La noia: romanzo e paradigma novecentesco

La noia: romanzo e paradigma novecentesco

La noia: romanzo e paradigma novecentesco

Da Leopardi a Schopenhauer, da Svevo a Joyce, la condizione dell’uomo moderno sembra alimentarsi di un sentimento di noia che priva l’individuo di ogni slancio vitalistico, condannandolo ad un taedium vitae perenne e incomunicabile. 

La noia: una vicenda incompiuta

“Ho già notato che la noia consiste principalmente nell’incomunicabilità”. Dino, è un giovane artista appartenente alla nobiltà romana, si è da poco trasferito in via Margutta, dove ha sede il suo fatiscente studio da pittore. Eppure la novità dello studio, la vivace realtà romana e la pittura non sembrano alleviare quella “noia” di cui afferma soffrire sin dai tempi dell’adolescenza.
A breve distanza dalla notizia della morte del pittore e vicino di studio Mauro Balestrieri, si presenta alla porta di Dino Cecilia, una ragazza tanto bella quanto inafferrabile, un tempo amante e modella del vecchio pittore. Tra i due sorge presto una relazione, ma come ogni aspetto nella vita di Dino, anche la bella Cecilia, istintiva e animalesca nel suo vivere nella mera ottica di soddisfare esigenze fisiche, gli viene rapidamente a noia. Una mattina Dino decide allora di darle appuntamento per porre fine alla relazione, ma Cecilia non si presenta, l’evento, l’impossibilità di possedere la ragazza, fa da miccia ad un’inarrestabile gelosia che travolge Dino.
Sempre più tormentato per la donna, Dino decide di pedinarla, venendo a conoscenza degli incontri della giovane con un altro uomo, l’avvenente attore Luciani. Nella speranza di placare la tormentata gelosia per Cecilia, Dino stabilisce al termine di ogni appuntamento di offrire denaro alla ragazza nella speranza che questa assuma ai suoi occhi i panni di una prostituta, indesiderabile e abbandonabile. Paradossale agli occhi di Dino, turbato e afflitto dall’incontrollabile gelosia, è il fatto che tanto più la giovane Cecilia mente e lo tradisce, tanto più lui se ne innamora.
Il pittore fa un ulteriore tentativo: forse, se si fosse sposato con Cecilia, la noia del matrimonio gli avrebbe portato tedio anche verso la giovane. Ma Cecilia ha bisogno di tempo per pensarci, e questo tempo viene trascorso a Ponza insieme a Luciani, in una vacanza pagata con il denaro di Dino.
Dino, consapevole di aver perso ormai ogni dignità e ragione, tenta il suicidio schiantandosi in auto contro un platano. L’esperienza ravvicinata della morte lo porta ad una svolta: non può cambiare la propria ossessione per Cecilia ma può solo accettarla, attendendone il ritorno per poterla incontrare ancora.

Uno squarcio sulla condizione borghese

Pubblicato nel 1960 presso Bompiani, La noia è certamente tra i romanzi più rappresentativi della poetica di Alberto Moravia, in continuità alla linea assunta già ne Gli indifferenti. A essere messo in scena è prima di tutto il problematico rapporto con la realtà della borghesia novecentesca, una borghesia in sfacelo, aggrappata a valori quali sesso e denaro.
Dino è un giovane pittore, tanto ricco quanto disincantato dal lusso. Ogni aspetto della sua esistenza gli dà noia, si aggrappa al sesso come entità su cui esercitare un possesso, ed è proprio questa concezione distorta che lo porta ad una svolta radicale nella propria vita. L’impossibilità di possedere Cecilia lo spinge a desiderare la noia, ma la noia è tanto inappagante quanto l’incapacità di lasciare davvero andare Cecilia, anzi: più cerca di liberarsene, più se ne innamora.

