Quello che gli uomini non dicono

Quello che gli uomini non dicono

Quello che gli uomini non dicono

Gli uomini sono violenti, gli uomini sono i carnefici, le donne invece sono sempre le vittime. In un clima sociale di violenta, e spesso legittima, rivendicazione di quei diritti femminili a lungo negati nel corso dei secoli, c’è qualcosa che gli uomini non dicono. Anche gli uomini infatti subiscono violenza, anche le donne sono carnefici, ma di questo nessuno parla.

Violenza sugli uomini: un tabù sociale

Sempre più si grida all’uguaglianza, ai pari diritti, alla rivendicazione dell’equità di genere, ma a tante seducenti parole non corrispondono fatti. Collocati come siamo in una società sempre più indirizzata al riconoscimento dell’uguale dignità dei sessi, appare decisamente retrograda e ottusa una condotta di pensiero che non riconosca come anche gli uomini, sebbene in misura minore, subiscano violenza di vario genere da parte del sesso opposto. Un tipo di violenza di cui ancora pochi parlano.

La questione della violenza contro gli uomini è stata recentemente oggetto di dibattito da parte del Consiglio d’Europa, in rispetto alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. In questa sede il fenomeno della violenza sul sesso maschile è stato definito una “violazione dei diritti umani, ma anche un ostacolo all’eguaglianza tra donne e uomini”.

Procediamo con ordine: quello della violenza sugli uomini costituisce tutt’oggi un forte tabù sociale difficile da scardinare, fondato sullo stereotipo del “sesso maschile come sesso forte”.
È la stessa ideologia femminista a perpetuare questo stereotipo, rivendicando l’esclusività della violenza di genere come un tipo di abuso esercitato solo sul genere femminile, e ribadendo come nessuna forma di violenza sugli uomini sia equiparabile a quella sul sesso opposto. Uguaglianza oppure ottusità?
Neppure le donne infatti sembrano essere esenti dall’accusa di essere “violente”. Spesso la loro violenza si esercita sì in forme diverse ma, se è vero che l’abito non fa il monaco, anche ciò che non è immediatamente visibile ha un peso. Nonostante ciò, la violenza esercitata da parte delle donne viene frequentemente banalizzata. Questo in virtù del fatto che il sesso femminile sembra costituire sempre e solo il sesso più debole, in un certo senso perpetuando in tal modo proprio quella concezione maschilista e patriarcale che fa della donna un essere sottomesso, debole, “inferiore”.

Le forme più diffuse

Quali sono dunque le forme più diffuse, ma poco conosciute, di violenza esercitata da parte delle donne (e delle società) sugli uomini?
Sicuramente al primo posto sta la violenza domestica. Nel 1996 venne pubblicato uno studio dal titolo Aggressive Behaviour avvalendosi di un campione di 1978 donne e uomini eterosessuali: del campione risultò che il 10% degli uomini e l’11% delle donne avevano commesso atti di violenza sul partener. La violenza domestica di parte femminile si esercita prevalentemente in forme di denigrazione del partner (sulle sue capacità famigliari, sessuali, economiche, genitoriali) fino all’alienazione parentale nel caso delle coppie con figli: ovvero la privazione dei figli da parte delle madri per mesi o anni. Questo non esclude che la violenza possa tuttavia essere esercitata anche in forma fisica, colpendo o infliggendo ferite con armi, pistole, coltelli, acqua bollente, acido, mazze. Le aree predilette per l’aggressione sono la faccia e la regione genitale, con non certo poche conseguenze fisiche e psicologiche sulla vita futura della vittima.

Non meno rilievo va al fenomeno della violenza sessuale sul genere maschile, perpetuata da donne e non. L’OMS ha stimato un’incidenza del 7,6% di abusi sessuali infantili nei confronti dei maschi su scala globale.
Estremamente accentuato inoltre, risulta essere il fenomeno dello stalking. Sebbene raramente lo stalking femminile degeneri nella forma della violenza fisica, esso si caratterizza per un forte livello di caparbietà e insistenza, logorando a livello psicologico la vittima.

