Un amore, attesa che nutre e logora l’uomo

Un amore, attesa che nutre e logora l’uomo

Un amore, attesa che nutre e logora l’uomo

L’attesa come leitmotiv della prosa di Dino Buzzati, fa ora la sua comparsa in scena nelle vesti di un amore, non ricambiato, umiliante, eppure il solo capace di sorreggere l’uomo nell’oscillazione costante tra vita e senso di morte imminente.

Attesa, umiliazione e sesso, tre poli sui quali si snoda un romanzo che travolge il lettore al punto da farlo sentire partecipe in prima persona delle frustrazioni del personaggio. Una tensione che protende verso l’impossibile realizzazione di un amore, Un amore è energia e pulsione alla vita.

Guido Piovene ha parlato di Un amore di Dino Buzzati (1963) come di “un libro che affanna il lettore”, la trama dipinge i conflitti di un uomo maturo, Antonio Dorigo, attratto dalla giovinezza dell’insidiosa Laide.
Sullo sfondo la Milano degli anni ’60, città fervida di vita, città che aggroviglia nel suo dinamismo, nelle sue luci e nelle sue ombre.
Antonio è un architetto, estraneo all’amore, vive con le donne un rapporto quasi “mercenario”, dove la donna è ridotta a mero strumento di piacere, l’incontro di una notte nella casa di appuntamenti della raffinata signora Ermelina.
Ed è proprio durante uno dei suoi abituali incontri notturni che Antonio si imbatte in Laide: giovane, bella, minorenne, bambina e donna al contempo, ballerina di giorno, amante di notte. Quella per Laide si tramuta in breve tempo in un’ossessione travolgente, sconvolgente, che incatena Antonio in uno stato costante di frustrazione, in una tensione al compimento di un amore mai appagato e mai condotto oltre l’atto sessuale in sé.

Il rapporto tra i due è sorretto da un’asimmetria: Antonio dominatore, incapace di vincoli e legami con una donna, diventa il dominato, mentre è Laide, la bambina, a dettare tempi e modi della relazione. Laide mente, inganna Antonio, ma Antonio non può fare a meno di lei.

Laide assume per il protagonista quei contorni di pulsione alla vita che gli consentono di esorcizzare l’idea della morte. La morte è vuoto, Laide riempie il tempo di Antonio, che si arrovella nell’attesa di lei in uno stato perenne di incertezza e attesa. Fino alla perversione, il protagonista costruisce sulla donna irraggiungibile una concezione della propria esistenza vincolata dalla presenza di lei, continuamente attesa e mai afferrata.

Quasi un ribaltamento dell’amore stilnovista, dove a contemplazione e beatitudine si sostituiscono sesso e frustrazione. Uno Stilnovo moderno dove l’amore è rappresentato come situazione umiliante che mette in evidenza la fragilità umana. L’amore dà all’uomo la parvenza di poter colmare il vuoto della morte, ma per contro lo trascina in un baratro altrettanto struggente.

Le dinamiche della relazione tra Antonio e Laide sono descrivibili come di ciclicità e contrapposizione. Contrapposizione laddove Antonio prova per la giovane un sentimento duplice di attrazione e rigetto. Ciclicità poiché il romanzo si conclude con la notizia che Laide aspetta un figlio. Laide conferisce continuità alla vita, mentre Antonio non riesce, fino all’ultima pagina del romanzo, a risolvere a pieno il proprio tormento interiore.

Buzzati orchestra nella vicenda di Antonio una rappresentazione di quella che è la propria concezione della vita come attesa costante di una morte certa. Quello stesso senso di sospensione che aveva già caratterizzato la sua più nota opera: Il deserto dei tartari (1940). In Un amore, però, assume i toni della materia scabrosa e imbarazzante riportata sulla pagina in modo spregiudicato, senza ritegno.
Ecco che l’attesa si fa strumento per protendere al futuro, ed esorcizzare la morte. Nelle parole di Antonio:

“…c’era la speranza e le stesse lotte quotidiane, le attese i palpiti le telefonate riempivano l’esistenza era una lotta insomma una manifestazione di energia e di vita adesso non c’è più niente.”

