fuori dal comune, ma custodisce in sé il vero significato dell’opera. Per comprenderlo bisogna prima di tutto allontanarsi dai pregiudizi che oggi, anche giustamente, accompagnano i tarocchi. Quest’ultimi, infatti non hanno semplicemente lo scopo di far divertire o rubare i soldi a persone che pensano veramente di trovare in essi il proprio futuro, chiaro e tondo. La tradizione dei tarocchi è invece basata sulla crescita personale, sull’imprevedibilità, sulle scelte che solo le persone possono prendere, ma che contemporaneamente nascondono molteplici futuri. Solo scrutando dentro sé stessi si può dare un senso alle varie interpretazioni delle carte.  Calvino ha studiato e sfruttato le immagini e i significati degli arcani minori e maggiori per costruire delle storie immaginifiche, inaspettate, ma con un senso.

Due delle parole chiave per descrivere le vicende dei personaggi sono introspezione e combinazione. Introspezione in quanto le loro azioni sembrano dettate sia da una forza superiore sia dalle caratteristiche personali, dal comportamento che rende unica quella determinata persona. Per quanto riguarda le combinazioni, invece, è fattuale notare come tutti gli avvenimenti siano incasellati uno dopo l’altro, e l’interpretazione dei tarocchi può variare sia per ciò che appare prima sia per ciò che succede successivamente.

Le storie sono un vero e proprio percorso di vita ricco di insidie, di indecisioni, di atti eroici o codardi, di verità difficile da ammettere. Il castello dei destini incrociati è un viaggio ambientato nel passato, con personaggi inventati, con vicende dettate da delle carte, ma che nasconde in sé una realtà unica e personale pronta a manifestarsi nella mente di ogni lettore.

“Mi chino a scrutare dentro l’involucro di me stesso; e non ho l’aria soddisfatta: ho un bel scuotere e spremere, l’anima è un calamaio asciutto. Quale Diavolo vorrà prenderla in pagamento per assicurarmi la riuscita dell’opera?”

Federica Ventura

Laureanda in Editoria in perenne ricerca di nuovi stimoli. Prediligo letture disordinate in una vita spettinata. Montagne, oceani o città: l'importante è continuare a muoversi. 

INTERNATIONAL CAPS LOCK DAY

INTERNATIONAL CAPS LOCK DAY

INTERNATIONAL CAPS LOCK DAY

EHI TU! FERMATI UN ATTIMO QUI! PERCHÉ? TE LO SPIEGO NELL’ARTICOLO, NON FARTI SPAVENTARE DAL MIO CAPS LOCK INSERITO A MANETTA. NON STO URLANDO. STO SOLO CELEBRANDO L’INTERNATIONAL CAPS LOCK DAY!

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Sì, hai capito bene. Oggi, 28 giugno, ricorre l’International Caps Lock Day. Cosa sia il ‘caps lock’ non è necessario che te lo spieghi, dopotutto ti basta abbassare lo sguardo verso la tastiera per intuire da solo la risposta.

Ma cerchiamo di capire perché oggi il web e i social network saranno traboccanti di post ‘urlati’ accompagnati dall’hastag #CapsLockDay e #InternationalCapsLockDay.

Nel 1981 IBM (International Business Machines corporation), la più annosa e famosa azienda informatica statunitense produttrice di computer, software e hardware, lancia il proprio primo Personal Computer dotato di tastiera e tasto Caps Lock. IBM opta per collocare il tasto alla destra della barra spaziatrice. Solo nel 1984 questo comparirà per la prima volta nella posizione in cui lo conosciamo, e odiamo, noi oggi, alla sinistra della lettera ‘A’.

IBM forse credeva di contribuire al progresso del mondo dell’informatica, di introdurre uno strumento che agevolasse la scrittura da tastiera sostituendo il seccante ‘Tasto Shift’, che richiede una pressione costante per generare lettere maiuscole in successione. Invece IBM, nel 1984, stava inconsapevolmente creando un mostro, la futura risorsa di tutti i più temibili urlatori da tastiera.

Fu così che il Blocco Maiuscole, nato con i migliori presupposti, inizia a dare voce agli odiatori, o haters, del web, ai Millennial che ne abusano nei loro post indignati su Facebook e a tutti gli utenti, anche i più miti, costretti a cancellare intere righe accorgendosi di aver accidentalmente attivato l’ingombrante vicino della lettera ‘A’.