Filo conduttore dell’opera è quindi l’incomunicabilità, prima di tutto tra i due amanti: l’una del tutto aliena alla relazione, l’altro intenzionato a disinnamorarsi. Una storia d’amore che ruota non intorno all’affezione ma alla noia. Quello di noia è un concetto vago e indefinito, che ha bisogno di essere concretato in immagini: la tela bianca dell’artista annoiato dalla pittura, il disinteresse di una giovane a qualsiasi relazione che vada oltre una dimensione di fisicità, i vani tentativi di un uomo di porre fine ad un legame che tanto lo immerge nella vita quanto lo logora. La noia è inafferrabile, come Cecilia.

Il finale e il messaggio

Una possibile via di fuga, o forse alleviamento della propria condizione, si apre nel finale: accettare di convinvere con l’inafferrabile. L’epilogo di Moravia sembra quasi riportare alla mente quel pendolo che Schopenauer faceva oscillare tra dolore e noia, in una perenne condizione di instabilità fatta di rapidi barlumi di vitalità piena.

In questo senso Moravia descrive con abilità quel sentimento di male di vivere che domina la scena artistico-letteraria di tutto il Novecento europeo e che in un certo senso tocca ancora l’uomo contemporaneo. Andamento prosastico e apparentemente piatto delineano i contorni di una vicenda che scava nel profondo dell’animo umano per cogliere quello stato di incomunicabilità che permea l’uomo moderno circondato da una realtà piena di valori vuoti e di legami labili.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Gregor J. Mendel: la teoria dell’ereditarietà dei caratteri

Gregor J. Mendel: la teoria dell’ereditarietà dei caratteri

Gregor J. Mendel: la teoria dell’ereditarietà dei caratteri

Se oggi può sembrare familiare imbatterci anche nel linguaggio comune in termini come DNA, genetica, ereditarietà, altrettanto non era fino a due secoli fa. Quelli che per noi oggi sono concetti forse scontati, furono una delle più sensazionali scoperte della biologia nell’ambito dello studio dell’ereditarietà dei caratteri umani. A chi, e come, dobbiamo il merito di queste scoperte? 

Una mente poliedrica

A tutti quanti almeno una volta nella vita sarà capitato di sentirsi dire “assomigli proprio al papà”, oppure “hai gli occhi della nonna”: insomma, sapere di aver ereditato un qualche carattere da un parente più o meno stretto. Se per noi oggi risulta abbastanza scontato, non poteva dirsi altrettanto agli inizi del XIX Secolo. La formulazione di concetti quali ereditarietà dei caratteri, e successivamente di genetica e DNA la dobbiamo, infatti, agli studi intrapresi a cavallo tra prima e seconda metà dell’Ottocento dal matematico e biologo ceco Gregor Johann Mendel.

Chi era costui e soprattutto, come arrivò a questa significativa scoperta?
Gregor Johann Mendel nasce nel 1822 nell’attuale Repubblica Ceca. Terminati gli studi superiori, decide di prendere i voti ed entrare in monastero, dove condurrà il resto della propria vita sino alla morte, avvenuta nel 1884. Parallelamente alla vita di monaco, frequenta le facoltà di biologia e matematica presso l’Università di Vienna, affermandosi sulla scena scientifica internazionale. Una fervida curiosità e spirito di osservazione, lo portano a intraprendere studi in merito all’eredità biologica dei caratteri a partire da alcuni esperimenti svolti sulle piante di piselli nel giardino del monastero.

Dagli esperimenti condotti, deriveranno conseguenze importanti, in quanto Mendel riuscirà a formulare quelle che oggi sono meglio note come leggi della trasmissione ereditaria dei caratteri, alla base della moderna genetica. È bene tenere a mente che con Mendel tuttavia non si può ancora parlare propriamente di genetica, disciplina che prenderà forma compiuta solo a partire dal 1906 attraverso l’opera di William Bateson.

La formulazione della teoria

Mendel dovette il successo della propria teoria anche al fatto che per la prima volta applicò la matematica allo studio della biologia attraverso l’uso di statistica e calcolo della probabilità.