Il senso ultimo dell’esistere si concreta così, ancora una volta nella prosa di Buzzati, come una tensione umana verso l’avvenire e una rigenerazione costante della vita.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Il Gattopardo e la sua morale: rivoluzionari sì, ma con i privilegi degli altri

Il Gattopardo e la sua morale: rivoluzionari sì, ma con i privilegi degli altri

Rivoluzionari sì, ma con i privilegi degli altri. La morale de Il Gattopardo.

Un ritratto dell’Italia di ieri e di quella di oggi. Incapace di un vero cambiamento, il popolo italiano si conferma nella storia, anche quella letteraria, lagnante, scriteriato e opportunista. Cambiare serve solo quando conduce a un vantaggio, la storia insegna che il maggior tornaconto che si possa ottenere è cambiare tutto per non cambiare nulla.

Pubblicato per la prima volta in edizione postuma nel 1958, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa non è etichettabile come un semplice romanzo, un po’ datato, da conservare in libreria come uno di quei testi che “hanno fatto la letteratura” ma che ormai è del tutto inattuale leggere. In questo caso si è di fronte infatti a un ritratto dalla dirompente forza visiva, è la descrizione di un popolo, il nostro popolo, quello degli italiani, incapace di darsi una bussola e una direzione, impaludato nella propria corruzione.

L’ambientazione è in una calda Sicilia risorgimentale, nel pieno dell’ondata rivoluzionaria portata dal nuovo Regno d’Italia, il protagonista è Fabrizio, Principe di Salina. È giunto il momento per il Regno di Sicilia di votare o meno l’annessione a quello di Sardegna, il popolo dubbioso si rivolge a Fabrizio che, senza scomporsi, si dice di parere affermativo all’annessione. Cosa porterà l’annessione? Quali saranno i cambiamenti, le implicazioni politiche, le ripercussioni sulle vite di una nobiltà stagnata nei propri privilegi? Non ci sarà mutamento alcuno. Così fa il motto di Fabrizio: Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.

Il gattopardismo 

Di cosa ci sta parlando Fabrizio? A cosa allude Tomasi di Lampedusa? Si tratta di quello spirito che, ne Il Gattopardo, viene chiamato di sicilianità. I numerosi rivolgimenti politici che nel corso della storia hanno animato le vicende della Trinacria non hanno davvero modificato gli animi del popolo siciliano, è cambiato l’assetto politico, non il carattere degli abitanti che sono rimasti saldi nel proprio orgoglio. Neppure dunque l’annessione al Regno di Sardegna ne modificherà veramente l’essenza. Il falso adattamento al nuovo è lo specchio di una incapacità a modificare sé stessi e in questo senso accogliere il cambiamento. Sono le pressioni sotterranee contrarie all’innovazione, che determinano la conservazione di mafia, violenze e corruzione.
È sulla scorta di questa amara visione che in riferimento al romanzo di Tomasi di Lampedusa è stato coniato il termine più generico di gattopardismo. Con esso si intende l’atteggiamento di chi, parte di un ceto dominante, simula il proprio consenso a un innovamento socio-politico, nella sola ottica di conservare i propri privilegi. L’idea è che tutto può, e deve, cambiare alla sola condizione che tutto resti come prima.

Si tratta di un atteggiamento strettamente legato a un’altra, certamente ancora attuale, “strategia” politica moralmente discutibile: il trasformismo. Con trasformismo di intende una prassi di governo che, attraverso accordi tra gruppi politici eterogenei se non avversari, impedisce il formarsi di una effettiva opposizione e dunque il rischio che si verifichino concreti mutamenti che scardinino la situazione presente. C’è forse qualcosa di più attuale?

Siamo un popolo di rivoluzionari?