Un tabù dunque di cui sono vittima gli uomini, spesso riluttanti a denunciare la violenza subita o a rivolgere richieste di aiuto. Questo generalmente determina due altrettanto drammatiche conseguenze: da un lato l’uomo subisce silenziosamente fino al totale logoramento, dall’altro reagisce esercitando altrettanta violenza di tipo fisico sulla donna, ingigantendo ulteriormente la problematicità di una situazione evidentemente deviata. Tutto questo non fa altro che confermare lo stereotipo degli uomini che praticano violenza (violenza che rimane non giustificata e non legittimabile) e che non possono, non hanno il diritto di denunciare e di tutelarsi.

Equità diseguale

Nella comune percezione sociale infatti, le ragioni del diverso peso dato al medesimo fenomeno sarebbero da attribuirsi alla maggiore forza fisica posseduta dal maschio, tendenzialmente più condannata e maggiormente oggetto di provvedimenti legali rispetto ad altre forme di violenza. Sebbene la gravità sia innegabile, non può esserle attribuito un peso diverso da qualsiasi altra forma di sopruso.
Il caso Italia conferma il diverso trattamento. Basta aprire il sito del Governo (Ministero degli Interni) e alla voce “violenza di genere” apparirà la seguente definizione:

Con l’espressione violenza di genere si indicano tutte quelle forme di violenza da quella psicologica e fisica a quella sessuale, dagli atti persecutori del cosiddetto stalking allo stupro, fino al femminicidio, che riguardano un vasto numero di persone discriminate in base al sesso.

Se per “genere” si intende l’appartenenza a un sesso, perché la violenza di genere concerne solo atti di violenza rivolti al sesso femminile? Una prima indagine sulle violenze contro il sesso maschile in Italia è stata condotta nel 2012 a opera del docente di medicina legale presso l’Università di Arezzo Pasquale Giuseppe Macrì. La prima indagine Istat inerente alle molestie sessuali sugli uomini risale invece al 2015-16. Dall’indagine è risultato che il 18,8% delle vittime di molestie sono uomini, un dato non così irrilevante corrispondendo circa a un quinto delle vittime totali.
La legge dunque non tutela e gli uomini devono tutelarsi da sé. In Italia si possono ricordare associazioni come AVU (Associazione Violenza sugli Uomini) e APS (Associazione Padri Separati). Quest’ultima in particolare, nata con l’obiettivo di tutelare tutti quegli uomini che dopo separazioni o divorzi subiscono costanti vessazioni psicologiche e legali dalle ex-partner, spropositatamente tutelate dalla legge anche a torto.

Una società che voglia andare nella direzione della parità e degli uguali riconoscimenti, non può limitarsi a tutelare solo una parte dei suoi componenti. La società odierna non è solo quella maschilistica e patriarcale che relega, o vorrebbe relegare, le donne a una misera subordinazione domestica e salariale. Che sia stato e sia tutt’ora così è innegabile, ma non è possibile fermarsi a questo. Neppure il sesso maschile è esente da violenze e discriminazioni. Di questo poco si parla e su questo tema scarse sono le tutele, ma la parità dei diritti non può passare attraverso il cieco esigere a danno dell’altro.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Telegiornale o Teleterrore? Le belle notizie si sono estinte

Telegiornale o Teleterrore? Le belle notizie si sono estinte

Telegiornale o Teleterrore? Le belle notizie si sono estinte

Guardare un telegiornale nel 2022 è diventata una prova di stomaco e di resistenza emotiva. Se si ha avuto una giornata no, e non la si vorrebbe peggiorare, o se soltanto si intende preservare un briciolo di serenità, allora la scelta migliore è quella di tenere la televisione spenta. Soprattutto se l’intenzione sarebbe quella di accenderla per tentare di “informarsi” su cosa stia succedendo nel mondo.

Il terrorismo dell’informazione

Nell’era del digitale, dell’informazione facile e accessibile a tutti, della divulgazione rapida attraverso il web, sembra proprio che i telegiornali abbiano perso non solo la loro importanza, ma abbiano anche dimenticato la loro funzione: informare. Sorvolando sulle dinamiche partitiche che si collocano nell’ombra di ogni telegiornale emesso dalle differenti reti televisive italiane – e conseguentemente dell’indirizzamento e manipolazione dell’informazione messi in atto, volti a portare lo spettatore a propendere per un determinato orientamento politico – ciò che ha ancora più dello sconcertante è la modalità di presentazione delle stesse informazioni. Ebbene sì, perché assistere a un telegiornale nel 2022 è rendersi passivi spettatori di una carrellata di notizie negative, avvilenti e sconfortanti che sembrano essere l’anticamera di un film dell’orrore. A ben vedere da ciò che ci viene presentato dai telegiornali, viviamo in un mondo di corrotti politici, stupratori, assassini, disastri ambientali, disastri economici, guerre e nient’altro. Le belle notizie si sono estinte.

