Nel cuore di “Let Me Be”: l’intervista a Fabio Gómez

Nel cuore di “Let Me Be”: l’intervista a Fabio Gómez

Nel cuore di “Let Me Be”: l’intervista a Fabio Gómez

Con l’ultimo singolo in uscita “Let Me Be”, il cantautore italo svizzero Fabio Gómez ha dimostrato che non servono stratagemmi per ottenere ascolti.

Let Me Be non è solo lo specchio di un successo, bensì è una storia che racchiude un viaggio introspettivo che fa tappa negli amori malati, nelle consapevolezze interiori, nel bisogno di prendere delle decisioni spesso radicali, e tutto per riconcorrere una libertà per nulla scontata. Let Me Be è anche una riflessione sulla società di oggi e sulla necessità di compiere un cambiamento, non per gli altri, ma per noi stessi. Una canzone e un crocevia di storie che solo un’intervista all’autore, Fabio Gómez, poteva portare alla luce.

“Let Me Be” è il tuo nuovo singolo che in soli due mesi ha riscosso ottimi risultati con oltre 700.000 visualizzazioni su YouTube e una lunga serie di rotazioni in radio. Ti aspettavi questo successo o è stata una dolce sorpresa?

Quando si lancia un brano si ha sempre un po’ paura che non venga compreso, sono le paure dell’artista di sopravvivenza, istintive; se non ci fossero non ci sarebbe poi l’adrenalina, la sorpresa di vedere crescere ogni giorno sempre di più il numero degli ascolti. Ma aldilà dei numeri, l’obiettivo non è questo, ma è quello di arrivare alle persone reali in modo organico. In un periodo storico dominato dal fake, produrre contenuti di valore è il mio modo di distaccarmi il più possibile da questa realtà. Prima di capire quali scelte intraprendere per questo brano mi sono preso del tempo, una palestra artistica diciamo, e anche grazie alle numerose live su Facebook ho capito che per me l’interazione è la cosa fondamentale, significa saper comunicare con il proprio pubblico. Un altro fattore importante sono state sicuramente le persone che ho conosciuto nel mondo, in particolare una ragazza boliviana che tramite il padre è riuscita a inserirmi nel circuito delle piattaforme digitali del Sud America e la proiezione del videoclip mi ha sicuramente portato ad avere una visibilità più ampia.

Il brano racconta la storia di un uomo e la sua personale ricerca della libertà vissuta come una vera e propria conquista.  Da dove nasce questo forte desiderio di sentirsi liberi e cosa, invece, ti ha fatto sentire intrappolato?

Sono state tante le situazioni nella mia vita che mi hanno fatto sentire intrappolato, ma quando scrivo cerco di farlo in maniera universale senza riferimenti personali in modo tale che chiunque mi ascolti possa immedesimarsi. D’altronde chi non ha avuto una situazione di questa natura? Penso che un po’ tutti ci siamo trovati in relazioni in cui all’inizio ci sentivamo all’inizio coinvolti e nel tempo abbiamo poi capito che tutto ciò poteva lederci. Credo che ciò che conti in assoluto sia riuscire a mantenere la propria integrità in una relazione. Se una persona inizia a cambiare il tuo modo di essere, il tuo modo di comportarti e comincia a soffocarti, non è più amore, ma diventa oppressione, possessione, gelosia e comando. Penso che quando nell’amore manchi la fiducia, manchi il presupposto fondamentale per essere liberi. Libertà vuol dire che le due parti, le persone coinvolte, si sentano libere di esprimersi come meglio credono e riescano a trovare il loro spazio di libertà immensa dove poter essere completamente loro stesse. È quando ti ritrovi a camminare in una città come Parigi, o New York, dove puoi correre e passare dei momenti meravigliosi, che riesci a sentirti pienamente libero. Forse è proprio perché sono un sognatore ad occhi aperti che sono finito dall’altra parte del mondo per poter costruire una mia strada alternativa.