Basta dare un occhio alle file del nostro Parlamento per vedere come, non ci sono destre e sinistre, non un centro e non una vera opposizione. Se potessimo recuperare la storia partitica dei nostri esponenti politici, sarebbe interessante notare come, per quasi tutti, un passato di destra ha ceduto il passo a un presente di sinistra e viceversa. Nessuno escluso, soprattutto poiché nessuno rivendica effettivi ideali, valori che incarnino una direzione politica. È tutta una melma di proposte, simili e dissimili, riformulate con parole diverse che ripropongono da decenni la stessa minestra riscaldata. Minestra che gli italiani accettano senza indugi.

Non siamo un popolo di rivoluzionari, e infatti la rivoluzione è stata francese, non certo italiana. Nell’indole dell’italiano medio sta l’atteggiamento a lamentare e contestare la vergognosa situazione politica e sociale in cui naviga il proprio paese ma, nessuno, sembra essere disposto a un vero cambiamento.
Un esempio per tutti? L’evasione fiscale. Con un debito pubblico da quasi tre miliardi di euro, l’Italia sembra essere diventata un colapasta. Eppure non proprio tutti sembrano d’accordo all’introduzione del pagamento elettronico tracciato, obbligatorio e unico; soluzione che permetterebbe di arginare numerosi casi di evasione e illegalità, oltre che rendicontare in modo più agevole entrate e uscite degli italiani. Qualcuno d’accordo allora? Così pochi da contarli sulle dita di una mano.
Se Il Gattopardo può portarci a una riflessione, allora dovrebbe essere proprio questa: quanto siamo disposti a cedere per veder cambiare davvero le cose? Dall’Ottocento al 2023 la risposta sembra essere sempre la stessa: poco o niente.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

“1984”: lo sguardo visionario di George Orwell applicato al 2023

“1984”: lo sguardo visionario di George Orwell applicato al 2023

“1984”: lo sguardo visionario di George Orwell applicato al 2023

Manipolazione dell’opinione pubblica, guerra atomica, l’invadente e costante sguardo di The Big Brother, nessuna libertà e il rischio costante di commettere uno “psicoreato”. Se George Orwell avesse potuto dare uno sguardo ai tempi moderni, li avrebbe forse considerati un inveramento della sua profezia?

Un romanzo distopico 

1984 è un romanzo distopico scritto da George Orwell nel 1949. La vicenda narra di un mondo diviso tra tre grandi potenze continentali, in piena guerra atomica. L’Oceania è la sede dei maggiori ministeri, ma è tutto tranne che un paese libero. Qui domina un unico partito, capeggiato dal non meglio identificato Big Brother, nessuna libertà è concessa ai suoi sottoposti cittadini. Telecamere ovunque e schermi che diffondono a ogni ora del giorno le notizie della propaganda di partito, la conversione forzata dei dissidenti all’ideologia dominante, la censura della storia e della libertà di pensiero, due minuti d’odio concessi al popolo per sfogare la propria rabbia e una newspeak, una nuova lingua, in cui sono consentiti solo termini dal calibrato significato.

Cosa c’è di simile alla nostra epoca? Tanto, forse tantissimo. Tre sono gli slogan dell’unico partito: La guerra è pace, La libertà è schiavitù, L’ignoranza è forza.

Cos’è la libertà? 

Riletto in chiave metaforica, sembra il dipinto della nostra società, certo di molti suoi aspetti. Primo tra tutti l’esportazione della pace attraverso la guerra e le armi, sottoposti a dinamiche di geopolitica che vogliono i paesi, perlopiù occidentali, come degli “esportatori di pace”, una pace che richiede armi, guerre, morti, genocidi, distruzioni e che spesso cela interessi economici, di risorse energetiche, molto poco umanitarie, accrescendo solo l’odio reciproco tra potenze in centenario conflitto.

La libertà, cos’è la libertà? Varrebbe la pena chiedersi in cosa siamo davvero liberi. Quanto la nostra strada, il nostro futuro, le nostre scelte e il percorso della nostra vita non rientrino in un precostituito schema sociale replicato a piccole variazioni su tutti i membri di una società guidata dal consumismo, dallo scarto e dall’opulento?

