Il grande, irreprensibile Albertazzi: anima da palcoscenico

Il grande, irreprensibile Albertazzi: anima da palcoscenico

Il grande, irreprensibile Albertazzi: anima da palcoscenico

Una vita dedicata alla recitazione

L’incantesimo toscano è una magia che non si può raccontare. È la meraviglia che si respira nelle mattine di maggio, quando si sentono i fili d’erba canticchiare e gli uccellini giocare allegramente”.

Questa è la delicata descrizione di un’infanzia vissuta in una terra meravigliosa: la Toscana. Ma chi ha pronunciato tali parole?

Un meraviglioso animo, legato inscindibilmente al palcoscenico: Giorgio Albertazzi.

Giorgio Albertazzi, attore e regista teatrale italiano, nacque a Fiesole il 20 agosto 1923, presso la dépendance della Villa I Tatti di Bernard Berenson.

Il nonno lavorava come manovale nella tenuta e il piccolo Giorgio, con il fratello, si divertiva a osservare da un abbaino le statue bianche che si stagliavano nel giardino.

Ognuno ha il proprio luogo di riflessione, un luogo che è casa.

Giacomo Leopardi si lasciava cullare dal dolce colle dell’infinito a Recanati. Ecco… per Albertazzi quel luogo era i Tatti, il piccolo scrigno in cui si ricongiungeva con il sé più profondo.

Ma purtroppo la magia di quel luogo dovette essere abbandonata, per qualche tempo.

Il nostro, infatti, aderì alla Repubblica di Salò, durante la Seconda Guerra Mondiale, andando a ricoprire il grado di sottotenente nella 3ª Compagnia della “Legione Tagliamento.

Venne poi arrestato, a seguito della sconfitta dell’ R.S.I. nel 1945. L’accusa era duplice: collaborazionismo e l’aver comandato il plotone d’esecuzione del partigiano Ferruccio Manini.

Fu scarcerato nel 1947, a seguito dell’ “amnistia Togliatti” e prosciolto dal Tribunale di Milano nel 1948.

In tale contesto, si dichiarò innocente e non diede mai conferma della propria presenza nella 3ª Compagnia, 2º Plotone fucilieri del LXIII Battaglione “M”.

Così, terminato l’incubo della guerra, una vita ben più fulgida attendeva il giovane fiesolano.

Albertazzi, laureatosi in architettura, intraprese la carriera recitativa dapprima in fotoromanzi, poi in teatro, infine sul grande e piccolo schermo.

Il suo esordio nella neonata TV italiana risale al 1954, con Romeo e Giulietta, nel palinsesto del programma La prosa del venerdì.

La sua performance ebbe così tanto successo che l’attore inaugurò Appuntamento con la novella, divenuta una trasmissione fissa della TV italiana dall’anno seguente.

Shakespeare consacrò Albertazzi anche alla ribalta del palcoscenico, con la rappresentazione di Troilo e Cressida del 1949, con la regia di Luchino Visconti, presso il Maggio Musicale Fiorentino.

In seguito, collezionò innumerevoli successi nell’ambito della settima arte e del piccolo schermo. Tuttavia, di certo l’ambiente naturale di Albertazzi fu sempre il teatro, non solo da attore, ma anche in qualità di regista.

Un anno significativo per la carriera di Albertazzi fu il 1964: quattrocentesimo anniversario della nascita di Shakespeare.

Infatti, per l’occasione, esordì con Amleto, al teatro Old Vic di Londra, affiancato da Anna Proclemer e da Anna Maria Guarnieri, guidati dalla sapiente regia di Franco Zeffirelli.

Fonte immagine.

La rappresentazione fu un vero trionfo, tanto che l’attore ricevette una ragguardevole onorificenza: l’affissione della propria fotografia nella galleria dei maggiori interpreti shakespeariani, presso il Royal National Theatre.

Dal genio di Stratford-upon-Avon passò al Sommo Poeta, interpretando il Canto di Ulisse durante la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici Invernali di Torino, il 10 febbraio 2006.

Nel 2009, invece, recitò per Rai 2 una pregevole lettura della Divina Commedia, tra le rovine del centro storico dell’Aquila, a seguito del terremoto che colpì il capoluogo Abruzzese.

Una carriera eclettica quindi, colma di attività condotte con maestria e talento, che gli permisero di essere insignito di numerosi riconoscimenti: dal Premio Ubu come migliore attore per Re Nicolò (1980-1981), al Premio Flaiano (1993), fino al Globo d’oro nel 2003.