La tesi di partenza sostenuta dal monaco presupponeva che alla base dell’ereditarietà dei caratteri vi fossero fattori specifici nei genitori.
Gli studi di Mendel presero dunque avvio a partire da osservazioni compiute sulla pianta dei piselli. Essa consentiva, infatti, una serie di vantaggi: facilità di coltivazione, possibilità di controllo dell’impollinazione ed esistenza di numerose varietà. Mendel individuò sette “linee pure”, o varietà di pisello, classificate in base a colori di seme e baccello, forme di seme e baccello, caratteristiche e colore dei fiori, lunghezza dei fusti. Quindi, condusse i propri esperimenti impollinando a sua libera discrezione i fiori della pianta. Numerose furono le impollinazioni effettuate, al fine di poterle meglio classificare.

Per l’impollinazione Mendel partì da due varietà o linee pure di pisello del tutto differenti incrociando le varietà per caratteri specularmente opposti: per esempio una pianta a fiori rossi con una a fiori bianchi, notando che la prima generazione di piante derivante dall’incrocio (F1), presentava solo uno dei caratteri delle generazioni parentali (P), arrivando a concludere che quel carattere potesse dirsi “dominante” rispetto all’altro.
In un secondo momento, incrociò le piante della prima generazione (F1) osservando che, nella successiva generazione (F2), ricomparivano caratteri che in F1 sembravano essere andati perduti. Comprese quindi che quei caratteri non erano scomparsi, ma – semplicemente – erano stati oscurati dai caratteri definiti appunto “dominanti”, e gli attribuì il nome di “recessivi”.

È bene a questo punto introdurre un concetto, che troverà maggiore chiarezza in seguito: l’allele.
Noi oggi sappiamo che il DNA – tanto per le piante quanto per gli esseri umani – è costituito coppie omologhe di cromosomi, ciascuna composta da un cromosoma di origine paterna e dal corrispondente di origine materna. Quindi, in ciascuna coppia di cromosomi, uno dei due riporta una copia del gene di origine materna, l’altro la copia del gene di origine paterna. Queste due copie di geni parentali prendono rispettivamente il nome di alleli (materno o paterno) e condizionano i caratteri ereditati dai figli.

 Lo sviluppo della teoria

Dunque a partire dai dati raccolti attraverso gli esperimenti di impollinazione, e meglio interpretati attraverso calcolo della probabilità e uso della statistica, Mendel arrivò a formulare tre leggi:

  • legge della dominanza dei caratteri
    un incrocio tra individui che differiscono per un solo carattere genera in F1 (la prima generazione) degli ibridi uguali, ossia individui che manifestano solo uno dei fenotipi (o caratteri) dei genitori. Il fenotipo trasmesso, ovvero il carattere parentale trasmesso e manifesto anche nei figli, è chiamato “dominante”;
  • legge della segregazione
    incrociando gli ibridi uguali della prima generazione (F1) gli alleli che controllano un determinato carattere si separano, venendo così trasmessi a cellule sessuali (o gameti) distinte. Quindi il rapporto tra carattere dominante e recessivo nei piselli di seconda generazione (F2), risultava essere: 3/4 di individui con carattere dominante e 1/4 di individui con carattere recessivo. Questo stava a significare che nella generazione F2, ricompariva il carattere oscurato in F1;
  • legge dell’assortimento indipendente
    alleli corrispondenti a due caratteri diversi, si trasmettono alla prole in modo indipendente l’uno dall’altro, generando nuovi fenotipi (o caratteri).

Le leggi formulate da Mendel facevano riferimento a quei caratteri ereditari definiti come caratteri monofattoriali (ovvero determinati da un singolo gene e dei suoi alleli).

Le conclusioni

Le conclusioni cui arrivò Mendel furono quindi che i caratteri apparentemente persi in un determinato passaggio generazionale possono ricomparire in una generazione successiva. Questa affermazione gli consentì di dimostrare che l’eredità non era quindi una semplice mescolanza di caratteri parentali bensì che i caratteri ereditari erano trasmessi come entità distinte, distribuiti e riassortiti in modo diverso in ogni generazione. Per intenderci, da due genitori entrambi castani, potrebbe nascere un figlio biondo se nel patrimonio genetico di entrambi i genitori è presente un carattere “recessivo” di tipo biondo, non manifestatosi nei genitori, ma presente per esempio nei nonni.