È l’ignoranza a tenere le masse soggiogate in una disinformazione dilagante, fake news, informazione parziale, orientamenti di partito e logiche di potere che descrivono gli avvenimenti non per la loro oggettività ma nella luce sotto la quale li si vuole mostrare. Una bulimia di notizie che è tutta attuale e che scandisce le dinamiche sociali e storiche in una bipartizione in buoni/cattivi che è l’emblema del pensiero acritico dilagante.
Nessuna riflessione, nessun invito al pensiero, ma notizie da un mondo dove chi sta dalla parte dei giusti è già stato decretato, si tratta solo di decidere se mettersi dalla parte dei conformati o dei dissidenti emarginati.

Qual è la posizione corretta? Forse non c’è, forse la vera libertà di pensiero tanto propagandata dall’occidente democratico, dovrebbe proprio essere una possibilità di libera scelta in cui l’espressione di un’opinione non istituzionale, non venga necessariamente bollata come “eversiva” e segretamente pericolosa, ma venga ascoltata, indagata e integrata.

La censura della storia è l’ignoranza

Davanti a schermi di televisori, cellulari, computer, invitati (e in realtà costretti) a vedere solo quello che si vuole venga mostrato, quanto davvero possiamo esprimere la nostra opinione senza che un post non venga segnalato e un commento cancellato? È un invito alla rivoluzione? No, alla riflessione.

La censura della storia è l’ignoranza, la dissoluzione della cultura e del passato in nome di una società fondata sul denaro come strumento principale di scambio sociale. La dimensione dell’umano passa in secondo piano e le rivendicazioni sociali riconosciute sono solo quelle che non cambiano nulla nei fatti ma permettono di scrivere gonfi slogan pieni di belle parole.

La conversione all’ideologia non è un lavaggio del cervello in una camera di tortura, come avviene per Smith, il protagonista del romanzo di Orwell, ma l’emarginazione sociale che comporterebbe una libera espressione. I due minuti d’odio concessi al popolo sono tanto simili ai novanta minuti trascorsi in uno stadio a scambiarsi cori d’odio e di razzismo invece che godere di uno sport che dovrebbe unire.

La comunicazione e la lingua vengono private delle loro sfumature semantiche e ridotte a una fredda conversazione via chat. Boomer sono quelli che non comprendono la comunicazione dei nuovi media, che ingrigisce le sfumature del linguaggio, svuota di senso le parole e con esse la capacità di espressione di sé.

Quale direzione sta dunque prendendo l’uomo contemporaneo? Quale margine di azione effettiva gli rimane?

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Le 5 cose che ci saremmo risparmiati nel 2022 – IVN AWARDS

Le 5 cose che ci saremmo risparmiati nel 2022 – IVN AWARDS

2022: 5 cose che ci saremmo risparmiati 

Se il 2020 ci era sembrato un anno decisamente “da dimenticare”, era solo perché ancora non sapevamo cosa ci avrebbe atteso. Come nei migliori film apocalittici, il lieto fine tanto atteso ha costituito solo il preludio di un non meno rassicurante e inaspettato prosieguo.

A ogni febbraio la sua sventura

È arrivato il momento di tirare le somme, dicembre è ormai al termine, anche per quest’anno Michael Bublé ci ha regalato la sua trita compilation di canzoni natalizie, e come ogni fine anno che si rispetti è anche il momento migliore per fare un bilancio. Peccato che il bilancio non sembra essere dei meglio riusciti. Se al termine del 2020 ci sentivamo un po’ come Will Smith sopravvissuto al contagio in Io sono leggenda, era solo perché non sapevamo ancora in quale putiferio saremmo stati catapultati. Per sommi capi, vediamo almeno cinque avvenimenti di questo 2022 che ci saremmo volentieri risparmiati e che forse preferiremmo dimenticare.

