Orlando Furioso: l’incompiutezza della querelle nel mondo

Orlando Furioso: l’incompiutezza della querelle nel mondo

Orlando Furioso: l’incompiutezza della querelle nel mondo

Quello dell’Orlando Furioso è un mondo fatto di apparenze, prime tra tutte le convenzioni sociali. L’apparenza acquisisce le sembianze di sostanza e l’insensatezza dell’agire umano è spacciata per senno: tutti si credono assennati e invece hanno smarrito la ragione, primo tra tutti il paladino Orlando.

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto. Basta pronunciarne i primi versi per riconoscere l’incipit di uno dei poemi più celebrati della storia della letteratura italiana: l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, poema cavalleresco pubblicato in edizione definitiva nel 1532.

La follia di Orlando è tra le più celebri dell’epica, impazzito per l’amore della bella Angelica, il cavaliere carolingio smarrisce il senno, diserta ogni dovere militare e priva del suo necessario intervento l’esercito di Carlo Magno intento a intraprendere una guerra contro i temuti Saraceni.

Sulla vicenda del paladino cristiano si innestano e intrecciano le trame degli altri personaggi, in un gioco di incontri, scontri e smarrimenti tra le radure di una selva intricata.
È proprio nella selva che la follia di Orlando raggiunge il suo culmine quando si imbatte in un’incisione sulla corteccia di un albero che suggella la promessa d’amore tra la giovane Angelica e il saraceno Medoro. La scoperta è vissuta dal protagonista come tradimento, portandolo a smarrire totalmente la ragione. Distrugge tutto ciò che ha intorno, si spoglia dell’armatura e nudo, folle, giace a terra digiuno per tre giorni per poi prendere a vagare nella selva in preda alla follia.

Orlando è chiamato furioso, ed è infatti un furor d’amore e di gelosia che lo infiamma e lo porta a percorrere un cammino inverso a quello di elevazione dell’uomo attraverso il nobile sentimento amoroso. L’amore non eleva Orlando, non sublima, ma lo abbassa a una condizione ferina, bestiale, lo priva dell’onore e di sé.

È proprio a seguito della follia del protagonista che si innesca una querelle necessaria allo scioglimento della vicenda: il viaggio del paladino cristiano Astolfo sulla luna. È un viaggio che ha dell’onirico e del surreale, nel quale si intessono rimandi letterari, dove il lettore rimane suggestionato per il rapporto dialettico peculiare che si instaura tra il mondo lunare e quello terrestre.

In un vallone lunare, si trovano accumulate tutte le cose che sulla terra sono andate perdute. La luna è un mondo complementare alla terra e sulla luna Astolfo ha modo di trovare anche il senno di Orlando. Esso è custodito in un’ampolla e lo spettacolo che si mostra è paradossale: tutti sulla terra sono convinti di possedere il senno, eppure sulla luna ce n’è una grandissima quantità. Non solo, ma esso è anche inconsistente, un vapore labile e fugace, la cui immaterialità esprime tutta la facilità con cui è possibile smarrirlo e la difficoltà che è richiesta per recuperarlo.

La Luna con i suoi oggetti perduti funge da catalogo dei fallimenti umani esprimendo quel rapporto frustrato tra desiderio ed effettivo raggiungimento di cui Orlando è il massimo esempio. Egli desidera ardentemente Angelica, ma non la può possedere e il desiderio di lei si accresce quanto più lei si allontana fino a concedersi a Medoro. È il desiderio destinato a restare insoddisfatto che prende forma nel contrasto realtà-apparenza.

L’episodio di Astolfo sulla luna è particolarmente interessante perché si innesta su una tradizione di “viaggi nell’aldilà” che vede precedenti letterari di rilievo, in particolare il Somnium Scipionis descritto da Cicerone e il Paradiso Dantesco. È il motivo del viaggio condotto in un mondo parallelo a quello terrestre, che disvela verità nascoste e porta all’acquisizione di nuove consapevolezze.

La luna non è soltanto un luogo fisico, ma è il punto di arrivo di un’astrazione intellettualistica, di una inchiesta volta al recupero di qualcosa di effimero ed evanescente come il senno del giovane Orlando e di tutti gli uomini con lui. Si tratta del motivo della vanitas, l’insensatezza delle azioni umane indirizzate a obiettivi vani e irraggiungibili. Quasi un’auspicio che l’umanità stessa tornata sulla terra possa recuperare il senno e con esso un modo di agire nel mondo più autentico.