Nel testo emerge un altro tema importante: l’amore. “Love gave me the blues again”. Le tue parole descrivono questo sentimento con sofferenza e delusione: è questa la tua visione dell’amore?  

Nella lingua parlata inglese ci sono dei modi di dire diversi dai nostri e alcuni di questi riescono ad assumere un particolare significato, come quello che hai riportato. Il “blues” che tradotto significa “sofferente, malinconiconasce in realtà dal libro Spiritual come primo genere di musica profana portato avanti dalla comunità afroamericana ed è un genere meraviglioso che ha influenzato tantissima della musica che conosciamo. Il blues detta la linea di basso di tantissimi brani anche pop, a partire dai Beatles ai Rolling Stones. “Love gave me blues again” in quest’accezione prende sì il significato di delusione, ma è una parola ben più complessa. La prima strofa da cui è tratta questa frase descrive lo stato d’animo iniziale, ma già al ritornello si compie uno staccato completo, una forma di scelta radicale che dobbiamo essere in grado di prendere quando oltrepassiamo la linea della sofferenza perché capiamo che stiamo vivendo una situazione che va a intaccare il nostro equilibrio spirituale. È in quel momento che dobbiamo compiere delle scelte capaci di rivoluzionare tutto, e Let Me Be è l’espressione di questa scelta.

È vero che l’amore tante volte può portare a voler scappare, ma tante altre volte è proprio nella condivisione che vi si trova un senso di libertà. Questa visione dell’amore come ‘delusione’ deriva da un’esperienza personale?

Quando arrivi ad un certo grado di consapevolezza in cui riesci a capire cosa vuoi e cosa non vuoi per te stesso, arrivi anche al momento in cui devi essere in grado di compiere questa scelta, così che ti porti poi a trovare la condizione che realmente ti possa far crescere umanamente. Si tratta di un passaggio evolutivo forzato: la vita ti porta a vivere certe esperienze, ma è solo conoscendosi che si possono prendere tali decisioni. Se invece si rimane stagnanti, non ci si può lamentare poi della propria situazione.

New York è senza alcun dubbio la città dove per eccellenza “si è liberi di essere chi si vuole”: è questo il motivo che ti ha spinto a girare tra le location newyorkesi il videoclip del singolo? O esiste un legame più profondo con questa città?

In realtà hai azzeccato parte della storia perché New York è una città che gli stessi americani considerano “uno stato a sé”. È una città molto particolare perché è proprio a New York che la gente approda nel tentativo di cercare fortuna, è una città che funge da trampolino d lancio. Anche la storia ha molto a che fare con la Grande Mela, partendo dalla cinematografia che ha investito su questa città le più grandi storie momentanee: New York è come un amore estivo, dura il tempo che trova, ma è ricco di emozioni. Potremmo definirla come una città in continua evoluzione, un punto di passaggio che le persone sfruttano per poi stabilirsi in altri punti dell’America, come la California o la Florida. New York è sicuramente la città degli affari, magica ma anche crudele e i suoi grattacieli sono lo sfondo ideale per contenere tutte le storie che si intrecciano nel videoclip, a partire dai due ballerini dell’Accademia di Ballo di New York. Prima compagni di danza, poi compagni di vita e infine lo stesso amore per il ballo che li accomunava è stato la causa della loro divisione: lei sceglie il classico, lui la danza moderna. Ed ecco di nuovo la vita che ci porta a compiere delle scelte che in amore possono non essere condivise, ma amore significa anche accettare il cambiamento dell’altro e il bisogno di intraprendere strade diverse; amore è essere felici del successo dell’altra persona, anche se sono scelte non condivise. L’altra storia nella storia è quella di due amanti: una relazione che dura da troppo tempo e nella quale la ragazza, restando in balia di due amori e rifiutandosi di prendere una decisione fa scaturire la presa di coscienza nell’amante (impersonato da me nel videoclip). Lui capisce che è meglio andare via, deve allontanarsi da quella che è diventata un’ossessione e l’abbandono della città è la sua scelta radicale.