La conseguenza di questa intuizione fu la possibilità di affermare l’esistenza di un preciso codice genetico trasmesso per via ereditaria dai genitori ai figli. Le scoperte di Mendel non ebbero tuttavia un immediato successo presso la comunità scientifica, a dimostrarlo fu il fatto che negli stessi anni Charles Darwin formulò una propria teoria sull’ereditarietà ignorando del tutto le formulazioni di Mendel.

Fu solo a inizio Novecento che vennero ripresi gli studi del monaco ceco e integrati alla teoria dei geni di Johannsen, dando avvio a quella che oggi è meglio nota come genetica. Infatti, quelli che Mendel chiamava “caratteri” e che considerava essere trasmessi ereditariamente, erano in realtà derivati dei caratteri stessi, quelli che Johannsen identificò appunto come “geni”.
L’importanza delle conclusioni di Mendel resta tuttavia indiscussa. Le sue scoperte posero infatti le basi per la successiva e più significativa scoperta del DNA, l’impronta genetica caratteristica di ciascun individuo.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

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Il commissario Montalbano: un’affascinante “pseudo-sicilianità”

Il commissario Montalbano: un’affascinante “pseudo-sicilianità”

Il commissario Montalbano: un’affascinante “pseudo-sicilianità”

Quella della serie Il commissario Montalbano è una lingua che si costituisce come perfetta incastonatura di italiano puro e dialetto siciliano, è un ponderato equilibrio in cui ogni termine assume la medesima rilevanza, getta il lettore nel pieno della suggestiva realtà linguistica siciliana senza mai perdere la propria comprensibilità di dettato.

Il commissario Montalbano: i romanzi

Esce nel 1994 il primo romanzo della serie Il commissario Montalbano, nata dalla penna di Andrea Camilleri, in omaggio allo spagnolo Manuel Vázquez Montalbán, celebre autore di gialli. La saga appartiene al genere del romanzo poliziesco, ambientata nell’immaginaria cittadina siciliana di Vigata vede come protagonista il commissario di polizia Salvo Montalbano.
Salvo è un antieroe: avido lettore, ha modi burberi e sbrigativi, ma certamente è un abile investigatore. Spesso coinvolto in incalzanti indagini, grazie al proprio ingegno e a qualche dose di fortuna, riesce a sventare anche i più complessi casi. Il lettore è completamente travolto da una narrazione che immerge nel pieno della realtà, e della malavita, siciliane ma al contempo nella bellezza dei paesaggi dell’isola e nel fascino locale della sua lingua.

Non si tratta di un autentico dialetto siciliano quello messo in campo dall’autore, ma di una ibridazione tra lingua italiana e dialetto siciliano. Quella che è definibile come pseudo-sicilianità della lingua di Camilleri, conferisce una patina locale alla narrazione, i personaggi e i luoghi acquisiscono una delineata identità sicula ma al contempo si mantengono nel campo della comprensibilità.

La lingua ibrida del commissario

Non un autentico dialetto dunque, ma una lingua composta da neologismi e ibridazioni. Non stupisce che la lingua di Camilleri sia divenuta oggetto di studio, i meccanismi che l’autore mette in atto rivelano una precisa attenzione linguistica che non si limita alla riproduzione della forma locale.
Ma quali sono dunque le strategie linguistiche più frequentemente riscontrabili nei romanzi del commissario Montalbano?