La sua vita non finì mai di stupire: infatti il 12 dicembre 2007 sposò a Roma la nobildonna fiorentina Pia Tolomei di Lippa, di 36 anni più giovane, con la quale conviveva da tempo. Nel 2014 divenne inoltre il concorrente più anziano che abbia partecipato a Ballando con le Stelle.

Il grande, irreprensibile Albertazzi (per riprendere una nota citazione del trio comico di Aldo, Giovanni e Giacomo) si spense il 28 maggio 2016, presso Villa Tolomei di Sticciano a causa di una bronchite.

Così termina questa straordinaria esistenza, ma solo apparentemente. La sua anima e il suo talento si sono fusi per anni con l’essenza di personaggi creati dal genio di uomini sognanti, e rimarranno per sempre nel firmamento dell’arte.

 

 

Fonte immagine di copertina.

Maria Baronchelli

Sono Maria Baronchelli, studio Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Milano. La lettura e la scrittura hanno da sempre accompagnato i miei passi. Mi nutro di regni di carta, creandone di miei con un foglio e una penna, o una tastiera. Io e i miei personaggi sognanti e sognati vi diamo il benvenuto in questo piccolo strano mondo, che speriamo possa farvi sentire a casa.

I 244 anni dall’inaugurazione del Teatro alla Scala

I 244 anni dall’inaugurazione del Teatro alla Scala

I 244 anni dall’inaugurazione del Teatro alla Scala

Dal 3 agosto 1778 la Scala di Milano mette in scena l’incanto

Nuovo Regio Ducal Teatro alla Scala.

Che nome importante! Beh…ne ha buon diritto.
Il Teatro alla Scala, o semplicemente La Scala, è il fiore all’occhiello dei teatri d’opera italiani.

Da ben 244 anni accoglie le note di melodrammi, di balletti e di concerti, nel cuore di Milano, rappresentando magnificamente l’Italia nel mondo.

Quando si varcano le soglie della Scala, si rimane affascinanti dalla magnificenza degli ambienti. Tutto si fa buio e inizia la vera magia! Solo in un luogo di tale splendore è possibile percepire l’essenza dell’incanto.

Ci si trova immersi in una fiaba e, come ogni fiaba che si rispetti, tutto inizia con “C’era una volta”.

Ebbene c’era una volta, tanto tempo fa, un cumulo di macerie. Il Teatro alla Scala nacque, infatti, come una fenice, grazie alle ceneri del Teatro Regio Ducale, andato distrutto in un incendio divampato il 26 febbraio 1776.

Il teatro precedente era il riferimento della corte milanese e fu proprio il sovrintendente dello stesso, il conte Giangiacomo Durini, a desiderarne fortemente la ricostruzione, supportato dalle famiglie patrizie della città.

Tali volontà furono soddisfatte da un decreto emanato dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria, che autorizzò la costruzione in altro luogo di due nuovi teatri: il Teatro della Cannobiana e il Nuovo Regio Ducal Teatro alla Scala.

Così, nell’agosto del 1776, si diede inizio alla demolizione della Chiesa di Santa Maria alla Scala, al posto della quale fu poi edificato l’omonimo teatro, su progetto dell’architetto neoclassico Giuseppe Piermarini.

Tutto venne curato nei minimi particolari. Giuseppe Levati e Giuseppe Reina realizzarono le decorazioni pittoriche, mentre Domenico Riccardi fece sì che il sipario rappresentasse il Parnaso, su suggerimento di Parini stesso.

L’inaugurazione della Scala avvenne il 3 agosto 1778, con la prima rappresentazione assoluta di Europa riconosciuta di Antonio Salieri.

La platea e le gallerie erano gremite. Persone che sarebbero passate alla storia parteciparono all’incanto: l’arciduca Ferdinando d’Asburgo-Este, Maria Beatrice d’Este e…Pietro Verri.

Questi descrisse la magia della prima in una suggestiva lettera al fratello Alessandro, in cui si osserva tutto il suo stupore. Pietro, infatti, scrive: “Mentre te ne stai aspettando quando si dia principio, ascolti un tuono, poi uno scoppio di fulmine”.

Ecco: è il segnale convenuto. L’orchestra ha così dato inizio all’ouverture, e quando si alza il sipario “vedi un mare in burrasca”. Pietro Verri e gli altri partecipanti sono attoniti: la musica li ha rapiti e i loro occhi sono “sempre occupati”.

Da allora la Scala non ha mai perduto la scintilla di miracolo che avvolge gli spettatori, provenienti da tutto il mondo.