L’informazione di “bassa qualità”

Non è difficile arrivare a questa conclusione, non estrema ma drammaticamente realistica, se si osserva un qualsiasi telegiornale trasmesso nelle “ore di punta” quali le 12/13 e le 20, come se ci fosse un macabro gusto nel rovinare il pasto all’inerme spettatore. Generalmente la carrellata di “brutte notizie” si apre sulla sezione politica o su quella emergenza (Covid-19, guerra, clima, insomma tutto ciò che può incutere subitaneo terrore). Politici agguerriti urlano ai microfoni di giornalisti passivi le loro proposte di propaganda politica, di riforme inattuabili, lotte di partito, una gara a chi accaparra di più. Lo spettatore medio ha una bassa considerazione della classe politica che dovrebbe rappresentarlo e, il giornalista non-giornalista, non rivolge domande sensate, provocatorie e propositive al politico di turno, ma si limita a inutili domande di circostanza come “quali sono le sue proposte per le prossime elezioni, per la tale riforma, ecc.?”. Insomma, nessuno che ponga gli interrogativi che ci aspetteremmo di sentire, né tanto meno che faccia delle interviste considerabili tali. Ma il siparietto politico è solo l’antipasto di una carrellata di portate che oscillano dalla cronaca nera, agli omicidi, le catastrofi climatiche e qualche guerra nel mondo di cui non si parlava da mesi ma che sembra essere l’unica notizia sufficientemente drammatica trovata per l’occasione. Perché sì, diciamocelo, a nessuno interessa conoscere di quel furto tenutosi nel più disperso paese della Pianura Padana, e francamente in un giornale della durata di mezz’ora non vorremmo solo sentirci raccontare notizie relative a omicidi, stupri e cataclismi.
Il punto è un altro, le informazioni che generano terrore attirano l’audience, sollecitano l’attenzione dello spettatore medio che privo di sguardo critico anela l’ennesima notizia shock che scardini la monotonia della giornata con un brivido di paura per la propria incolumità. Il giornalismo lo sa, e possiede quest’arte molto di più della capacità di fornire della vera informazione, dunque cavalca l’onda degli ascolti fondandoli su notizie a bassa resa informativa e di scarsissima qualità.

Un reale diverso da quello presentato

Dulcis in fundo, dopo aver ripercorso il memoriale di un qualche evento luttuoso, l’anniversario di un qualsiasi sterminio anche avvenuto nel Medioevo, ogni buon telegiornale che si rispetti conclude la sua carrellata di raccapriccianti notizie con un barlume di positività. Generalmente la news conclusiva consiste in un servizio di due, al massimo tre, minuti su qualcosa che non interessa a buona parte degli spettatori, e che spesso fa cambiare canale ancora prima che il telegiornale sia terminato: qualcosa tipo “il ritrovamento dell’ultima specie di corallo che si considerava estinta da almeno duemila anni”.
Non esistono più le belle notizie? Oppure non le vogliamo e sappiamo più ascoltare. I telegiornali, dovrebbero essere appunto dei “giornali trasmessi in televisione”, capaci di veicolare notizie e informazioni di ogni tipo, che spazino dalla cronaca più nera a qualche interessante scoperta della scienza o gesto altruistico che si è verificato nel mondo, ritrovamenti di opere d’arte e molto altro ancora. Invece sembra che ci stiamo dimenticando del buono dell’umanità e del mondo, relegato agli ultimi cinque minuti di un telegiornale generalmente concluso con un “buon proseguimento di serata”, quando francamente quella serata sembra proprio essere stata rovinata. Schiacciati da un’immagine del mondo che sembra tendere solo al negativo, non facciamo che vivere da spettatori un mondo che non soddisfa le nostre attese. Eppure quel mondo è spesso un’immagine fornita da uno schermo che solo parzialmente ha a che vedere con ciò che sta fuori dalla porta di casa. Il giornalismo e l’informazione, quelli definibili tali, accrescono il patrimonio di conoscenze e consapevolezza critica dei cittadini, non tengono una parte cospicua di popolazione soggiogata in una parentesi di informazioni che è solo una minima, e drammatica, parte di ciò che ci accade intorno. Questo non è giornalismo, ma teatro dell’orrore.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Le voyage, un invito all’abbandono

Le voyage, un invito all’abbandono

Le voyage, un invito all’abbandono

L’oppressione del tempo, la finitezza del mondo, l’incolmabile tensione inappagata verso un altrove che non possiede né un quando né un dove. Quando l’anima tende all’infinito gravata dall’insuperabile limitatezza dell’umano, il viaggio verso l’ignoto che alla morte si accompagna appare il più seducente approdo.

