Harry Potter e la Gen Y

Harry Potter e la Gen Y

GRAZIE VOLDEMORT

Il 31 ottobre di 42 anni fa Voldemort uccise i genitori di Harry Potter, lasciando una cicatrice indelebile sulla sua fronte e sulla Gen Y

Di Harry ce n’è solo uno ed è Potter. Sembra quasi una frase da stadio, ma la differenza tra lui e qualsiasi altro personaggio sta anche nell’appellativo: tra amici, se dobbiamo raccontare la storia o le vicissitudini di qualcuno che non conosciamo direttamente, lo chiamiamo per cognome. Non direste mai “Daniel” per parlare di Daniel Radcliffe, come non direste mai “Potter” per parlare di Harry Potter. Lui è Harry e basta. E come figli della Gen Y, è stato nostro amico, fidanzato, fratello per decenni. Conosciamo di lui ogni cicatrice, ogni caratteristica, persino cos’ama mangiare.

Come in ogni relazione, il tempismo è fondamentale. Con la saga letteraria uscita nel 1998 e accompagnata già dal 2001 dall’uscita di ben otto capolavori cinematografici, ha inglobato una generazione persa tra guerre lontane e senza una vera identità, con i primi strumenti di comunicazione digitale a fare capolino nella quotidianità. Ma avremmo abbandonato qualsiasi chat di MSN pur di ricevere una sola lettera da Hogwarts.

Imparammo a leggere anche in una lingua che non era la nostra, perché volevamo, a tutti i costi, far parte di un mondo magico pieno di avventura e di, molto spesso, cupo realismo. Solo ora capisco come il suprematismo bianco (o il semplice nazifascismo) è stato traslato in una lotta tra maghi buoni e Mangiamorte, dove questi ultimi, convinti di provenire da una razza superiore, seguivano imperterriti la dottrina e gli ordini del loro padrone Voldemort, per creare una società, a detta loro, “pura”.

In tutto questo mondo pieno di razzismo e morte, l’amicizia era l’unica luce che sembrava non spegnersi mai. Nonostante le loro incomprensioni, le loro differenze, Ron, Harry ed Hermione (e i loro compagni), sembrano riuscire a superare tutto, rimanendo compatti. Nel frattempo, nel mondo reale, anche noi stringevamo amicizie che sarebbero durate nel tempo e molto spesso leggendo proprio insieme quelle pagine e dividendoci i pop corn dolci e salati. E il tutto musicato da John Williams.

Noi crescevamo mentre cresceva Harry, mentre si faceva nuovi amici, mentre un Ron fifone si ribellava ai suoi genitori ed Hermione insegnava a tutti come vivere. Ovviamente il tutto mentre venivano bullizzati lungo i corridoi, mentre in bilico tra la vita e la morte,alla ricerca di sé stessi e alle prese con cose più grandi di loro.

Per  noi che non sapevamo di poter esprimere il nostro pensiero, dove non avevamo Instagram a farci vedere che c’erano altre ragazze come noi, Hermione fu una manna dal cielo. L’apoteosi del femminismo per la nostra generazione, la prova pratica e la consapevolezza, anche per i ragazzi, che senza di lei sarebbero tutti morti.

Alcuni momenti nella vita dei personaggi della saga (come ad esempio la morte di amici, compagni e parenti), viene tutt’ora definito come trauma della nostra infanzia. E quando durante la pandemia Italia1 ebbe l’idea geniale di trasmettere tutti i film in prima serata, mentre la Gen Z era impegnata su Netflix e Tik Tok, un’intera massa di millennial italiani creò chat solo per commentare insieme, anche se a distanza, quel ritorno ai pomeriggio doposcuola.

Quando andai a vedere l’ultimo Harry Potter al cinema (dopo aver già letto il libro due volte, sia ben chiaro) uscii con la consapevolezza che fosse terminata un’era. Ora so che quell’era è l’infanzia.

Noi di una generazione squallida, pronta a masticare le briciole che quella dei nostri genitori (tassandocele) ha deciso di lasciarci. Finiamo per prenderci le responsabilità di interi decenni di depravazione con la consapevolezza di non riuscire mai a raggiungere lo standard di vita dei nostri genitori, che i accusano di mancanza di voglia.

Quindi sì, grazie mille Voldemort di aver ucciso i genitori di Harry. Te ne saremo eternamente grati.

LA SAGGEZZA E I DONI DELLA MORTE

LA SAGGEZZA E I DONI DELLA MORTE

IL RICORDO E I DONI DELLA MORTE

Il 2 ottobre è la festa dei nonni, una data sacra da ricordare per chi può festeggiarlo o per chi, invece, non ha questa fortuna.

Oggi è morto un signore anziano del mio palazzo. Si chiamava Franco ed aveva l’Alzheimer. Ci incontravamo spesso in ascensore, un minuscolo cubicolo di un metro quadrato che però per lui era la piazza più grande del mondo. Ogni volta che m’incontrava mi diceva “Salve signorina, vive da poco qua vero? Le piace?”. Io rispondevo sempre “Sì, tantissimo, è davvero un piacere conoscerla! Ci vediamo presto”. Mentivo ogni volta, non volevo ci rimanesse male. Gli volevo creare un piccolo ricordo ad ogni incontro.