Ma perché è stato scelto il 28 giugno come giorno di celebrazione di questo piccolo e insidioso pezzetto di plastica in rilievo? In realtà la data non intende lodare l’invenzione del Bloc Maiusc, piuttosto ironizzare proprio su tutti i megalomani che lo sfruttano per urlare sul web. Infatti, il 28 giugno è anche la data della scomparsa di Billy Mays, noto venditore americano beffeggiato per l’elevato tono di voce che adottava nelle sue televendite (vedere per credere). Billy è divenuto l’icona del Caps Lock proprio dopo aver rivelato il motivo di tante urla: da piccolo aveva involontariamente ingerito il tasto Blocco Maiuscole della tastiera dell’IBM PS/2 che aveva in casa.

 

Una domanda sorge spontanea a questo punto, il tasto Caps Lock ci serve davvero? O si stava meglio quando si stava peggio? Nonostante la percezione comune di sentirsi aggrediti da chi si rivolge a noi facendo uso del Caps Lock, sicuramente questo tasto dà un contributo positivo all’esperienza di scrittura informatica. Di fatto, sopperisce a un’imponente falla della comunicazione telematica e social: l’impossibilità di trasmettere le emozioni attraverso uno schermo. Il Caps Lock tenta di restituire un’espressività pari a quella che si potrebbe realizzare nel corso di una conversazione frontale, rendendo il linguaggio scritto colorito e personale.

Il Blocco Maiuscole, tanto quanto Billy Mays, è dunque il migliore comunicatore che puoi incontrare, capace di suscitare l’indignazione e attirare l’attenzione di chiunque vi si imbatta scrollando una pagina web.

 

Matilde Vitale

Mi chiamo Matilde e sono una laureata in Lettere moderne. Nella scrittura ho trovato la simbiosi perfetta tra le tre ‘c’ che regolano e orientano la mia vita: conoscere, creare e criticare. Sono tre c impegnative e dinamiche, proprio come la mia mente e personalità che corrono sempre troppo veloci. Se ti interessa scoprire qualcosa di me o di ciò che scrivo non ti resta che iniziare a leggere, buona lettura!

Tolkien: il ciclo arturiano ne Il Signore degli Anelli

Tolkien: il ciclo arturiano ne Il Signore degli Anelli

Tolkien: il ciclo arturiano ne Il Signore degli Anelli

Il 29 luglio 1954 John Ronald Reuel Tolkien pubblica la trilogia de Il Signore degli Anelli, l’illustre capostipite del moderno romanzo fantasy, nella quale è ravvisabile un richiamo alla letteratura del ciclo arturiano.

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La trasposizione cinematografica della trilogia Il Signore degli Anelli di Tolkien nei primissimi anni Duemila, ad opera di Peter Jackson, ha permesso al grande pubblico di appassionarsi ad una pietra miliare della cultura fantasy del secondo Novecento. A distanza di quasi vent’anni dall’uscita nelle sale dell’ultimo capitolo della trilogia (Il ritorno del re), le lande dell’Ithilien che fanno da sfondo all’epica battaglia dei Campi del Pelennor, proprio di fronte a Minas Tirith, hanno impresso un segno indelebile nell’immaginario degli spettatori e, soprattutto, dei lettori. 

Al di là della libera ispirazione cinematografica, indubbiamente di pregio nonostante l’elisione di alcuni episodi o personaggi (ad esempio, Tom Bombadil compare nel primo romanzo La compagnia dell’Anello, ma non nel primo film della trilogia di Jackson), la trilogia letteraria di Tolkien ha anticipato e inaugurato la fiorente stagione del romanzo fantasy. Un merito indiscusso del romanziere e umanista inglese, il quale è riuscito nell’intento di sgretolare la forte ipoteca intellettuale che gravava (e a tratti grava ancora oggi) su un genere avvertito come infantile, relegabile ai piani più bassi dell’universo romanzesco. 

Eppure, Il Signore degli Anelli non è solo una formidabile trilogia fantasy che soddisfa la fame di fantasia utilizzando sapientemente materiale mitologico e folkloristico della tradizione nord europea; ma accoglie le istanze dei nostalgici i quali, all’indomani della Seconda guerra mondiale, millantano un passato edificante e puro, scevro del dolore e della miseria, rappresentato nel romanzo dalla verde Contea abitata dagli Hobbit, in contrapposizione al progresso industriale che ha causato spesso sofferenza, incarnato invece dalla nera terra di Mordor. 

La complessità dell’opera di Tolkien non si esaurisce tuttavia al suo sensu moralis e alla velata critica della contemporaneità. 

Tolkien infatti, fin dall’adolescenza, dimostrò un fervido interesse per le lingue classiche, nonché il goto, il finnico e l’islandese; interesse che perfezionò presso l’Exeter College di Oxford, dove ottenne il Bachelor of Arts

Durante la sua carriera studentesca prima e di docente poi si interessò al popolare ciclo arturiano o bretone, il quale si diffuse ampiamente nell’Europa del XII secolo. Come noto, il ciclo arturiano o bretone definisce un filone letterario di storie e leggende, prevalentemente di ambiente celtico, ben più antiche del XII secolo. Personaggi del calibro di re Artù, del mago Merlino o della fata Morgana popolano ancora oggi l’immaginario comune, e trovano il proprio nucleo originario nella Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, cronaca favolosa dei re di Britannia composta in latino a partire dal 1135.