Sometimes it’s harder to hold on than to let go. Take a chance, make a change.” Queste sono le ultime parole che compaiono nel videoclip: è questo il tuo motto? Un invito a cogliere l’attimo?

L’ultima frase riguardo la scelta significa che a un certo punto nella vita è necessario concedersi la possibilità di vedere le cose da un altro punto di vista, di intraprendere altre strade e di dare un taglio a situazioni durate troppo.  La prima frase “a volte è più difficile trattenere le cose che lasciarle andare” è un campanello d’allarme che vuole far notare come la nostra sofferenza inizia proprio quando iniziamo a trattenere le cose, dapprima i pensieri. Se non lasciamo che il flusso scorra per una questione di gravità naturale, si rischia di entrare in conflitto con noi stessi, con il nostro passato e con il nostro futuro. Il mio motto è sempre questo: quel che è stato è stato, e non tornerà mai indietro.  È inutile rimuginare troppo sulle cose, ormai sono accadute o accadranno seguendo il loro corso. Non è più la realtà che stai vivendo, devi solo conviverci. Non bisogna avere paura del futuro, né farne un pensiero fisso perché la nostra mente crea in continuazione aspettative e dinamiche irreali. Ho smesso di impiegare il mio tempo mentale a pensare come sarà: progetto sì, ma se sarà tutto diverso vivrò il corso degli eventi con la stessa serenità. Un po’ come il videoclip che ho girato a New York, avevamo un piano di riprese, ma poi è andata diversamente perché ci siamo lasciati affascinare e guidare dal momento: bisogna essere aperti alla novità tenendo i piedi per terra e valutando sul campo cosa è possibile o sconveniente, per questo mi piace pensare di essere un sognatore ad occhi aperti, costantemente creativo, ma nel concreto. Un altro tema portante nella canzone, aldilà delle scelte radicali, è proprio la Sindrome di Stendhal moderna: la pervasività della digitalizzazione ci ha condotti in una silente ipnosi inconscia che ci ha legati ipnoticamente ai media. Il quadro di Stendhal moderno è questo, le persone ormai sono impressionate solo da immagini, video e distorcono la propria attenzione dal mondo reale e Let Me Be vuole essere un campanello d’allarme.

Sei nato in Svizzera, hai studiato a Chicago e poi a Sanremo, ma nel cuore hai anche del sangue spagnolo. Ti reputi un cittadino del mondo o esiste un luogo dove più di altri ti senti a casa?

Madrid è a tutti gli effetti la mia casa. È il luogo dove abita la mia famiglia con la quale ho un rapporto meraviglioso perché con il tempo hanno saputo capire chi sono. Ne conosco ogni rincón, lì mi trasformo e vivo una libertà totale. Un altro posto in cui mi sento a casa è sicuramente la Svizzera: vi ho vissuto moltissimi anni e ho anche dei parenti a Berna. Ecco, a Berna mi succede spesso una cosa magica, perché la sento come città di nascita e di ricerca a livello emotivo. Ad ogni arrivo per me è sempre un po’ inedita, nonostante la conosca molto bene, vi sento un tepore che mi ispira a livello emotivo e creativo; invece Lugano o il Ticino sono luoghi che hanno il potere di farmi rivivere il passato. Mi ritrovo come in un crocevia: Varese e il Ticino sono stati i miei luoghi di transizione e trasformazione, dai quali mi sono sempre allontanato. Eppure, quando sono lì, mi sento sempre a casa, riaffiorano con un po’ di nostalgia, i ricordi e la mia infanzia. La fortuna di essere cresciuto in Svizzera è stata la possibilità di vivere in un contesto multiculturale nel quale i ragazzi crescono accompagnati da più culture che li proiettano verso nuovi orizzonti. Anche se eravamo giovani, a vent’anni avevamo già una mente bohémienne, cosmopolita con una percezione della diversità totale che ne fa derivare umiltà. Per fare strada bisogna aprire la mente su altri e più orizzonti.