Astolfo farà ritorno sulla terra e grazie al suo intervento Orlando potrà recuperare il senno portando al naso i vapori dell’ampolla che gli consentiranno di tornare in sé e condurre a termine il suo compito di paladino nello sconfiggere il nemico. Questo lo costringerà però al contempo a rinunciare all’amata Angelica. L’opera suggella in questa come in altre fallite inchieste (per esempio quella di Ruggiero e Atlante) come ci sia una distanza invalicabile tra l’oggetto del desiderio e il soggetto che lo desidera, essa si traduce in un elenco di vanitas vanitatum.

Il fallimento rivela l’inconsistenza dell’agire umano, porta il lettore a una riflessione che al contempo è l’espressione di un sentimento di delusione di fronte a un mondo di corte, quello della corte ferrarese del Cinquecento, nei confronti del quale Ludovico Ariosto si interroga. La corte è il luogo delle apparenze e delle relazioni effimere, rispetto alle quali l’autore rivendica un desiderio di autenticità che sembra calarsi nell’oggi più attuale che mai.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Rosso Malpelo: cronaca di un’infanzia rubata

Rosso Malpelo: cronaca di un’infanzia rubata

Rosso Malpelo: cronaca di un’infanzia rubata

Quella di Rosso Malpelo è la narrazione di una vicenda dolorosa ma quanto mai reale, uno squarcio che si apre sugli aspetti meno gloriosi di un’unità nazionale che segregò la parte meridionale dell’Italia in una condizione di povertà, miseria e sfruttamento per decenni.

Rosso malpelo è il dispiegamento sulla pagina della miseria in cui verteva la popolazione sicula a ridosso del termine del Diciannovesimo secolo.
Si tratta di una novella, emblema dello stile verista, composta nel 1878 da Giovanni Verga e pubblicata nel 1880 nella più compiuta raccolta Vita dei campi.

Nonostante il ricorso a una narrazione quanto più possibile impersonale, quella condotta da Verga è un’operazione di denuncia. Egli voleva descrivere la condizione di povertà, sfruttamento e miseria in cui gran parte della popolazione siciliana si trovava a vivere pochi anni dopo l’avvenuta unificazione del paese, in una società rimasta ancora prevalentemente rurale e arretrata.
Rosso Malpelo, il protagonista della vicenda, è appena un adolescente, costretto a lavorare ogni giorno a ritmi sfiancanti in una cava di rena rossa. La realtà in cui vive è alienante, oltre a una lavoro che oltrepassa la soglia dello sfruttamento, è del tutto privo di affetti. La madre non si fida di lui, lo considera un ingrato e un ladro, teme rubi parte del denaro dello stipendio. Il padre muore durante una pericolosa operazione di abbattimento di un pilastro, unica persona davvero capace di volergli bene, tutti lo evitano e la sua condizione non fa altro che peggiorare.

Malpelo è un bambino sottratto all’infanzia, della vita ha conosciuto gli aspetti più duri e faticosi: fame, povertà, fatica e violenza.
E’ un mondo dove non esistono parole, dialogo, comprensione, un mondo anaffettivo dove tutto resta sempre uguale a sé stesso.

Ben presto giunge a lavorare alla cava un giovane di nome Ranocchio, così chiamato per lo zoppicare della sua gamba. È nel rapporto con Ranocchio che traspare tutto l’analfabetismo emotivo del giovane Malpelo. Il rapporto con l’amico è infatti ambivalente, talvolta lo protegge e talvolta lo tormenta, per insegnargli a vivere in un mondo crudele e cieco.
A connotare il comportamento di Malpelo è la violenza, una violenza che può essere rivolta solo sui più deboli e che descrive la condizione di vita nei tempi in cui “solo a sapersi difendere dai duri si riesce a sopravvivere”.