A tal proposito, Tolkien è autore di un poema incompiuto, La Caduta di Artù, in cui tratta direttamente la materia bretone; tuttavia proprio la tradizione arturiana traluce nella trilogia de Il Signore degli Anelli in virtù di alcuni parallelismi tra i personaggi del ciclo e quelli tolkieniani. 

Il parallelismo che forse appare più scontato è quello fra il mago Merlino e Gandalf. 

Nella tradizione bretone Merlino è un personaggio ambiguo: secondo alcuni è infatti il figlio del demonio, ma grazie alla guida della madre e di un sacerdote le sue inclinazioni malvagie vengono smussate. Merlino, come è noto, è l’aiutante magico sia di Artù che di suo padre, Uther Pendragon. 

Anche Gandalf ha alcuni tratti ambigui: nonostante la bontà delle sue azioni sia innegabile, lo stregone è fortemente tentato dall’anello, conoscendo già le nefaste conseguenze di una presa di controllo da parte del manufatto. 

Entrambi gli stregoni sembrano avere inoltre un rapporto complicato con le torri. Merlino, tentando di sedurre la sua allieva Viviana, viene rinchiuso in una torre che la stessa Viviana crea, intrappolato in una dimensione ulteriore, sospeso fra spazio e tempo; così come Gandalf, il quale viene imprigionato da Saruman sulla cima della torre di Isengard. 

Un altro chiaro parallelismo è rappresentato dalla coppia re Artù e Aragorn, re di Gondor: non solo entrambi sono connotati dalle qualità regali del coraggio e dell’audacia, nonché aiutati, come già accennato, da due maghi; ma brandiscono armi eccezionali quali Excalibur e Narsil. Entrambe le spade conoscono vicende alterne che possono essere equiparate: ad esempio, Excalibur si spezza dopo un duello, così come accade a Narsil dopo aver staccato l’unico anello a Sauron

E proprio l’unico anello segna un’ennesima consonanza con un oggetto mitico del ciclo arturiano: il Graal. A ben vedere, le narrazioni ruotano intorno a questi mitici artefatti, oggetti di una quête estenuante, e che conferiscono qualità soprannaturali, quali la vita eterna. 

I parallelismi, ad una attenta analisi, si infittiscono e confermano l’assoluto valore e pregio di un’opera straordinaria: ad esempio la coppia Dama del lago – Galadriel, entrambe legate agli elementi naturali e aventi il dono della profezia, nonché quella Frodo – Artù giovane, entrambi capaci di riunire attorno a sé una compagnia di nobili uomini, la Compagnia dell’anello da un lato e i cavalieri della celeberrima Tavola Rotonda dall’altro.

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.

Marsilio Ficino: l’Amore come motus amandi

Marsilio Ficino: l’Amore come motus amandi

Marsilio Ficino: l’Amore come motus amandi

Marsilio Ficino, campione del neoplatonismo rinascimentale, si spegne a Careggi, presso Firenze, il primo ottobre del 1499.

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L’esigenza di rinnovamento culturale e spirituale che caratterizza il XII e il XIII secolo, incarnata ad esempio dalle celebri figure di Francesco d’Assisi e Gioacchino da Fiore, giunge a maturazione proprio in età umanistica e rinascimentale. A ben vedere, il cuore dell’antropologia rinascimentale risiede nella celebre locuzione secondo la quale homo faber ipsius fortunae , ossia l’uomo è fabbro del proprio destino. 

Al di là del dibattito storiografico circa la piena rottura o continuità fra Medioevo e Rinascimento, è indubbio che i filosofi, fra XIV e XV secolo, abbiano chiaro che l’uomo non debba considerarsi solo una parte di un ordine prestabilito, ma che debba al contrario, in quanto soggetto, conquistare sé stesso e un proprio posto nell’essere. 

Con il Rinascimento, inoltre, si ha una piena riscoperta di Platone, il quale prende corpo nel cosiddetto platonismo rinascimentale. Nonostante il platonismo del XIV e XV secolo sia un miscuglio della dottrina di Platone, Plotino, Pitagora e di elementi orfici, il celebre filosofo ateniese apparve come la figura più interessante della classicità greca, e il più adatto a fornire una dottrina che tenesse conto anche delle passioni umane, quali l’amore. Tale interesse per Platone si concretizzò in Italia nelle traduzione dell’umanista Leonardo Bruni e nella speculazione di Marsilio Ficino.