“Let me be” è stato un bel successo. Hai già in mente il prossimo singolo? 

Per farla breve: sarà una sorpresa, non voglio svelare nulla! Posso dire che sto già lavorando a un nuovo singolo la cui uscita è prevista per ottobre o novembre, dipende molto dall’andamento della pandemia che purtroppo ha determinato tante scelte costrittive per tutti gli artisti. Sicuramente ripartirà il mio tour mediatico nel Sud America, mentre a maggio uscirà la versione spagnola di Let Me Be con la stessa melodia. ma con variazioni nel canto e nell’arrangiamento.

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Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

IoVoceNarrante? La mia penna.

Alice in Wonderland: tra le origini e le curiosità di un mondo fantastico

Alice in Wonderland: tra le origini e le curiosità di un mondo fantastico

Alice in Wonderland: tra le origini e le curiosità di un mondo fantastico

Pochi nomi alla sola pronuncia hanno la capacità di rievocare storie intere: Alice è sicuramente uno di questi. Non si tratta della quantità delle opere dedicate a quel nome, ma la loro grandezza.

Può darsi che le opere più grandi non nascano necessariamente con l’apprensione di esserlo e di certo, quando Lewis Carrol raccontò di una ragazzina che inseguendo un coniglio bianco si ritrovò in un sottosuolo fantastico, non avrebbe mai immaginato che la sua storia sarebbe stata tra le più tradotte al mondo e tra le più citate dopo Shakespeare. Era il 1951 quando la casa cinematografica di Walt Disney creò sulla base del suo romanzo l’omonimo film d’animazione: Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie. Da allora insieme all’incredibile successo della pellicola, credenze, accuse, miti e curiosità hanno avvolto il capolavoro dell’età vittoriana, alimentandone la sua iconicità. Eccone alcuni tra i più discussi…

 

La vera identità di Alice

Pubblicato per la prima volta nel 1865, pare che il romanzo sia nato “in un soleggiato pomeriggio” nel corso di una gita sul Tamigi che Lewis Carroll (pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson) trascorse con le tre giovani figlie dell’amico accademico Henry George Liddell: Alice, Edith e Lorina. Mentre il canonico Robinson Duckworth remava, la piccola Alice Liddell di appena dieci anni chiese a Carroll di raccontarle una storia. Il reverendo l’accontentò e intrattenne le sorelle con una serie di racconti strampalati e avventure vissute da una di loro, Alice. Tra i mondi creati dalla fervida immaginazione di Lewis ve ne fu uno in particolare che catturò l’ammirazione della piccola Liddell: una giovane ragazza cade nella tana di un coniglio e si ritrova in un sottosuolo fatto di paradossi, pozioni, animali vestiti da uomini, carte da gioco che camminano, duchesse impazzite, gatti parlanti, pronta a vivere un’avventura unica in un mondo sconosciuto che appartiene ai sogni e all’inconscio.  Alice Liddell gli chiese di scrivere un libro su questa storia, fino a che lui non l’accontentò. Nel novembre 1864, due anni e mezzo dopo quella richiesta di Alice, Carroll completò una versione intitolata Le avventure di Alice sottoterra e fu il regalo per Alice del Natale del 1864. Il libro ebbe anche un seguito: Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, pubblicato nel 1871 nel quale è contenuta una poesia le cui lettere iniziali compongono l’acrostico del nome completo della bambina: Alice Pleasance Liddell:

A boat beneath a sunny sky,

Lingering onward dreamily
In an evening of July–

Children three that nestle near,
Eager eye and willing ear,
Pleased a simple tale to hear–

Long has paled that sunny sky:
Echoes fade and memories die.
Autumn frosts have slain July.