Les Fleurs du mal

Pubblicata in prima edizione nel 1857, la raccolta di componimenti I fiori del male costituisce un vero e proprio invito alla dissolutezza, a infrangere il limiti della morale condivisa in nome del perseguimento di un più alto Assoluto. L’opera si impernia intorno a quelli che sono i temi più ricorrenti del suo autore, Charles Baudelaire, quali peccato, satanismo, tensione all’inconnu, amore carnale e morte.

Charles Baudelaire fu da sempre etichettato come autore immorale, il depravato poeta dedito all’alcol, al sesso e al culto di una deviata religione ruotante intorno a un Assoluto non cristiano. L’etichetta di infrazione della morale costituisce tuttavia un parziale limite, seppure veritiero, all’interpretazione dell’opera baudleriana.
Quella del poeta che conduce la sua flanerie tra le vie di Parigi, è un’acutezza di spirito che lo porta a tentare di oltrepassare i limiti dell’umano per pervenire a segrete corrispondenze tra le cose del mondo che conferiscano un significato superiore, profondo, inconoscibile ai più, sui profondi legami che nella realtà si celano. Le corrispondenze baudleriane stanno ad esprimere significati più alti, difficili da cogliere, che richiedono un oltrepassamento della materialità terrena e che al contempo impongono al poeta che le insegue un profondo senso di inadeguatezza nel mondo. Lo spleen non è altro che il malessere derivante dalla costante incompiutezza che caratterizza la vita del poeta, circondato da uomini incapaci di innalzare il proprio spirito a più reconditi significati.

Le voyage 

I fiori del male si sviluppa dunque come la messa in pratica di svariati tentativi di evasione da una condizione che imprigiona e limita l’uomo dotato di una sensibilità superiore. L’unico definitivo approdo cui il poeta può pervenire per cercare di toccare con mano l’inconoscibile di cui nessun mortale ha mai potuto narrare è il viaggio verso la morte. Così si intitola dunque l’ultimo testo della raccolta, Le voyage: “il viaggio”. La poesia è dedicata all’amico Maxime du Camp e costituisce una sorta di implosione del desiderio di esplorazione dell’inconnu, il malessere dell’esistere portato alle sue estreme conseguenze che assume la forma di un completo abbandono alla morte e all’ignoto. Le voyage è dunque il viaggio verso la morte vissuta come unico appiglio nella speranza di trovare oltre la vita qualcosa che colmi un sentimento esistenziale di tensione inappagata.

L’estremo transito non è concepito come eterno riposo, ma come movimento, mezzo di evasione, un condottiero che guidi a nuovi lidi. Ecco dunque che la morte all’interno della poesia viene personificata in un vecchio Capitano, interlocutore di Baudelaire:

O Morte, vecchio capitano, è tempo! Leviamo l’ancora!
Questo paese ci annoia, o Morte! Salpiamo!
Se cielo e mare sono neri come inchiostro,
I nostri cuori che tu conosci sono colmi di luce!
Versaci il tuo veleno affinché ci riconforti!
Noi vogliamo, tanto questo fuoco ci brucia il cervello,
Tuffarci giù nel gorgo profondo, sia l’Inferno o il Cielo, che importa?
Giù nell’Ignoto per trovare del nuovo!

L’approdo finale 

Il poeta in costante equilibrio tra spleen et ideal deve annegare nelle acque dell’inconnu per ritrovare l’originario Assoluto cui la sua vita ha sempre teso. Il testo di Le voyage è il più lungo della raccolta e ogni strofa incalza nuovamente l’invito all’abbandono. L’esortazione è quella di lasciarsi andare al ritmo delle onde cullando il nostro infinito sull’infinito dei mari, l’infinito cui l’animo dell’uomo dotato di sensibilità tende, l’infinito anelato che non può neppure essere sfiorato fin tanto che l’individuo percorre le comuni strade dei mortali.