  1. Diversa assegnazione di significato: l’autore attribuisce un differente valore semantico, rispetto all’uso corrente, a svariati termini dialettali siciliani. Per esempio scatàscio da “guaio” assume il significato di “gran fracasso”.
  2. Falsi sicilianismi: per esempio il mandillo non è un dialettismo bensì un vocabolo antico che, derivato dall’arabo, starebbe ad indicare il “fazzoletto”.
  3. Parole prive di etimo conosciuto: ad esempio la calatina starebbe a significare il “companatico”.
  4. Parole derivate da autori di spicco: si pensi a incatricchiato, termine pirandelliano dal significato di “avvolgere”.
  5. Voci direttamente attinte dal dialetto siciliano: ricorrenti la voce travagliare che indica appunto il “lavorare” oppure quella di femmina che designerebbe più in generale la “donna”.
  6. Dislocazioni dell’ordine delle parole all’interno della frase, un fenomeno altamente presente nei dialetti meridionali, come stavo sognandoti in luogo di “ti stavo sognando”.
  7. Ricorso a gerghi polizieschi e malavitosi, in accordo al genere del romanzo.

La lista sarebbe lunga, ma ciò che forse è più interessante considerare sono due aspetti della lingua di Montalbano:

  • inclusività, poiché anche un lettore digiuno di dialetto siciliano può entrare facilmente in confidenza con questa lingua e i suoi modi;
  • plurilinguismo, quello utilizzato è un linguaggio che ibrida tradizioni linguistiche e scelte lessicali, producendo un effetto di folklore e conferendo una patina locale all’intera narrazione.

La serie tv

Il successo fu tale che la saga di romanzi venne ben presto trasformata in serie televisiva dalla Rai. È datata al 1999 l’uscita della prima stagione, alla quale ne sono conseguite ben quindici. Un grande successo televisivo che vede come protagonista indiscusso nel ruolo di Salvo Montalbano l’ormai noto attore, oltre che allievo dello stesso Camilleri presso l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, Luca Zingaretti. Gli episodi della serie riprendono abbastanza fedelmente la narrazione romanzesca, tuttavia in termini linguistici sono stati marcati alcuni fenomeni (come la posposizione del verbo) al fine di enfatizzare la patina siciliana della lingua.

Andrea Camilleri grazie a questa lingua ibrida di nuova formazione conia un proprio dialetto, una lingua degli affetti del tutto personale, uno strumento di espressione del sentimento e del palpito più vivo dei personaggi che animano la pagina e l’intera vicenda, pienamente immersi nel suggestivo e peculiare paesaggio siculo.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

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Klimt e l’irrisolto mistero di Ritratto di signora

Klimt e l’irrisolto mistero di Ritratto di signora

Klimt e l’irrisolto mistero di Ritratto di signora

Ritratto di signora è certo tra le tele più affascinanti di Gustav Klimt, un doppio mistero avvolge l’opera e un incredibile ritrovamento ne ha reso possibile nuovamente la sua esposizione al pubblico. Ma quale storia si cela dietro alla misteriosa scomparsa del tanto discusso dipinto?

La storia di Ritratto di signora

Ha carnagione candida e gote arrossate, fa contrasto alla lucentezza del viso una chioma raccolta di un nero frammisto al blu. La misteriosa donna non guarda allo spettatore, il collo leggermente torto a sinistra allunga lo sguardo oltre la tela, lasciando a chi la ammira il dubbio su dove i pensieri e lo sguardo della giovane siano diretti. Indecifrabile l’espressione del volto. Porta una veste tra il bianco e l’azzurro percorsa da chiazze di vari colori. Lo sfondo, privo di definitezza, lascia risaltare ancora di più il viso della donna, avvolto da un mistero forse destinato a restare eternamente irrisolto.

L’opera Ritratto di signora venne realizzata da Gustav Klimt a Vienna tra il 1916 e il 1917. Acquistata nel 1925 dal prestigioso collezionista piacentino Giuseppe Ricci Oddi, la tela fu conservata nella città di Piacenza fino all’anno 1997 quando, misteriosamente, scomparve dalla Galleria intitolata all’omonimo collezionista, lasciando la città e il mondo intero a interrogarsi in vano su quale fosse stata la sua sorte.