Innumerevoli stelle del firmamento del melodramma, del balletto e della musica classica si sono avvicendate tra le scene del teatro, ma molti hanno avvertito che quel luogo fosse diverso, unico.

Plàcido Domingo, magnifico tenore, affermò che “di tanti palpiti e di tante pene è davvero cosparso il cammino che conduce non a una semplice prima, ma alla Prima per antonomasia”.

Ora la fiaba è giunta alla fine. E come ogni fiaba che si rispetti è doveroso terminare con “e vissero tutti felici e contenti”.

Sì, perché la storia della nascita della Scala insegna che dalla distruzione può nascere la vita, dalla disperazione si può creare bellezza. E grazie alle ceneri di un teatro e a una chiesa demolita, può nascere il miracolo.

Così vissero tutti felici e contenti.

Maria Baronchelli

Sono Maria Baronchelli, studio Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Milano. La lettura e la scrittura hanno da sempre accompagnato i miei passi. Mi nutro di regni di carta, creandone di miei con un foglio e una penna, o una tastiera. Io e i miei personaggi sognanti e sognati vi diamo il benvenuto in questo piccolo strano mondo, che speriamo possa farvi sentire a casa.

Il Piccolo Principe: in volo verso una straordinaria infanzia ritrovata

Il Piccolo Principe: in volo verso una straordinaria infanzia ritrovata

Il Piccolo Principe: in volo verso una straordinaria infanzia ritrovata

Antoine de Saint-Exupéry dà vita alla meravigliosa avventura vissuta dal pilota e dal Piccolo Principe

Il Piccolo Principe è una delle opere più conosciute del XX secolo, redatta da Antoine de Saint-Exupéry, e pubblicata il 6 aprile 1943.

La vicenda narra l’emozionante amicizia tra un pilota disperso nel Sahara e un bambino misterioso, noto come il Piccolo Principe.

Nella prefazione di Nico Orengo si afferma che l’autore stesso lavorasse per il servizio aeropostale e, guarda caso, si trovò disperso proprio nel deserto del Sahara, nel 1935.

L’opera è quindi definibile come una doppia autobiografia: da un lato l’autore-narratore racconta la vicenda accadutagli, dall’altro lo stesso riporta nero su bianco l’incontro con una persona molto speciale: se stesso, da bambino.

Il terrore di rimanere disperso nel bel mezzo del Sahara cresce sempre più, quando accade l’inaspettato.

Una vocina dolce squarcia la disperazione. “Mi disegni una pecora?”.

È il Piccolo Principe, un bambino di pressappoco sei anni, età in cui l’autore scoprì il gusto amaro della solitudine, a seguito della morte del padre.

Il bambino inizia a narrare di mirabolanti avventure.

Dapprima descrive la propria casa: un piccolo asteroide, sul quale un giorno nacque una rosa vanitosa, di cui il Piccolo Principe si prese cura.

In seguito, il bambino ricorda i suoi viaggi, durante i quali scoprì lo strambo mondo dei grandi. In tale dimensione si diventa persone serie, ma si seppellisce il proprio io più puro sotto una montagna di numeri e di misure.

Si perde la meraviglia dell’osservare un tramonto e si preferisce pensare a faccende apparentemente più “utili”. Infatti, “i grandi amano le cifre”. Ma quando si parla loro ad esempio di un amico, non chiedono mai: “Qual è il tono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle?”.

Ebbene, il primo incontro del Piccolo principe nello strano mondo degli adulti è con un re, che per esistere ha unicamente bisogno di comandare; poi si ha un vanitoso che considera gli altri solo nel momento in cui questi lo ammirano.

Ancora, un uomo d’affari che conta le stelle, ritenendole pepite d’oro da accumulare. Infine, un geografo che si crogiola accidioso nella propria ignoranza, non avendo esploratori a propria disposizione.

Su consiglio di quest’ultimo il Piccolo Principe visita la Terra.

Così esplora molti luoghi, compreso un giardino pieno di rose. Capisce dunque, con grande rammarico, che la rosa del suo pianeta non era poi così speciale, in quanto identica a tutte le altre.

Ma una piccola volpe gli impartisce una grande lezione: è il tempo dedicato alla rosa ad averla resa unica. Così, il bambino applica ciò che ha appena appreso: dedica il proprio tempo alla volpe, addomesticandola piano piano, intessendo con essa una profonda amicizia.