Malpelo appare così come un giovane immorale, cattivo e distruttivo, ma egli porta con sé solo le carenze di una situazione di vita, di un contesto, che diversamente lo costringerebbero a soccombere. Ranocchio ben presto si ammala di tubercolosi e muore, un nuovo colpo che Malpelo si trova a dover affrontare. Rimasto solo e abbandonato da madre e sorella accetta la rischiosa impresa di esplorare una galleria abbandonata che dovrebbe condurre a un pozzo. Lì si addentra e da lì nessuno lo vedrà mai uscire.
Il finale è aperto e lascia al lettore una flebile speranza che Malpelo sia riuscito a fuggire, a intraprendere la strada della libertà, a riscattarsi. Questo non lo sapremo mai, ma a ben vedere dalle opere di Verga, il riscatto sembra poco auspicabile, e la realtà destinata a schiacciare l’uomo.

La novella, in conformità allo stile verista in cui l’autore si inserisce, è uno spaccato di realtà descritto nei modi più oggettivi e impersonali possibili. Malpelo è un “vinto”, come vinti saranno gli altri personaggi di Verga dai Malavoglia a Mastro Don Gesualdo. All’impersonalità si affiancano straniamento e artificio della regressione. Sono strumenti narrativi che consentono all’autore non solo di estraniarsi fino a scomparire dalla narrazione, ma di portarla al livello dei personaggi come se fosse uno di loro a stare parlando. Così viene descritto il comportamento di Malpelo alla morte del padre:

“Ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro”.

Un linguaggio popolare e parlato che cala il lettore proprio nel pieno della narrazione, rendendolo partecipe di quel mondo grazie alla scomparsa del narratore.
Ciò che rimane è un amaro di fondo, quasi il lettore parte della vicenda ne condivida rabbie e angosce. Coinvolgimento e riflessione assorbono chi legge, costringendolo a ripensarsi in una condizione diversa, di miseria, una condizione in cui per interi decenni una cospicua parte della nazione italiana si trovò a vivere, anzi a non-vivere.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

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Joan Mirò: quando arte e suggestione si fondono

Joan Mirò: quando arte e suggestione si fondono

Joan Mirò: quando arte e suggestione si fondono

Automatismo psichico, inconscio e surreali atmosfere, su questi poli si dispiega la produzione artistica di Joan Mirò, esponente di spicco dell’arte avanguardista primonovecentesca. 

Nasce a Barcellona nel 1893 Joan Mirò, poliedrico artista primonovecentesco. A comporre l’immaginario figurativo di Mirò, è una varietà di esperienze artistiche che spazia dalle primitive pitture rupestri, alle opere africane, dall’avanguardia surrealista di cui si fece esponente, allo schematismo di André Breton, l’espressionismo di Munch e il cubismo di Pablo Picasso. Un’arte permeata di spiritualismo, dove le forme che aleggiano sulla tela danno vita a eclettiche ma armoniche composizioni.
Le vicende biografiche dell’artista narrano di contatti con le principali correnti d’arte e cultura europee in epoca di avanguardia: Fauves, Dada, automatismo psichico trascritto in pittura e surrealismo. Correnti in radicale rottura alla precedente tradizione naturalista che segnano il pieno ingresso nei moduli iconografici novecenteschi, caratterizzati da scandaglio nel profondo della psiche, dirompenza nella rappresentazione, visioni allucinate e paesaggi surreali.

Così nel Carnevale di Arlecchino, tela realizzata 1924, si dispiegano tutti i colori dei paesaggi della Catalogna. Al centro della tela una figura bislacca porta una maschera; figure ibride che fondono fattezze animali e antropomorfe si distribuiscono sulla tela insieme a oggetti che solo parzialmente appartengono al nostro reale: ruote, clessidre, pagine sparse, un gatto, un dado, una scala. Le figure dai contorni morbidi sembrano danzare sul suono di una musica percepibile con lo sguardo nei variegati movimenti assunti dagli oggetti che permeano la composizione e dalle note musicali distribuite sulla scena. Sullo sfondo una finestra dalla quale si intravede un triangolo nero, probabilmente si tratta della Tour Eiffel. La figura umana dalla maschera bicolore raffigura Arlecchino, personaggio teatrale sfortunato in amore, esso riporta sul ventre un foro che potrebbe alludere alla difficile condizione economica in cui si trovava l’artista allora. L’esperienza biografica di Mirò si fonde alle origini catalane e al terreno culturale occidentale. Nella scena il mondo è plasmato dalla psiche dell’artista che lo osserva: il gatto, animale a lui caro, la Tour Eiffel, una sfera che ricorda un mappamondo e una scala a pioli, ricorrente comparsa nelle sue raffigurazioni.