Oggi è il 2 ottobre ed è la festa dei nonni. E mio nonno si chiamava Franco. Dico si chiamava perché è morto il 10 settembre 2001, riuscendo fino all’esalazione del suo ultimo respiro a rubare la scena a uno degli eventi storici più importante di sempre. Stavano morendo tremila persone e a casa mia si piangeva solo per una.

Descrivere mio nonno è una cosa che cerchiamo di fare spesso in famiglia, ogni volta fallendo miseramente alla ricerca di aggettivi che nemmeno il dialetto riesce a trovare.

Una delle prime cose che dico è “Mio nonno ‘ntrigliava”, cioè balbettava. In classe lo facevano leggere a voce alta e per questo fu costretto a ripetere ben tre volte la prima elementare. Immagino che fu lì che imparò che la sua vita l’avrebbe passata per sempre sotto i riflettori, guardato con occhi di pietà o scherno nell’attesa di riuscire a trovare le parole per mandare a quel paese l’interlocutore. Invece di ritirarsi nel suo guscio, passò tutta la sua vita al centro dell’attenzione, cercando nella propria rivincita di mettere sul palco anche chi, come lui, non lo aveva chiesto. Quando prendeva lo Scarabeo azzurro, faceva il giro della città con il clacson perennemente acceso e faceva in modo, se ti conosceva, di salutarti, così da farti provare quel briciolo di timidezza che a lui non era concessa.

Quando squillava telefono di casa e mia nonna non c’era era costretto ad alzare gli occhi dal canale televisivo regionale del ballo del liscio per rispondere al telefono. A quel punto, dovevi aspettarti circa dieci secondi di silenzio, il tempo necessario perché lui dicesse (in un’unica frase, per evitare di bloccarsi): “’porc**** so’ io, che vòi?”. Quando ero piccola non capivo perché fosse così scortese alla cornetta, ora capisco che sentiva solo il dovere impellente di non far aspettare gli altri.

Un’altra cosa che amo raccontare è che tutto ciò che non riusciva ad esprimere a parole lo faceva con l’arte. Ma la sua arte non era fine a sé stessa: mio nonno creava solo arte che si potesse condividere. Ballava divinamente, tanto da essere letteralmente campione di rock n’ roll. Aveva collezionato così tante coppe che mia nonna non sapeva nemmeno dove stiparle, tant’è che dice di averle buttate tutte (ma sono sicura che una la nasconde da qualche parte, al sicuro, solo per lei). Obbligava i figli a dormire tutti i sabati pomeriggio, affinché potessero rimanere svegli fino alla sera tardi per danzare nelle balere. Di lavoro faceva il fabbro, riusciva a tirare fuori dal fuoco nero della cenere delle forme meravigliose. Una volta creò un tavolo in vetro, retto da gambe formate da foglie attorcigliate a dei rami. Recentemente mia madre lo ha portato in casa sua. Sono convinta che, appoggiandoci gli occhiali da lettura, ci pensi ogni volta.

Ovviamente faceva anche il musicista e suonava la fisarmonica. Quando avevo circa otto anni, lo vidi alla finestra mentre strimpellava e tirava quello che per me era un marchingegno incredibile, quasi alieno. Mi spiegò come premere i tasti. Il giorno dopo si presentò a casa di mia nonna con una tastiera pesata della Yamaha (che nessuno vuole sapere come abbia pagato) che conservo ancora, più di vent’anni dopo. Non ho mai potuto suonarla con lui.

È morto a sessantasei anni per il secondo infarto. Quando ebbe il primo, gli dissero che non avrebbe più dovuto né bere, né fumare, né fare le scale. Fino al suo ultimo giorno, fumò due pacchetti di sigarette, bevve qualche sorso di Tavernello e ballò ad ogni evenienza.

Dicono che nel delirio poco prima della morte, tenne un gran discorso tra sé e sé. Un performer certo, fino alla fine.

Forse è un uomo impossibile da descrivere a fondo, ma a volte penso che una cosa me l’abbia insegnata. La vita è un palcoscenico, tanto vale che fai il protagonista. Muoiono sempre tutti prima o poi, ma almeno i protagonisti lo fanno con stile.

L’ultima volta che ho visto il mio vicino Franco passeggiava lungo il vicolo che va dal nostro portone alla metro. Stava per iniziare a piovere, tuoni e lampi si davano alla pazza gioia e lui camminava, avanti e indietro, come se non stesse accadendo nulla. Alle persone anziane i temporali, si vede, non fanno alcuno effetto. Avevo paura si fosse perso, quindi gli dissi “Salve! Ha bisogno che le apra il portone?”. “No” – mi disse – “mi piace passeggiare, vada pure!”.

Mi aveva riconosciuta ed è morto creando in me il ricordo.