Al primo posto certo per drammaticità e portata sta lo scoppio del conflitto in Ucraina. Febbraio 2022, stessa storia, stesso posto, stesso bar, come catapultati indietro a febbraio 2020, un nuovo evento drammatico di portata mondiale si abbatte sull’Europa orientale: la Russia invade l’Ucraina. L’intervento armato, preceduto da un lungo ammassamento delle forze russe sul confine, deflagra in conflitto il 24 febbraio 2022. Parallelo e interrelato, l’indebito riconoscimento e annessione da parte della Russia della regione del Donbass (interna ai confini ucraini). Se due anni di pandemia non avevano già sufficientemente inciso sugli umori e sull’economia mondiali, comportando un drastico effetto di recessione economica, la guerra russo-ucraina ha per così dire dato il colpo di grazia.
Un secondo elemento correlato al tema “guerra”, che di questo 2022 avremmo certamente fatto a meno, è il caro energia e l’esponenziale aumento dei prezzi sui beni di prima necessità, conseguenti all’insorgere del conflitto. Già fortemente provati da quasi due anni di oscillante andamento economico, tra momenti di stasi nei periodi di lockdown e fasi di ripresa, questo rincaro dei prezzi proprio non ce lo meritavamo. Giusto un paio di dati per rendere il quadro. L’Europa dipende attualmente per il 40% dai rifornimenti di gas russo, Mosca costituisce inoltre il principale fornitore di petrolio. Se questa dipendenza energetica si è ripercossa direttamente sulla nostra quotidianità, dalla bolletta energetica ai rifornimenti di benzina, ha aggravato ancora di più i settori della produzione industriale e manifatturiera. Per non parlare dell’incremento del 9% dei prezzi del grano e cereali, prodotti di primaria necessità alimentare, oltre che fulcro e fondamento dell’alimentazione mediterranea.

La politica non ci assiste

La carrellata procede. Già destabilizzati da un clima di conflitto che sembra aprire le porte a un potenziale rischio di guerra mondiale, tra invii e rifornimenti d’armi, annessioni potenziali all’UE e minaccia dell’arma atomica, una figura pregnante della storia novecentesca decide di abbandonarci: l’8 settembre 2022 la regina Elisabetta II muore all’età di 96 anni. Una svolta storica, l’apertura di una nuova, meno florida, era. Incoronata il 2 giugno 1953, la sua figura, il suo volto rassicurante, hanno accompagnato i principali eventi della storia novecentesca. Donna pacata, ragionevole e diplomatica, da quasi un secolo perno di riferimento della storia inglese. Se è vero che sono sempre i migliori che se ne vanno, questa definizione calza a pennello per il caso specifico. In particolare se si guarda alla nuova coppia regale inglese, la cui fama già compromessa dalle discutibili vicende associate alla figura di Diana, risulta ora ulteriormente minata dal generale scontento della popolazione inglese, che poco si riconosce nei sentimenti verso il nuovo sovrano.
Come se non fosse sufficiente, guardando giusto più vicino a noi, le cose non sembrano essere andate meglio. Il 25 settembre Giorgia Meloni vince infatti le elezioni con la nomina di Presidente del Consiglio dei Ministri, formando la propria squadra di governo con un trionfo del 26%. Sembra che gli italiani abbiano perso senno e memoria. Riappare così lo spettro di una storia già vista, nella direzione di un conservatorismo che sembra affiancare a patriottismo, famiglia e “solidità” morale una retrocessione nella conquista di diritti e libertà per cui tanto si è combattuto in questi anni. Ma poi, di quali valori stiamo parlando? Cancellazione del diritto all’aborto? Annullamento della libertà di espressione (sessuale e identitaria)? Adito all’evasione fiscale nella proposta di innalzare il tetto di prelievo del contante? Sembra più che altro il ritorno a qualche bizzarra forma di dittatura sudamericana, tra latitanza e illegalità.
La somma di tutti questi eventi apre alla memoria uno squarcio sul passato, un passato che pare istruirci soltanto sul come la storia non insegni proprio nulla all’essere umano.