Mirò non fu tuttavia solo un pittore, dal 1944 si dedica infatti alla realizzazione di sculture in ceramica. Fu autore di due murales in ceramica per la sede Unesco di Parigi sui quali si distribuiscono con morbide linee, forme astratte e colori marcati che spaziano dal rosso intenso al nero. La sperimentazione artistica di Mirò comprese negli ultimi anni anche la realizzazione di sculture in bronzo e in altri materiali di scarto.
Quella di Mirò fu una linea artistica che lo distinse per ecletticità e sperimentazione: opera un tipo di scomposizione cubista capace di creare innaturali mosaici dai colori netti, aderisce all’avanguardia surrealista con figure carnevalesce, scene allucinanti, significati metaforici e allusivi che si distribuiscono sulla tela. E così Arlecchino si fa autoritratto dell’artista, spavaldo padrone di casa disposto a lasciare la festa da lui stesso organizzata che si svolge alle sue spalle. Stilizzazione e simbolismo come cifre significative della produzione artistica di Mirò, che lascia con il suo patrimonio di opere il segno indelebile di un’arte che con il Ventesimo secolo ha mutato di segno, si è fatta allusiva, misteriosa, non descrittiva ma simbolica, un’arte che chiede allo spettatore il coglimento di reconditi e profondi significati. Un’arte contemporanea.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

L’inetto ne La coscienza di Zeno e nell’oggi: forse non così distanti

L’inetto ne La coscienza di Zeno e nell’oggi: forse non così distanti

L’inetto ne La coscienza di Zeno e nell’oggi: forse non così distanti

Scrive Italo Svevo nel 1927 a Valerio Jahier: “E perchè voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità quello ch’essa ha di meglio?”. L’umanità è malata, ma di un male che è anche la sua ricchezza. Forse la soluzione non è la guarigione, ma l’accettazione stessa della malattia. 

Esce nel 1923, quella che è considerabile come l’opera centrale della produzione di Italo Svevo, La coscienza di Zeno. Il romanzo, in forma di memoriale, è ascrivibile al genere del romanzo psicanalitico, in totale rottura rispetto all’impianto classico del romanzo ottocentesco.
L’opera si apre con una prefazione che avvisa il lettore sul fatto che quanto sta per leggere è la narrazione autobiografica di un tale Zeno Cosini, pubblicata per vendetta dal suo psicanalista, il Dottor S., dopo la decisione del paziente di interrompere la terapia.
La prefazione rende il romanzo molto più attuale di quanto potrebbe sembrare, infatti oggi più che mai la frequentazione di uno psicologo o psichiatra, non solo è una pratica non infrequente, ma per molti necessaria. Le ragioni si possono facilmente cogliere guardandosi attorno, la società attuale – come mai prima d’ora –  sottopone i suoi componenti a prestazioni e ritmi altissimi, per via dei quali molti faticano a trovare il proprio posto e sono portati a sentirsi inadeguati.
Per via di tali ragioni, nel romanzo Zeno Cosini, ripercorrendo le tappe della propria storia personale e famigliare, tenta di recuperare (o forse acquisire) una “salute”, la cui mancanza gli rende impossibile l’integrazione nella società.

 

 

 

 