L’anima stessa è chiamata veliero, quasi la sua tensione naturale fosse la navigazione e non la stasi cui la vita la costringe. La nave ormeggiata in un porto privo di flutti si trova relegata in una condizione contraria alla sua natura e alla sua funzione. Così l’animo umano vuole navigare senza vapore e senza vele, abbandonarsi al movimento delle acque e lasciare che sia una sorte non controllabile a indicare la meta. Il viaggio senza una meta fissata distrae il poeta dalle proprie prigioni, lo libera progressivamente dallo spleen e gli permette di acquisire una condizione degna e appropriata al suo essere. Il mondo è chiamato monotono e meschino, l’animo dal cuore giovane sarà felice di viaggiare solo una volta imbarcatosi sul mare delle Tenebre. Sarà il Capitano a guidare il veliero, non conta la meta, conta l’appagamento, un appagamento amorfo, assoluto, inconsistente al pensiero ma anelato lungo l’arco di una vita intera.
Il voyage fu per Baudelaire non l’infrazione di una norma sociale, bensì il tentativo di oltrepassamento di una prigione intima e personale, seppur umanamente condivisibile.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

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Trieste: quella scontrosa grazia cantata da Saba

Trieste: quella scontrosa grazia cantata da Saba

Trieste: quella scontrosa grazia cantata da Saba

Trieste come specchio di un’anima, percorrerne le strade, abbracciarla in un sol sguardo e ritrovare sé stessi laddove si credeva di essersi perduti. Questo fu Umberto Saba.

Umberto Saba: una personalità complessa

Trasfigurazione della condizione di Ulisse, in nessun luogo a casa se non nella propria Itaca, così Umberto Saba nella sua Trieste. Città ai margini del panorama letterario italiano primonovecentesco, scissa tra Austria e Italia, crogiolo di razze, realtà di confine, Trieste si fa musa ispiratrice del poeta Saba, un “cantuccio” riparato dalle ferite procurate dagli altri. La città come osservatorio privilegiato per il poeta gli consente un duplice movimento di immersione e distacco da una realtà percepita come contraddittoria.
La contraddittorietà dell’esistenza come motore di un’operazione di autoindagine, la psicanalisi come strumento per il raggiungimento di un’autocoscienza di sé, la scrittura come metodo di scavo della propria esistenza.
Umberto Poli, in arte Saba, nasce a Trieste nel 1883, trascorre un’infanzia segnata da fratture: il precoce abbandono del padre, il difficile rapporto con una madre anaffettiva e lo stretto legame con la balia Peppa, a cui la madre probabilmente lo sottrasse per gelosia.
Un senso di estraneità alla cultura ebraica di appartenenza, di distanza dal panorama letterario di spicco, primi tra tutti gli intellettuali de La Voce, oltre che la costante fuga dalle persecuzioni naziste grazie anche all’aiuto di intellettuali quali Montale e Vittorini, alimentano nel poeta quello che lui stesso chiama un “doloroso amore per la vita”. Tormentato da manie di persecuzione, Umberto Saba troverà nella psicanalisi un mezzo di indagine e scavo nel sé, uno strumento per la riemersione del rimosso e il risanamento delle proprie ferite.

Trieste città natale

Per mettere insieme i propri tasselli, Umberto Saba compie un’operazione che seicento anni prima, non diversamente ma scevro di cultura psicanalitica, intraprese Francesco Petrarca: stendere un Canzoniere, un corpus poetico organizzato in nuclei tematici, un tentativo di articolazione compiuta del sé, a più riprese riorganizzato internamente e revisionato linguisticamente, di cui si fa risalire la prima edizione al 1921.
Alla sezione Trieste e una donna appartiene la lirica Trieste, che meglio dipinge il senso di “triestinità” del poeta: una simbiosi fisica e spirituale, che consente a Saba di specchiarsi e di cogliere sé stesso nelle contraddizioni della città natia, attraverso un percorso tanto fisico quanto intellettuale, di identificarsi nella città stessa e trovare un “cantuccio” fatto proprio per lui dove sentirsi davvero immerso in quella che chiama “la mia vita”.

Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.