Still she haunts me, phantomwise,
Alice moving under skies
Never seen by waking eyes.

Children yet, the tale to hear,
Eager eye and willing ear,
Lovingly shall nestle near.

In a Wonderland they lie,
Dreaming as the days go by,
Dreaming as the summers die:

Ever drifting down the stream–
Lingering in the golden gleam–
Life, what is it but a dream?

 Nonostante il riferimento esplicito e la dedica ad Alice Liddell, le illustrazioni della protagonista nei romanzi e nelle opere cinematografiche mostrano una figura diversa rispetto a quella della bambina. La differenza più evidente è sicuramente il colore dei capelli: la bionda chioma di Alice come la ricordiamo dai grandi schermi è ben lontana dalla mora Liddell ed è ispirata ad un’altra bambina: Mary Hilton Badcockpour.

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Le accuse di pedofilia a Lewis Carroll

La passione di Dodgson per le ragazze e le bambine, la sua collezione di foto, alcune  fotografie che lo stesso Dodgson scattò e altri elementi della sua biografia hanno da lungo tempo portato alla nascita di teorie sulla sua presunta pedofilia, sebbene pochi siano arrivati a suggerire che l’autore abbia mai oltrepassato i confini dell’amore platonico per le sue giovani amiche. In realtà le fotografie e i ritratti di bambine con il corpo scoperto non erano un’eccezione in età vittoriana, anzi, lo stesso Carroll definì la fotografia come lo strumento ideale per esprimere la sua filosofia personale di perfezione morale, estetica e fisica in antitesi alle rigide regole sul comportamento che regnavano nell’età vittoriana. Ad alimentare questo scandalo è stata la brusca interruzione dei rapporti tra l’autore e la famiglia della piccola Alice cui Carroll era molto legato. I reali motivi di questo allontanamento restano ignoti e negli anni hanno portato a diverse teorie, tra cui quella dell’accusa di pedofilia. Complici di queste supposizioni sono anche le sette pagine mancanti dai diari di Lewis che coprono il periodo compreso tra il 27 e il 29 giugno 1863 e quello tra il 24 maggio e il 6 giugno 1879, i presunti periodi in cui ci fu l’allontanamento dalla famiglia. D’altro canto, il rapporto tra Lewis Carroll e Alice da sempre incuriosisce la critica, spaccata tra chi sostiene le accuse allo scrittore e chi difende la reputazione di un uomo che non ha mai dato una interpretazione erotica dell’infanzia. La speculazione sulla natura dei suoi rapporti con i bambini è negli anni naufragata per assenza di prove e oggi Charles Dodgson è stimato come uno degli autori più fantasiosi e abili del suo tempo.

 

Le innumerevoli identità nascoste dei personaggi

Complesso, enigmatico, surreale: il romanzo di Lewis Carroll è stato uno spartiacque nella letteratura d’infanzia del secolo scorso. La creazione di un mondo dove più che mai “tutto è possibile” ha suscitato non scarse attenzioni da parte della critica e di studiosi che negli anni hanno cercato di interpretare le ragioni, le metafore e i significati di uno degli universi più fantastici di sempre. Tra gli studi sull’inconscio, il parallelismo con le droghe e le correnti irrazionaliste, alcune interpretazioni di questo grande classico si soffermano sulle identità nascoste dei personaggi e sulla possibile metafora della favola con le fasi della crescita. Alice è una bambina spensierata, ribelle e come tale, non ama seguire le regole. Rappresenta chiaramente l’infanzia. In antitesi il Bianconiglio rappresenta i genitori: sempre di fretta, perennemente in contrasto con la protagonista; è sfuggente e ansioso, ma soprattutto è carico di stress. In questo quadro la Regina di Cuori non può che essere la personificazione della rabbia. Anche lei, come il Bianconiglio, rappresenta il mondo degli adulti. Allo stesso tempo la sua famosa esclamazione “Tagliatele la testa!” è un’accusa ai politici di quel tempo che spesso prendevano decisioni troppo drastiche e senza senso. Il Brucaliffo è chiaramente il simbolo di passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Non a caso, infatti, dopo aver parlato con Alice, si trasforma in una farfalla. È un personaggio inizialmente molto scostante con la protagonista, ma allo stesso tempo non si esime dall’esprimere perle di saggezza. Infine abbiamo lo Stregatto: astuto, disinteressato e super partes. Che sia la personificazione dell’autore? O forse, più semplicemente, siamo tutti matti.