A colpire Zeno è una malattia alquanto particolare, quella che Svevo chiama “inettitudine”.
La figura dell’inetto, tipo letterario affermatosi a partire dalla trilogia di romanzi di Svevo, Una Vita, Senilità e La coscienza di Zeno, trova proprio in quest’ultimo una sua più piena maturazione e risoluzione.
L’inetto può essere definito come “uomo inadatto alla vita”, incapace di cogliere e godere di momenti significativi della propria esistenza. Vittima della propria condizione, delle propre debolezze e indecisioni, fatica ad adattarsi e trovare un posto nella società che lo circonda, a ogni tentativo di inserimento ottiene il risultato contrario: esclusione e fallimento. Questa condizione produce uno scarto tra propositi e obiettivi effettivamente raggiunti, così per esempio Zeno si propone tante volte di smettere di fumare, fallendo continuamente. A caratterizzare l’inetto è però una lucida consapevolezza di questa sua condizione, la stessa consapevolezza che porterà Zeno a chiedere supporto al Dottor S.
L’esito della terapia tuttavia, è ben diverso da quello atteso: Zeno Cosini potrà infatti dirsi guarito solo nel momento in cui deciderà di interrompere le cure.
Ha qui luogo un ribaltamento del rapporto sanità-malattia, che apre una riflessione estendibile all’oggi. Zeno è inizialmente mosso dal proposito di guarire dalla malattia-impossibilità di aderire ai valori della società, una società animata da un forte senso di fiducia nel progresso, certa del successo dell’uomo borghese ben inserito nei meccanismi sociali. Scopre invece che il vero sano è proprio lui, perché capace di mettersi in discussione, di intraprendere un’autoanalisi e di guardare con distacco ciò che lo circonda, svelando gli inganni dell’ipocrisia borghese. Zeno ha preso coscienza del fatto che la vita è inquinata sin dalle sue radici. Tale condizione appartiene a tutta l’umanità, certa di un sistema di valori destinato a fallire e per la quale l’unica soluzione possibile sembra essere l’annientamento totale del genere umano.

 

 

La conclusione di Svevo è netta: la società è malata e la vita dell’uomo è animata dall’incertezza e dall’insoddisfazione. Il vero malato è chi non è disposto ad accettare tali fragilità, ostinandosi a credere fideisticamente in un meccanismo destinato a non perdurare all’infinito. L’unica via d’uscita è allora l’accettazione.
Quelli che la società chiama “sani” sono uomini superficiali, inconsapevoli della propria condizione: uomini condannati a reprimere le proprie pulsioni e inclinazioni vitali, disposti a piegarsi a un alienante meccanismo sociale.
Zeno al contrario è un inetto destinato a vincere perché in grado di riflettere e accettare quella che è la condizione propria dell’essere umano.
E la condizione di Zeno, in fondo, non è poi così diversa da quella dell’uomo contemporaneo. E’ dalla metà dell’Ottocento che l’individuo si è trovato a fare i conti con una società sempre più pressante, competitiva, che lo sottopone a una costante prestazione di efficienza e produttività. La società industriale e arrivistica affermatasi dalla seconda Rivoluzione Industriale chiede all’individuo la cieca fede a un ideale di progresso destinato apparentemente a non fallire mai, nella convinzione, certezza e illusione di essere la via migliore e l’unica perseguibile. Zeno Cosini insegna che è possibile mettere in discussione questa concezione, che l’individuo moderno possiede gli strumenti per riflettere, comprendere e reagire ai meccanismi della realtà in cui è collocato. L’inedeguatezza, quella stessa che può portare a intraprendere un percorso di cura, talvolta può invece rivelarsi il sintomo di maggiori sensibilità e consapevolezza.
La vicenda di Zeno offre un monito, un invito a riflettere sulle imposizioni richieste dalla società anche al giorno d’oggi, uno sprone a non subirne passivamente le decisioni e a non rassegnarsi a una tacita accettazione. L’invito è a guardare con un certo distacco il mondo, a coglierne le imprecisioni e ad accogliere sé stessi come tali senza un totale autoannulamento, ma con una disponibilità a ritagliarsi uno spicchio di vita per sé, perseguendo le proprie inclinazioni, senza sentirsi colpevoli di non aderire a pieno agli ingranaggi dell’impositivo meccanismo sociale nei quali ci si trova a vivere.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

About women: 5 “frasi-tipo” che non ci meriteremmo di sentire

About women: 5 “frasi-tipo” che non ci meriteremmo di sentire

About women: 5 “frasi-tipo” che non ci meriteremmo di sentire

In Italia essere una donna non è affatto un compito facile, soprattutto quando si ha l’intenzione di uscire di casa (o ritornarci) dopo le 22, indenni da aggressioni, violenze, stupri e fraintendimenti…

Ogni donna italiana si sarà sentita dire almeno una volta nella vita, di solito alla sera, prima di uscire, frasi come: “ma dove vai vestita così”, “non tornare tardi”, “non tornare da sola”, “non bere troppo” e “attenta a con chi parli, non dare retta agli sconosciuti”.