Il doppio mistero

Un anno prima della sparizione, una giovane studentessa piacentina aveva ravvisato nello sguardo della donna raffigurata una profonda somiglianza a un altro ritratto femminile dell’artista viennese, andato perduto. L’ipotesi rafforzata a seguito di ulteriori indagini radiologiche fu dunque che, sotto al Ritratto di signora si celasse un ulteriore ritratto di ragazza, raffigurante una giovane con indosso un cappello dai tratti somatici affini a quelli del ritratto di donna esposto in Galleria. L’ipotesi fu confermata. La tela di Ritratto di signora doveva celare un ulteriore dipinto: Ritratto di ragazza, scomparso da tempo dopo un’ultima sua esposizione a Dresda nel 1912.

Ma nulla di più si poté fare, Ritratto di signora venne misteriosamente trafugato dalla Galleria Ricci Oddi nel febbraio del 1997 perdendone ogni traccia, o quasi. Il caso volle, infatti, che l’opera fosse ritrovata dopo oltre vent’anni nel giardino della stessa galleria. Sembra un bizzarra e paradossale storia ma le cose sono andate proprio così. Durante alcune operazioni di manutenzione del giardino nel 2019, in un anfratto dello stesso, fu ritrovato da alcuni operatori il ritratto perduto. Il mistero dunque si infittisce.
È infatti difficile pensare che per tutto questo tempo l’opera possa essere rimasta in un piccolo vano del giardino della Galleria senza subire danni da intemperie e sbalzi di temperatura. Nessuno mai aprì in tutti questi anni lo sportello dell’intercapedine? Chi e come ha rubato il quadro e chi, dopo anni, lo ha riposto lì? La vicenda ha del romanzesco.

Le indagini a seguito del ritrovamento hanno consentito dopo giorni di attesa di provarne l’autenticità. Il valore del dipinto è inestimabile e la sua bellezza indiscutibile. Tornare ad ammirare l’opera oggi, ha un sapore del tutto nuovo, concede un brivido e accende l’immaginazione.

La mostra

La Galleria Ricci Oddi ha dunque deciso di riesporre l’opera, compresa all’interno di una più ampia mostra su Gustav Klimt tenuta nella galleria stessa dal 12 aprile al 24 luglio 2022. La mostra unisce passato e futuro, ripercorrendo la storia dell’artista consente di ammirare accanto al dipinto ritrovato anche altre opere dalla straordinaria bellezza tra le quali il Fregio di Beethoven. Effetti di specchi e di illuminazione contribuiscono a calare lo spettatore in un’atmosfera quasi onirica.

Le indagini in merito alla sparizione del ritratto sono tutt’ora in atto, difficile dire se mai sarà possibile pervenire ad una risoluzione definitiva. Forse l’opera vuole proprio questo, celare il proprio mistero, quello del doppio ritratto e quello della scomparsa, affascinare i propri spettatori e invitarli a interrogarsi su una verità che chissà se verrà mai raggiunta.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Paul Gauguin, l’arte capace di accettare l’inesorabile decorso dell’esistenza umana

Paul Gauguin, l’arte capace di accettare l’inesorabile decorso dell’esistenza umana

Paul Gauguin, l’arte capace di accettare l’inesorabile decorso dell’esistenza umana 

Conosciuto per la bellezza innocente delle sue donne polinesiane, Paul Gauguin seppe coniugare nella sua arte amore per la vita e accettazione della condizione terrena. Punte di spiritualismo e colori vividi descrivono un percorso interiore in costante equilibrio tra sentimento e lucida analisi.

Paul Gauguin ricorre a tre lapidarie domande esistenziali per dare il titolo a ciò che è messa in scena di un ciclo di esistenza universalmente condiviso e al contempo testamento spirituale di un artista.