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Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

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Un vento leggero: il femminismo di Isabel Allende

Un vento leggero: il femminismo di Isabel Allende

Un vento leggero: il femminismo di Isabel Allende

Isabel Allende è senza alcun dubbio una delle scrittrici più amate al mondo. Cilena, naturalizzata statunitense, l’autrice latino-americana ha saputo trasformare le sue parole in un’arma contro una società che non sta al passo con i tempi.

Femminista sin dalla nascita, l’Allende racconta la sua storia e così quella di tante, troppe donne che leggendola si uniscono alla sua voce: è il suo ultimo romanzo “Donne dell’anima mia”.

Gli inizi

Nata a Lima in Perù il 2 agosto 1942, Isabel Allende comincia già da bambina a immaginare i luoghi e i personaggi che poi diventeranno i protagonisti dei suoi romanzi. La madre, Francisca Llona Barros, divorzia dal padre, Tomás Allende, quando la scrittrice ha solo tre anni e Isabel non conoscerà mai suo padre. Sola, con tre figli e senza alcuna esperienza lavorativa, la madre si trasferisce a Santiago del Cile insieme ai fratelli grazie all’aiuto del cugino del padre, il futuro presidente del Cile: Salvador Allende. Vengono ospitati a casa del nonno e il ricordo di questi luoghi sarà poi evocato nel primo romanzo della scrittrice, La casa degli spiriti, nato da una lunga lettera che Isabel scrisse proprio al nonno. Bambina inquieta e già cittadina del mondo, si trasferisce in Bolivia, successivamente in Europa e poi in Libano sempre a causa del lavoro diplomatico del marito della madre. Nel 1959 torna in Cile e tre anni dopo sposa Michael Frias con cui avrà due figli, Paula e Nicolàs. La sua intelligenza, acutezza e forza emergono sin da giovane nel suo lavoro di giornalista che la farà emergere ben presto come una figura coraggiosa e rivoluzionaria. Dopo il colpo di Stato di Pinochet dell’11 settembre 1973, si trasferisce nel 1975 a Caracas, per poi andare a vivere definitivamente negli Stati Uniti dove conosce il suo secondo marito William Gordon.

Collezionista di ricordi

Negli anni trascorsi in America comincia la fase più prolifica della scrittrice. È il periodo in cui si delinea il suo stile caratteristico, che unisce un linguaggio giornalistico e il realismo magico, la metafora e la brutalità, la responsabilità politica e storica, il romanticismo e la magia, il tutto condito da un’acuta lucidità e da un senso dell’umorismo dolce e indulgente. Le sue opere sono state classificate nel movimento letterario conosciuto come Posboom: sono o sembrano autobiografiche, ma lei preferisce definirle “memorias”, ovvero “collezioni di ricordi più vicine alla finzione che alla realtà”. Isabel Allende non ha dimostrato di essere soltanto una scrittrice, ma una forza della natura e con il suo talento ha costruito un meraviglioso mondo immaginario dove tutto è possibile oltre le lingue, le religioni, i confini geografici e culturali.

Donne dell’anima mia

“Mujeres del alma mía” edito da Feltrinelli con il titolo Donne dell’anima mia è l’ultimo libro terminato dall’autrice nel marzo del 2020.Un originale diario della ribellione all’autorità maschile, ma anche un manifesto per frammenti e memorie, a partire dalla condizione della madre Panchita (così chiamata affettuosamente) abbandonata dal marito in Perù insieme ai suoi tre figli.