Terminato il racconto, il Piccolo Principe e il pilota si mettono alla ricerca di pozze d’acqua, dalle quali bevono con gioia. Rinfrancato lo spirito, l’uomo ritorna alla sua solita mansione: tentare di riparare il velivolo.

La sera seguente l’attenzione dell’uomo è attratta dal dialogo tra il Piccolo Principe e un serpente, la prima creatura che il bambino aveva incontrato sulla Terra.

L’animale promise che avrebbe riportato il piccolo protagonista all’asteroide da cui era partito, in occasione dell’anniversario del suo arrivo nel deserto.

Il piccolo sa bene che il ritorno implica una morte apparente, e che ciò avrebbe provocato un grande dolore al pilota, ora addomesticato come la volpe.

“Avrai dispiacere. Sembrerò morto e non sarà vero…”, afferma il bimbo, cercando di rasserenare il pilota, colmo di paura. “Capisci? È troppo lontano. Non posso portare appresso il mio corpo. È troppo pesante”.

Poi si dirige verso il serpente, con animo coraggioso. Un guizzo giallo, vicino alla sua caviglia. E “cadde dolcemente come cade un albero. Non fece neppure rumore sulla sabbia”.

Il suo corpo non fu mai trovato.

Antoine de Saint-Exupéry è il Piccolo Principe, ed entrambi trovarono l’oblio.

L’autore, infatti, il 31 luglio 1944 scomparve, sorvolando la Baia degli Angeli al largo di Saint-Raphaël.

Il suo corpo non fu mai trovato.

Il prodigio si è compiuto: un uomo tocca il fondo, vede le proprie certezze crollare. A un tratto ricompare con insistente dolcezza la figura del sé bambino, che lo prende per mano, riconducendolo nel mondo della meraviglia.

È bello pensare che ora il pilota-autore abbia raggiunto il piccolo asteroide. Lo si può osservare mentre cura la rosa, intanto che il bimbo dorme.

 

 

Maria Baronchelli

Sono Maria Baronchelli, studio Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Milano. La lettura e la scrittura hanno da sempre accompagnato i miei passi. Mi nutro di regni di carta, creandone di miei con un foglio e una penna, o una tastiera. Io e i miei personaggi sognanti e sognati vi diamo il benvenuto in questo piccolo strano mondo, che speriamo possa farvi sentire a casa.

Paloma e Renée: l’amicizia tra la colomba e il riccio

Paloma e Renée: l’amicizia tra la colomba e il riccio

Paloma e Renée: l’amicizia tra la colomba e il riccio

Il legame tra anime simili narrato ne L’eleganza del riccio di Muriel Barbery

“Io nella boccia non ci vado!”

La decisione di suicidarsi il giorno del proprio compleanno deve essere ben ponderata.

Ecco le intenzioni di Paloma Josse, geniale dodicenne, determinata a togliersi la vita.

È proprio questa ragazzina ad essere una delle due protagoniste del romanzo bestseller L’eleganza del riccio di Muriel Barbery, scritto nel 2006, ambientato in un lussuoso palazzo al numero 7 di Rue de Grenelle, nella Ville Lumière.

Molte onorificenze coronano il successo dell’opera: dal Premio Georges Brassens 2007, al Premio Rotary International, fino al Prix des Libraires.

Ma perché Paloma è così convinta di voler abbandonare la vita?
Semplice: l’obiettivo è non finire nella squallida boccia in cui i burattineschi membri delle classi agiate parigine, di cui è figlia, cozzano come pesci inebetiti.

“Vivere, morire: sono solo le conseguenze di ciò che abbiamo costruito. Quello che conta è costruire bene”.

“Quindi io nella boccia non ci vado!”

La penna scorre veloce.
Infatti, Paloma, “colomba” in spagnolo, tiene un diario in cui analizza con chirurgica precisione la realtà che la circonda.

Pertanto, l’oblio eterno risulta a lei più piacevole di una vita a metà. Il mondo non è privo di bellezza, ma è abitato da individui gretti e superficiali che aborre con tutta se stessa.

 

Così questa colomba contrariata se ne sta ad ali conserte, cercando un cielo migliore. La morte.

Come detto, Paloma è la colomba, ma Renée Michel è il riccio.

Madame Michel è la portinaia dell’elegante palazzo parigino in cui Paloma vive con la propria famiglia, con la quale è in costante conflitto.

Renée è una lettrice appassionata, che da autodidatta ha costruito solide conoscenze in arte, filosofia e cultura giapponese.