La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

(Trieste, 1910-12)

Un’occasione qualunque, una passeggiata attraverso una brulicante Trieste porta il poeta a salire un’erta. Il colle, in principio affollato, si fa sempre più deserto. Ormai dispersa la folla, si affaccia in lontananza un muricciolo.
Qui il poeta pronuncia una sorta di dichiarazione d’amore, l’interlocutrice è Trieste.
Trieste come “ragazzaccio aspro e vorace” ha occhi azzurri come il mare che ne bagna le coste e mani grandi, mani buone, per compiere atti gentili, che rivelano della città un carattere di ambivalenza, dapprima scontrosa, poi dolce e accogliente, si dimostra capace di regalare un fiore.
Dall’erta è possibile scorgere l’intera città, affollata e deserta, e ancora una volta contraddittoria. L’aria d’intorno è strana, è “aria natia”, il poeta è a casa, ed è protetto. Qui infatti ha trovato un suo cantuccio, un luogo dove potersi abbandonare alle proprie riflessioni, schivare le sofferenze procurategli dal mondo e dedicarsi alla propria vita “schiva e pensosa”, come “solo e pensoso” Francesco Petrarca percorreva deserti campi per schivare indiscreti sguardi.
La vita ora è “mia”, è sua, è del poeta, gli appartiene, il muricciolo è laddove il poeta si riappropria di sé, raccoglie i tasselli, si identifica esso stesso nella città, con uno sguardo la raccoglie tutta, così come nel cantuccio può raccogliere le proprie contraddizioni, ordinarle e per quanto possibile cercare di sanarle.

La poetica

Quella di Saba è una poesia piana, autobiografica, domestica. Il poeta è consapevole di non essere adeguatamente considerato sul panorama letterario, fa di questo senso di marginalità – la stessa marginalità posseduta da Trieste – il suo centro propulsore, e così si pronuncia in occasione del settantesimo compleanno, nel 1953:

“Comunque, il mondo io l’ho guardato da Trieste: il suo paesaggio, materiale e spirituale, è presente in molte mie poesie e prose, pure in quelle – e sono la grande maggioranza – che parlano di tutt’altro e di Trieste non fanno nemmeno il nome.
Del resto, io non credo né alle parole né alle opere degli uomini che non hanno le radici profondamente radicate nella loro terra: sono sempre opere e parole campate in aria”.

(Discorso di U. Saba presso il Circolo della cultura e delle arti, 1953)

Umberto Saba muore nel 1957, lasciando una traccia, un’opera di scavo interiore volta al risanamento delle proprie ferite, capace di portare al centro, anche a distanza di anni, quella che era considerata una realtà culturale marginale, come Trieste allora, attraverso il ricorso a parole semplici ed esperienze quotidiane.
L’eco della sua voce ancora oggi si sente, riecheggiante dal “cantuccio”, presso il muricciolo.

 

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

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Lolita: un romanzo ai limiti della morale

Lolita: un romanzo ai limiti della morale

Lolita: un romanzo ai limiti della morale

Lolita è un romanzo la cui trama potrebbe essere presentata come narrazione di uno “pseudoincesto”, al confine tra pedofilia e il suo riesame in chiave psicanalitica dal punto di vista di Humbert, il patrigno seduttore e stupratore. 

Lolita: la vicenda

Scritto da Vladimir Vladimirovič Nabokov, il romanzo Lolita venne pubblicato per la prima volta nel 1955 a Parigi, destando sin dalla sua prima uscita grande scalpore e scandalo presso il pubblico e la critica.
La vicenda è imperniata su un’ossessione, quella del professore trentasettenne Humbert Humbert per la giovanissima Lolita, appena dodicenne. Lolita è una ragazza lunatica, insolente e sfrontata, è figlia di Charlotte Haze, donna che Humbert sposerà proprio al fine di avvicinare la giovane. Al seguito dell’improvvisa morte di Charlotte, Humbert si assume il compito di recarsi a riprendere la ragazza da un campeggio estivo e, con la menzogna di un ricovero in ospedale della defunta madre, inizia con la figliastra un lungo viaggio attraverso i motel degli Stati Uniti.
È proprio nel corso di questo viaggio che si compie il primo di una lunga serie di incesti, anzi “pseudoincesti” non essendo Humbert padre naturale della giovane. Secondo ciò che si evince dal romanzo, quella di Lolita non è una reazione né di assenso né di dissenso, bensì una sorta di dimostrazione della sua già perduta verginità e acquisita esperienza sessuale. La trama si sviluppa lungo il corso di diversi anni nei quali Lolita è quasi “prigioniera” del patrigno Humbert. L’uomo le offre ogni genere di agio e privilegio ma in cambio impone una precisa richiesta: l’amplesso accompagnato da una passione e un affetto che Lolita non sarà mai in grado di rivolgergli.