Risultato immagine per isabel allende e  panchita

Con il suo Donne dell’anima mia l’Allende cerca di dare il suo contributo alla lotta contro la violenza sulle donne, frutto di quella cultura del patriarcato di cui lei stessa è stata testimone. Con un discorso informale, come lei stessa lo definisce, ci racconta la storia di sua madre e ci parla del femminismo sviluppatosi in lei già nella primissima infanzia. “Non esagero quando dico che sono femminista dai tempi dell’asilo”. Isabel Allende nel suo romanzo afferma di non aver bisogno di inventare le protagoniste dei suoi libri, donne forti, decise: ne è sempre stata circondata. Sono donne sfuggite alla morte, alcune hanno subito traumi indelebili, altre hanno perso tutto e nonostante questo ce la fanno. Sono donne che si rifiutano di essere trattate come vittime, hanno dignità e coraggio, si rialzano, vanno avanti e lo fanno senza perdere la capacità di vivere con amore, compassione, gioia.

Il patriarcato è di pietra, il femminismo è fluido

A soffrire di più di quella condizione era l’Allende bambina, come se avesse capito già tutto di quella cultura del dominio dell’uomo sulla donna, che porta ancora il Cile ad essere uno dei paesi al mondo con la più alta incidenza di violenza sulle donne. Un paese in cui solo di recente grazie a Michelle Bachelet, la prima presidente donna, è stato garantito l’accesso facile e gratuito agli anticoncezionali, sono state promulgate leggi di protezione a favore delle donne e sono state costruite strutture di accoglienza. Nonostante l’informazione, l’educazione e le nuove regole però, la Bachelet non è riuscita a far passare al Congresso la legge per depenalizzare l’aborto. Se c’è forse un limite alla visione della Allende è proprio quello di guardare al fenomeno e di strutturare il femminismo partendo proprio dalla visione del suo paese d’origine e di quella del Sudamerica e dei paesi sottosviluppati. Di contro è anche la sua forza, perché proprio per la stessa ragione il femminismo della scrittrice non ha nulla di banale o di trascurabile e poco ha a che vedere con il lessico e il linguaggio:

«Le parole sono importanti come macigni quando sono dispregiative nell’educazione alla parità non quando usiamo architetto al posto di architetta, o avvocato invece che avvocata. Le parole sono importanti nel concetto di educazione alla discriminazione che nulla a che vedere con le quisquilie su cui mettono l’accento quelle che si definiscono femministe nel nostro mondo».

Isabel Allende

 

Un vento leggero

Donne dell’anima mia è un urlo, l’ennesimo, per fermare la violenza, lo sfruttamento, gli abusi: è la voce di una donna che arrivata alla soglia dei suoi ottant’anni non smette di credere nell’uguaglianza, nella libertà, nelle pari opportunità, che non sceglie la strada facile e non accetta compromessi. Isabel Allende non ha mai smesso di credere nella vita nonostante le sofferenze, a partire dalla morte della figlia Paula, deceduta giovanissima. È dal dolore per la perdita di Paula che nasce nel 1996 la Fondazione Isabel Allende, una missione che, come un vento leggero, investe nel potere dell’universo femminile per garantire l’indipendenza economica e la libertà dalla violenza.

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Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

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Black Thursday 1929

Black Thursday 1929

Black Thursday 1929

Il crollo della borsa di Wall Street

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L’economia, così come la politica, sanno talvolta essere intangibili. Così estremamente legati a quella sfera astrale che, al di là di ogni logica più razionale, non smettono di lasciare una scia di perplessità nelle menti di chi soprattutto di economia e politica ne capisce ben poco.