Non esattamente un “lieto fine”

Sulla scia dell’apparente “moda” di violare qualsiasi forma di diritto e libertà, due eventi, congiungi per drammaticità, stanno concludendo questo improbabile 2022. Lì considereremo insieme sotto il titolo di: negazione di libertà e autonomia. Da un lato le proteste in Iran in nome di un’autodeterminazione negata; dall’altro la prossima coppa del mondo in Qatar. Ma cosa si cela dietro a questi due lampanti esempi di violazione totale dei diritti umani oltre che di incapacità da parte dell’Occidente di “esportare” quella pace di cui tanto si professa messaggero? Se guardiamo ai mondiali in Qatar vediamo una nazione del tutto incurante di qualsiasi diritto, presso la quale è stato deciso nonostante la sua totale inadempienza alle convenzioni internazionali, di tenere i Mondiali di calcio. Questo porta a far riflettere sulle contraddizioni di un Occidente che, da un lato rigetta una nazione contraria al suo sistema valoriale, e dall’altro a suo modo la accetta nella disponibilità a tenervi gare sportive. Annullando completamente quel senso di inclusione e pacifico agonismo che lo sport dovrebbe veicolare. Un solo dato per rendere l’idea: risulta che oltre 6500 lavoratori immigrati siano morti durante la costruzione delle strutture adibite all’accoglimento dell’evento calcistico. Parallelamente, in Iran, si sta consumando una strage civile nel nome della rivendicazione di libertà che stanno venendo totalmente calpestate, misconosciute e contrastate con violenza e oppressione.

Dunque quale bilancio fare? Si potrebbe dire di essere passati dalla padella alla brace.
Ogni lettore trarrà le sue più o meno positive conclusioni su questo anno travagliato sebbene certamente attraversato da positivi eventi. Quello che rimane è un senso di amarezza, se avessimo potuto risparmiarci questa carrellata di notizie, certo non ne avremmo sentito la mancanza. Cosa fare dunque per evitare che si protraggano? Cosa per impedire si ripetano? Concludiamo questo 2022 con l’auspicio che l’anno a venire possa aprire spunti di riflessione, preferibilmente con qualche morbo pandemico, catastrofe naturale e guerra in meno, e un po’ più di saggezza geo-politica da parte di chi detiene il potere.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

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Dei delitti e delle pene: una moderna lettura della giustizia penale

Dei delitti e delle pene: una moderna lettura della giustizia penale

Dei delitti e delle pene: una moderna lettura della giustizia penale.

Dei delitti e delle pene costituisce una delle opere di maggiore spicco della tradizione illuminista italiana. Stesa in un clima culturale gravido di innovazione, essa porta alla riflessione su alcuni temi salienti della giustizia penale del tempo, attraverso una revisione dei concetti di crimine e giustizia, in una più pragmatica e moderna lettura.

Dei delitti e delle pene: lineamenti generali

Dei delitti e delle pene è un trattato di marca illuminista. Steso e pubblicato da Cesare Beccaria (nonno materno di Alessandro Manzoni) nel 1764, il testo conduce una lucida analisi politico-giuridica di impianto razionalistico e pragmatista sui problemi della giustizia penale settecentesca. L’opera fu inclusa nell’indice dei libri proibiti a soli due anni dalla sua pubblicazione per via della distinzione compiuta dal suo autore tra peccato e reato: se il reato è infatti un danno alla società, istituto atto a regolare il conflittuale rapporto tra gli uomini (sulla scorta della tesi contrattualistica di J. J. Rousseau), per contro il peccato è un reato compiuto nei confronti di Dio, giudicabile soltanto da quello che l’autore chiama l’“Essere perfetto e creatore”.