Al lettore l’incarico di leggere il romanzo, per approfondire le tortuosità della psiche di Humbert, dal cui punto di vista è narrata la vicenda, oltre che conoscere il finale della vicenda.

La narrazione di uno scandalo

Il romanzo fu senza dubbio uno scandalo: la narrazione di uno stupro dichiarato, intrecciato a pedofilia e incesto. La condanna appare però una reazione troppo semplicistica. Si parta dal fatto che è Lolita in prima battuta a sedurre Humbert, o meglio, se Lolita non si fosse a lui concessa, Humbert si sarebbe limitato a godere passivamente di lei e della sua presenza.
È proprio la “sfida” sessuale che lei gli rivolge a innescare la “relazione”, se così si vuole chiamarla, e la passione irrefrenabile dell’uomo. Lolita riaccende in Humbert un’immagine del passato, quella di una ragazzina da lui tanto desiderata in adolescenza, ma mai posseduta, una relazione conclusasi in un nulla di fatto. Quella per Lolita si trasforma rapidamente in un’ossessione, l’uomo sottopone la ragazza a un rigido regime in cui le è vietato ogni contatto con l’altro sesso e qualsiasi tipo di conversazione con chi, con occhi indiscreti, potrebbe sospettare di loro.
Una vicenda ai limiti della pedofilia dunque, ma non per Humbert. A ben guardare infatti il maturo professore si relaziona con Lolita quasi fosse una coetanea, il rapporto è sbilanciato in età solo sulla carta, nei fatti ciò che Humbert possiede rispetto alla giovane è il potere economico, contro il quale si scontra una profonda immaturità affettiva.
Lolita è quindi un romanzo che attraverso una narrazione apparentemente scabrosa e pornografica apre a una riflessione sul tempo, sul passato irrisolto che ritorna e irrompe nella vita dell’uomo adulto portandolo al reato, all’indicibile. La vicenda non pone il suo perno, non soltanto, sullo scandalo in sé, ma come una sorta di resoconto psicanalitico a posteriori steso dallo stesso Humbert, apre uno squarcio sulla coscienza dell’uomo maturo che rievoca un passato irrecuperabile e nutre un profondo senso di colpa nei confronti della giovane. L’istanza narcisistica che muove il professore è il bisogno di riafferrare un amore perduto e irrecuperabile, lui stesso parla di frequenti crisi e ricoveri, i perfetti recquisiti di un paziente psichiatrico.

Cosa resta di Lolita nella società di oggi?

Cosa resta oggi di un romanzo che ai suoi arbori generò tanto scalpore? Come verrebbe accolta oggi una narrazione di questa portata? E quanto tabù rimane in quella che di fatto è una narrazione priva di riscontro nella realtà e che, per quanto ben oltre i limiti di legalità e morale, non è altro che un racconto di finzione?
Probabilmente neppure oggi verrebbe accolta con lo sguardo che merita. Un giudizio non svalutativo dell’opera di Nabokov non intende concedere un’assoluzione al colpevole Humbert, Humbert resta tale: stupratore, pedofilo e assassino. Ma cosa resta della psiche di Humbert? E cosa resta del passato irrisolto di ogni lettore?
Il romanzo apre forse a una riflessione su quali siano le ripercussioni più evidenti di eventi infantili rimasti irrisolti nell’uomo adulto. Quando il passato non si risana, quando l’ossessione rimane, quali manifestazioni mette in campo? Nella società odierna, quella che scardina i tabù, o almeno ci prova, un libro come Lolita dovrebbe essere accolto non come la celebrazione di un laido criminale, ma come lo spunto di riflessione sul proprio io. Quali tabù, quali azioni indicibili il lettore commette in silenzio, nell’intimità della propria coscienza? Azioni che la società non accoglierebbe, e che è buona cosa non dire ma compiere nell’ombra dell’omertà. Lolita riletta oggi, eruditi di nozioni psicanalitiche e in preda a una smania sociale di scardinare ogni dogma della tradizione, dovrebbe invitare il lettore a riflettere sui propri pensieri innominabili, farsene carico e condurli a una risoluzione che diversamente da Humbert non si traduca nel reato e nella totale perdita del senno e di sé.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.