La donna, vedova, trascorre in un silenzioso torpore le ore del giorno, sonnecchiando nella guardiola, leggendo infinite pagine di mille libri. Unica sua compagnia è un gatto: Lev, omaggio all’amato Tolstoj.

Con lenta delicatezza carezza le parole, che la allontanano dall’infanzia e dalla giovinezza vissute in povertà. Silenzioso riscatto, mantenuto segreto con reverenziale discrezione.

La donna è invisibile agli occhi degli inquilini, che vedono unicamente in lei una…portinaia.

Tuttavia, nel microcosmo del signorile edificio, le ali della Paloma iniziano a vibrare. La ragazzina intuisce che la goffa e pigra Madame Michelle non è affatto ciò che sembra.

Infatti, Renèe è benedetta dall’eleganza del riccio: fuori protetta da aculei, ma dentro semplice e raffinata come quelle bestiole.

Ecco: la colomba e il riccio. Una rampolla di famiglia benestante e un’umile portinaia.
Qual è il ponte tra queste entità così opposte, in apparenza?

L’anima.

E Kakuro Ozu, il nuovo elegante inquilino giapponese. Lui sarà il “galeotto” che permetterà alla colomba di spiegare le ali e al riccio di ritirare i propri aculei, facendole poi incontrare.

Le due si sono viste mille volte, ma non si sono mai guardate.

Così, al numero 7 di Rue de Grenelle, si compie il miracolo: due universi entrano in risonanza. Paloma e Renée riconoscono l’una l’anima dell’altra, scoprendo così possibilità insperate.

Colomba e riccio diventano amiche. Vere amiche. “Fatevi una sola amica, ma sceglietela con cura”.

E mentre il prodigio lentamente si compie, la morte arriva. All’improvviso.
Renée, il riccio, incontra l’oblio. Per sempre.

Ora Paloma è sola. Ma il peso che le impediva di volare si è ormai dissolto, con il desiderio di togliersi la vita.

Ecco come termina l’insolita storia di due anime che, in silenzio, celano un boato di vita. Un boato che si setta su frequenze tanto delicate, da venire colte solo da un’essenza altrettanto dolce.

Ebbene, è sempre opportuno ricordare che quando ci si imbatte in esseri “fintamente indolenti, risolutamente solitari” bisogna fare attenzione! Talvolta è solo necessario avere il garbo di inoltrarsi nelle tenebre che li avvolgono, per arrivare al loro cuore puro.

Solo così la magia prende vita, e il riccio e la colomba, finalmente, sorridono.

Maria Baronchelli

Sono Maria Baronchelli, studio Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Milano. La lettura e la scrittura hanno da sempre accompagnato i miei passi. Mi nutro di regni di carta, creandone di miei con un foglio e una penna, o una tastiera. Io e i miei personaggi sognanti e sognati vi diamo il benvenuto in questo piccolo strano mondo, che speriamo possa farvi sentire a casa.

Giovanna d’Arco: quello che resta di un soldato

Giovanna d’Arco: quello che resta di un soldato

Giovanna d’Arco: quello che resta di un soldato

Giovanna d’Arco, la contadina diciassettenne che sovvertì le sorti della Guerra dei Cent’anni

Acqua.

Non chiedo altro per placare l’arsura di una gola che ha emesso troppi gridi di battaglia in preda a euforia isterica di fronte al nemico, ma che ora invoca pietà. Invano.

Mi aggrappo così disperatamente a quel pensiero, ormai volto sbiadito nella mente, che compare più nitido solo nei sogni, da cui per tanto tempo ho attinto forza.

Ecco, lo vedo. È bellissimo. Non parla: mi osserva. I Suoi occhi, verde cupo, conficcati nei miei.

Mi comparve per la prima volta quando ero bambina, inconscia di dove mi avrebbe portato quello sguardo.

“Va’ Jeanne. Parla con il Delfino e libera Orléans dall’assedio degli inglesi”.

Questo il comando, questa la missione.

A diciassette anni io, la Pulzella, portai il messaggio inviatomi a Charles de Valois, allora Delfino, ma presto unico re di Francia.

Non senza diffidenza nei miei confronti, fui messa a capo di un grande esercito e liberai Orléans, da sei mesi assediata dagli inglesi.

Ma a quale prezzo fu nostra la vittoria!

Impressi nell’anima atroci lamenti, grida disperate di cadaveri semoventi, bramosi di aggrapparsi all’ultimo soffio di vita, prima di spirare sotto il peso di una gelida, sudicia veste di ferro.