Sembra quasi esserci un “codice”, non dichiarato apertamente, di comportamento che ogni ragazza/donna italiana deve imparare a rispettare prima di uscire di casa, soprattutto dopo un certo orario, che di solito coincide con il momento del calare del sole. I recenti avvenimenti di cronaca lo dimostrano, si basti pensare all’episodio avvenuto sul treno Milano-Varese in data 3 dicembre 2021: due ragazze, sui vent’anni, prendono un treno, l’orario, oltre le 22, è “troppo rischioso” per salire da sole su un mezzo pubblico (tecnicamente sottoposto a sorveglianza), due uomini si avvicinano, una delle ragazze riesce a scappare, l’altra subisce pugni, violenza fisica e sessuale. Sarebbe accaduto lo stesso se avessero viaggiato di giorno, su un vagone più affollato, in presenza di altre persone? Probabilmente no.

Ciò a cui si assiste in Italia è un fenomeno sociale e culturale che costringe le abitudini femminili entro una rosa di regole che, se valicata, sembra ammettere ogni genere di barbaro comportamento e giustificare frasi come “te la sei andata a cercare”. L’esempio classico è quello dell’abbigliamento: gonne troppo corte, magliette troppo scollate, abiti troppo aderenti spesso vengono interpretati come un atteggiarsi “da poco di buono” e un facile concedersi. Spesso con malevolo pensiero verrebbe da pensare che una donna con indumenti succinti, magari ferma al lato del marciapiede oltre la mezzanotte, sia una prostituta.

Eppure potrebbe solo stare aspettando un passaggio per tornare a casa, ma sembra strano che dopo quell’ora, dopo una “certa ora” sia così, perché dopo una certa ora solo un certo tipo di donne esce di casa con un certo tipo di indumenti e con certe intenzioni, non vi pare? Un altro esempio frequente è il “non tornare a casa tardi”, come se dopo una certa ora come nei peggiori film dell’orrore spuntassero mostri e maniaci, e spesso pare essere proprio così, perché una ragazza deve stare attenta a uscire “da sola” oltre a un certo orario dal momento che “non si sa chi potrebbe incontrare”. Accade a Cinisello Balsamo il 6 aprile 2021, una diciannovenne scende dal bus per tornare a casa, è buio e “tardi”, l’aggressore la segue, la getta a terra colpendola con la cintura, le toglie pantaloni e slip. E’ stata una donna affacciata dal balcone a chiamare i soccorsi e a intervenire prima che si consumasse l’ennesimo caso di stupro in Italia, oltre 652mila secondo quanto rilevato da fonti Istat.

Altri due “grandi classici” sono “l’attenta alle persone cui dai confidenza” e il “non bere”, perché lo stato di incoscienza ti sottoporrebbe al rischio di essere abusata. Succede a Mantova il 22 settembre 2021, a 15 anni, una giovane viene abusata da un coetaneo in un locale, che ha pensato bene di poter “approfittare” dello stato di ebrezza e incoscienza della ragazza, certamente non consenziente.

INAMMISSIBILE

La casistica comprende un numero elevatissimo di esempi, di cui quelli riportati sono solo la punta dell’iceberg. Casi per giunta, tutti avvenuti nel corso del 2021, che evidenziano come il problema sia significativo e attuale. Alla proposta a seguito dell’episodio avvenuto sul treno Varese-Milano di cabine e vagoni solo per donne, sarebbe opportuno chiedersi, se sia normale in un paese democratico, tecnicamente civilizzato e istruito, oltre che sorvegliato da forze dell’ordine, imporre certo tipo di precauzioni (e limitazioni) verso le donne. Come può essere ammissibile che certe consuetudini comportamentali, dal tornare a casa, all’usufruire di alcolici, all’avvalersi di mezzi pubblici per tutto l’arco dell’orario di servizio, abitudini NORMALI, possa sottoporle, in quanto donne, a un alto rischio di stupro.

Sarebbe semmai opportuno chiedersi come intervenire su controlli di sicurezza ed educazione nelle scuole, nelle famiglie, nel lavoro, grazie ai mezzi di comunicazione e alla gravità delle condanne inflitte, per apportare concreti cambiamenti.
L’uscire di casa, come donna, a ogni ora del giorno è un diritto, e creare le condizioni per farlo in sicurezza e in libertà un dovere.

Fonti:
Corriere.it
IlGiorno.it
MilanoToday
Istat

Martina Tamengo

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Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.