Marsilio Ficino era il figlio del medico personale di Cosimo de’ Medici, e compì studi di greco, latino e filosofia in una Firenze che si appresta a diventare il primo grande centro dell’Umanesimo italiano e europeo. 

Nel 1459 riceve in dono da Cosimo un manoscritto platonico da tradurre e una villa presso Careggi (oggi un quartiere di Firenze), dove fonda per volere di Cosimo stesso la nuova Accademia platonica: il compito è quello di studiare il corpus platonico, interpretarlo e facilitarne la diffusione. 

Marsilio Ficino traduce innumerevoli opere platoniche, prima in latino, e poi in toscano. Fra queste si annovera, a partire dal 1474, il Convivio platonico o Sopra lo Amore, nel quale dialogo, nell’orazione seconda, si legge:

Muore amando qualunque ama: perché il suo pensiero dimenticando sé, nella persona amata si rivolge. Se egli non pensa di sé, certamente non pensa di sé: e però tale animo non adopera in sé medesimo: con ciò sia che la principale funzione dell’Animo sia il pensare. 

Come in tutta l’opera di Marsilio Ficino, compresa la celebre Theologia platonica, la dottrina dell’amore non è affrontata in termini psicologici e fisiologici: non è la natura mondana e umana di Amore che interessa Ficino, o le sue manifestazioni sull’amante (come già accadde, ad esempio, con alcuni poeti della Scuola siciliana), ma la sua funzione, la quale si esplica nello slancio fra il soggetto e il principio. 

Ficino compie un’ardita saldatura fra religione cristiana e platonismo, fra orfismo e pitagorismo: egli afferma che il principio di tutte le cose, Dio, il quale è anche definito Bene, crea dapprima la Mente Angelica (che corrisponde alle idee platoniche), poi l’Anima del Mondo, e infine il corpo dell’Universo. 

La prima realtà creata da Dio o Bene, la Mente Angelica, inizialmente è informe e tenebrosa in quanto immersa ancora nel Caos della creazione. Quando la Mente si rivolge naturalmente a Dio, essa acquisisce la sua essenza, si perfeziona, e nasce Amore. In tal senso, l’azione di Amore (con la A maiuscola, in qualità di slancio divino), afferisce al “tirare su” da una condizione primordiale amorfa. Amore è lo slancio vitale che spinge il primo ente, la Mente Angelica, a voltarsi verso Dio e acquisire la sua essenza. E così via: dopo la Mente, è la volta di tutte le altre realtà (l’anima, il corpo), le quali sono atte a voltarsi verso Dio.

Secondo Ficino, è destino dell’uomo ritornare a Dio: di tutte le realtà create dal Bene, l’Anima è mediatrice fra la Mente Angelica, che guarda direttamente Dio, e il corpo del mondo, nel quale è immerso l’uomo. Il comune denominatore tra gli enti della realtà dunque è l’Anima, la cui attività principale si esplica nella funzione mediatrice dell’Amore: si ama con l’animo, e con esso si ritorna al principio, e cioè Dio. 

Ritornando all’estratto della seconda orazione del discorso Sopra lo Amore, si comprende ora che cosa intendesse Ficino scrivendo che “muore amando chiunqua ama”. L’Animo è il nodo vivente della creazione, direttamente responsabile della vita intellettiva del soggetto, e di conseguenza sede del pensiero. L’Amore è slancio verso il Bene e che esalta fino all’eccelso. Sembra che Ficino stia parafrasando platonicamente alcuni topoi della lirica d’amore siciliana e guinizzelliana (come “l’amore amaro”): il soggetto che ama pensa intensamente il soggetto amato; la visione dell’amato fomenta l’animo dell’amante, il quale, poiché il pensiero risiede nell’animo, “esce da sé stesso” e trova rifugio nell’animo dell’amato. Solo uno slancio divino potrebbe permettere un abbandono di sé stessi che sa quasi di mors voluntaria

La dottrina dell’Amore esposta nel discorso Sopra lo Amore, di straordinaria vivacità, mette in guardia sugli effetti di un buon motus amandi: se colui che ama con l’animo è ricambiato, non può morire, poiché vive nell’amato. Al contrario, se l’amore non è ricambiato, tale condizione ne pregiudica la salvezza:

[…] e però interamente è morto il non amato Amante. E mai non risuscita, se già la indignazione nol fa risuscitare. 

 

di Giuseppe Sorace

Giuseppe Sorace

Sono Giuseppe, insegno italiano, e amo la poesia e la scrittura. Ma la scrittura, soprattutto, come indagine di sé e di ciò che mi circonda.