Il mio compito era così terminato e il Delfino divenne monarca.
Ecco: una contadina aveva dato il trono a un re.

Tuttavia a Lui ciò non bastò. Dovevo liberare la Francia dagli inglesi.

Così con la morte nel cuore per le future vite stroncate, esortai Charles ad affidarmi nuovamente un’armata per liberare Parigi dagli anglo-borgognoni. Non capii purtroppo che ormai la Pulzella di Orléans non gli occorreva più.

Senza i rinforzi l’attacco fu vano.

Tempo dopo, quando fui disarcionata e fatta prigioniera dai borgognoni a Compiègne, tutto fu perduto. Così mi aggrappai all’ossessione dei Suoi occhi, unica fonte di salvezza da quell’inferno.

Mi credevano una strega inviata da Satana, così fui inquisita e torturata. Una volta esaminati i verbali degli interrogatori, fu emesso il verdetto: l’eretica sarebbe arsa tra le fiamme.

Alle prime luci dell’alba di domani sarò cenere nel vento.

È il cuore di una notte senza luna. Sono immobile, schiacciata da catene che m’inchiodano su un giaciglio adatto a un porcile.

A che cosa è servita questa mia vocazione al trionfo e al pianto? Le speranze, la gioia di averTi servito.

Ho rinunciato alla vita per dedicarmi solo a Te, e al Tuo volere. Rispondimi!

Quanto avrei desiderato conoscere l’amore, esserne parte. Sguardi descritti dai poeti, colmi di un sentimento che, pervadendo per la prima volta, stravolge in un turbinio di emozioni.

Vorrei sentirmi amata, avere accanto qualcuno che possa sollevarmi dalla condanna, un tempo apprezzata, di vivere in solitudine.

Perdermi nell’infinito di occhi differenti dai Tuoi, anche se un tempo credevo di amarTi.

Non sono più in grado di comprendere, di sondare la mia anima come facevo durante le notti insonni sul campo di battaglia, per dare risposte alle questioni che mi assillavano.

Forse Ti amo ancora, forse da sempre, forse non l’ho fatto mai, era solo un’ossessione.

Tremo, vessata da conati di vomito causati da atroce angoscia, terrore. Vedo fiamme ovunque, narici impregnate di fumo, legno che si consuma sotto i miei piedi arroventati.

Ghigni di aguzzini, volti gioiscono alla vista del lento liquefarsi di carne, il ruggito del fuoco che divampa, che mi smembra.

La casa a Domrémy, mia madre fila la lana.

Catherine ed io ai piedi dell’Albero delle Fate intrecciamo ghirlande di fiori e il piccolo Pierre, sempre più paffuto, ci osserva attento.

Quanto invidio mia sorella per i lunghi capelli biondi e la dolcezza che dimostra in ogni situazione; quando sarò grande, diventerò bella come lei, anzi di più: tutti ammireranno Jeanne d’Arc, la più splendida fanciulla di Lorena.

Colgo poi un giglio e lo fisso tra i capelli. “Guarda Catherine! Sono una regina.”

Ride e i raggi del sole di maggio le colorano i capelli di sfumature dorate rendendola ancor più bella.

Corro a perdifiato senza meta. Profumo di lavanda, talmente intenso da essere nauseante; le risate, le campane vespertine: tutto si sussegue.

Sfinita, mi sdraio su un prato.

Passi veloci e comuni: Jean. Lo osservo: ha qualcosa di strano. I suoi occhi: non sono azzurri come quelli di nostro padre, sono verdi. Sì: verde cupo e…profondo.

Ride. Adoro la sua risata. Mi carezza delicatamente la guancia.

“Sveglia! Avanti svegliati!”

Sgomenta mi desto da quell’ultimo sorso di vita. Dinanzi a me una guardia dal volto sfigurato da cicatrici, dolorosi trofei di mille battaglie, mi scruta con aria maligna.

Ignoro le sue imprecazioni. Lascio così in catene quel giaciglio che ha accolto l’ultimo barlume di serenità della vita di un soldato mandato da Dio.

Seguo l’animale alla mia destra che mi conduce all’atroce focolare di una pena illegittima.

Maria Baronchelli

Sono Maria Baronchelli, studio Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Milano. La lettura e la scrittura hanno da sempre accompagnato i miei passi. Mi nutro di regni di carta, creandone di miei con un foglio e una penna, o una tastiera. Io e i miei personaggi sognanti e sognati vi diamo il benvenuto in questo piccolo strano mondo, che speriamo possa farvi sentire a casa.