La lettura, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, comincia a partire dalla sezione destra della tela. È posta una prima domanda: Da dove veniamo? Un bambino dorme, il suo sonno è spensierato e privo di angosce, due donne vegliano su di lui. Poco più indietro, una figura accovacciata si volta con sguardo attonito verso due giovani assorte nel riflettere, forse sul loro destino. Ma ecco che incalza una nuova domanda: Chi siamo? Al centro della scena, un giovane nel pieno del vigore della giovinezza, raccoglie un frutto, carpendo con esso i piaceri della vita. Il balzo è rapido, perché segue immediato un ultimo e più doloroso interrogativo: Dove andiamo? Un’anziana donna tiene tra le mani il volto, la carnagione è spenta, accanto a lei siede una giovane. Forte è il contrasto tra due distinte età della vita. L’anziana tuttavia accetta il proprio destino, futili sarebbero vuote parole consolatorie, la cui inutilità è ben resa dall’uccello bianco che trattiene inesorabilmente tra le zampe una lucertola. Dietro di loro sta Hina, dea lunare polinesiana simbolo di femminilità e vitalistica creatività.

Dodici figure si distribuiscono complessivamente sulla scena di Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? secondo un perfetto equilibrio di disposizione che contrappone e accosta insieme le diverse età della vita.
Sullo sfondo dai toni magico-religiosi si interseca un simbolismo che in parte si rifà a riferimenti biblici. Il giovane al centro coglie un frutto, il suo gesto evoca alla mente quello compiuto da Eva nel giardino dell’Eden. In parte attinge dal primitivismo di realtà incontaminate come la Polinesia e l’isola di Giava, come evidenzia sullo sfondo la figura a petto nudo di Hina.
Realizzata intorno al 1897 su tela, l’opera Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? si configura come una ricerca di spiritualità priva di adesione mimetica alla realtà.
Scrive Gauguin:
«Prima di morire ho trasmesso in questo quadro tutta la mia energia, una così dolorosa passione in circostanze così tremende, una visione così chiara e precisa che non c’è traccia di precocità e la vita ne sgorga fuori direttamente».
L’opera manca di prospettiva geometrica. In primo piano stanno i colori più caldi, un giallo acceso contrasta ai blu, verde e azzurro dello sfondo. Manca il chiaroscuro. La tecnica adottata prende il nome di cloissoniste: zone di colori intensi sono delimitate da nette linee di contorno.

Testamento spirituale di Gauguin, l’opera ne assomma i principali motivi stilistici ed espressivi, summa di un’arte antinaturalisita per eccellenza, precorritrice di Simbolismo, Fauvismo ed Espressionismo primonovecenteschi. Si tratta di un modo di fare pittura marcatamente soggettivistico. Gauguin elabora uno stile che fa del colore uno strumento evocativo di sentimenti ed emozioni. Su quella linea diventata nota come post-impressionismo, l’opera d’arte riproduce la natura non per come è vista, ma per come è sentita dall’autore. Il colore e le immagini diventano esternazione rielaborata dell’interiorità dell’artista, acquistano un potere evocativo capace di esprimere un’acuta sensibilità.

Gauguin desidera evadere dalla società per ritrovare un mondo più puro e incontaminato. Convinto del fatto che la vita moderna arrechi all’uomo un disagio esistenziale, questi ormai assorbito dal caos della modernità, assiste a uno sgretolarsi di ogni rapporto autentico e profondo.
Questa percezione, fortemente sentita dall’artista, ne giustifica la fuga verso una civiltà incorrotta quale era quella della Polinesia.
Nato a Parigi nel 1848, Paul Gauguin trascorre i primi anni della sua infanzia in Perù. Tornato in Europa, ha contatti con l’Impressionismo e stringe in particolare amicizia con Vincent Van Gogh con il quale trascorre un lungo periodo ad Arles. Un rapido susseguirsi di eventi quali la rottura con Vincent, le crescenti difficoltà economiche e la morte della figlia Aline, spingono l’artista a scegliere di abbandonare definitivamente l’Europa alla volta della Polinesia. Qui trascorrerà il resto della propria vita sino al 1903, dove muore nel carcere dell’isola di Hiva Oa, dopo essersi opposto alla politica razzista allora vigente.

Quella di Paul Gauguin è un’arte permeata di simbolismo, evocatività, bisogno di evasione e capacità di riflessione. Un mondo riprodotto con lo sguardo di chi in grado di osservare al di là dell’apparenza, rielabora i contorni della realtà attingendo alla superficie più profonda della propria interiorità.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.