È quindi la teoria contrattualistica il punto di partenza di queste riflessioni, secondo la quale la società costituirebbe una forma di contratto volto a garantire l’ordine tra gli uomini. La società in questo senso gode di un diritto di autodifesa che giustifica l’applicazione di pene e sanzioni a chi ne viola le leggi. Bisogna infatti impedire che l’individuo infranga la legge per perseguire il proprio utile; il legislatore come abile architetto deve fissare premi e sanzioni in funzione preventiva. Inoltre compito del legislatore è trascende le singole passioni che animano l’uomo e lo inducono a perseguire l’interesse immediato, il patto sociale deve essere preservato in nome della stanchezza dell’essere umano a una guerra sociale contro gli altri individui che condurrebbe all’unica inesorabile strada dell’estinzione.
Non è la tirannide tuttavia il mezzo adeguato, bensì l’adozione di un moderno regime moderato che adempia all’incarico di incivilire i popoli e impedire il deflagrare delle autodistruttive passioni umane. Passioni che tuttavia non devono essere represse e soffocate, bensì regolamentate e reindirizzate.

Principali temi

Beccaria propone quindi di dimostrare ingiustizia e inutilità di provvedimenti tirannici. In particolare prende in esame alcuni aspetti del diritto penale coevo.

  • Pena di morte: lo stato non può decidere della vita di un uomo. La pena di morte non funge da strumento intimidatorio, l’uomo teme molto di più l’ergastolo o una schiavitù perpetuata che gli renderebbero la vita un’ineluttabile sofferenza. Lo stesso assistere alla messa in atto della pena poi, genera negli spettatori un senso di compassione e non rafforza il sentimento di fiducia nelle istituzioni.
  • Tortura: viola la presunzione di innocenza, solo la sentenza del giudice può dichiarare infatti la colpevolezza. Non essendo dunque certa la colpa, il rischio è quello di torturare un innocente, inducendolo a false confessioni pur di trovare una cessazione del dolore.
  • Carcere preventivo: al pari della tortura, in una concezione garantista di giustizia, questa misura deve essere applicata solo quando ci sia una effettiva prova della pericolosità dell’imputato.
  • Sanzioni: sono individuati alcuni caratteri che le sanzioni devono possedere. Prontezza intesa come vicinanza temporale della sanzione al reato; infallibilità; proporzionalità con il reato commesso; durata adeguata al reato; pubblica esemplarità che renda la collettività consapevole dell’inconvenienza della infrazione. Si tratta di una funzione intimidatoria dunque, quella che Beccaria considera la dolcezza della pena volta a prevenire misure più violente.
  • Armi: il loro possesso rimane invece uno strumento potenzialmente deterrente al crimine.
  • Sistemi di prevenzione del delitto: la prevenzione deve partire dall’educazione e nel riconoscimento delle giuste ricompense. Sulle ricompense a compendio dell’opera di Beccaria sarà pubblicato un ulteriore saggio dal titolo Delle virtù e dei premi, a opera di Giacinto Dragonetti.

Dei delitti e delle pene: visione d’insieme

L’opera di Beccaria consiste quindi in una revisione di carattere epistemologico dello statuto del diritto penale. Il legislatore nel suo ruolo di applicatore delle leggi ha il compito non solo, e non tanto, di conoscere il diritto vigente e le passate consuetudini, bensì saper osservare l’ordine corrente delle cose per formulare nuove norme. Questa conoscenza passa da quella che Beccaria chiama la scienza dell’uomo, un approccio che porta a pensare il criminale non più come un essere deviante ma come un individuo normale. Il reato non è più concepito come eccezione ma come qualcosa di connaturato nell’essere umano che, in quanto creatura edonistica, indirizza le azioni al perseguimento dei propri obiettivi. In questo senso la legge interviene a regolamentare, non reprimere violentemente. L’interesse è infatti il motore ultimo dell’agire umano. Non è dunque possibile correggere gli uomini nella loro natura, bensì è necessario far comprendere loro come nello stesso interesse dell’individuo acquisti maggior vantaggio l’osservanza delle leggi che non il compimento del reato.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.