Per la crisi, il debito pubblico e la disoccupazione? Stampate più moneta! E invece no, troppo facile. Ma immaginate dover affrontare una crisi di eco globale, una disoccupazione del 25% della forza lavoro ed essere la prima super potenza economica mondiale. Questo è esattamente ciò che accadde il 24 ottobre 1929, ma per fortuna c’era Roosevelt che di economia ne capiva più di noi.

 

L’America degli anni ’20

Pronta ad affacciarsi e a conquistare con eleganza il ruolo di nuova economia mondiale scalzando il primato a un’Europa in crisi e difficoltà, c’è la grande America degli anni ’20. Intervenuta a fianco della Triplice Intesa negli ultimi anni della Grande Guerra, gli Stati Uniti d’America vantano una perdita minima di capitale umano ed economico grazie all’iniziale isolazionismo americano che consentì alla neo-super potenza di vincere e di segnare le sorti del conflitto, impiegando il minimo sforzo bellico. A un catastrofico scenario europeo si affiancava energica una nuova potenza che mise rapidamente fine a secoli di eurocentrismo e diede inizio a una nuova pagina di storia che si colorerà di un nuovo termine: “americanismo”.  Come una brava madre l’America non si limitò a dirigere il nuovo ordine economico ma intervenne in un “patto sociale” con le ex potenze europee per osteggiare la ventata inflazionistica che colpì in particolar modo la Germania. Spogliata, per mano della “pace punitiva” del suo bacino industriale nella Ruhr, la società tedesca venne ristabilizzata (parzialmente) grazie a due piani di investimenti, il piano Dawes e il successivo piano Young creando una conseguente dipendenza dell’economia europea da quella statunitense.

Sviluppo economico e produzione in serie

Fra guerra e dopoguerra negli Stati uniti si attivò un circolo virtuoso tra produzione e consumo: la produzione in serie di beni di consumo teneva bassi i prezzi di queste merci mentre gli alti livelli di occupazione e i salari relativamente alti ne consentivano l’acquisto anche alle classi lavoratrici. Il risultato della nuova organizzazione del lavoro e la produzione in serie di oggetti standardizzati fu la condizione che permise un nuovo tipo di consumo di massa parallelo all’affermazione di un nuovo ceto medio e una nuova cultura definita appunto “società di massa“.  L’America capitalistica aprì la strada a un individualismo acquisitivo volto ad ancorare l’identità a status symbol facilmente acquistabili, su un mercato caratterizzato dalla frammentazione del ciclo produttivo e dalla parcellizzazione del lavoro.

Filosofia del lavoro - Henry FordProtagonista di questi anni fu senza dubbio Henry Ford che già nel 1913 ebbe la lungimirante intuizione di un sistema produttivo basato sulla catena di montaggio e il successo della sua Ford modello T fu tale che il leader comunista italiana Antonio Gramsci definì l’intero sistema “Fordismo”.

Il crollo della borsa di Wall Street

I processi di concentrazione economica e finanziaria erano negli Stati Uniti degli anni ’20 più intensi che mai. Accanto ai trust e ai cartelli comparvero le holding che concentrarono nelle proprie mani i pacchetti azionari delle maggiori imprese, accentuando l’intreccio fra banca e industria. Gli investitori acquistavano azioni con l’obbiettivo di rivenderle a breve scadenza nella certezza di lucrare facili guadagni e nella fiducia che i prezzi continuassero sempre a salire. Ma nel 1929, per la prima volta dopo molti anni, l’indice della produzione industriale statunitense calò: le economie europee erano orma in ripresa e gli sbocchi di mercato a disposizione delle merci americane cominciavano a ridursi. Così il mercato borsistico crebbe più della produzione e del consumo gonfiando una “bolla speculativa” e il valore dei titoli perse ogni rapporto con i valori dell’economia reale. Il 24 ottobre 1929 quella bolla speculativa scoppiò e l’indice della borsa di New York crollò segnando un ribasso pari al 50% del valore dei più significativi titoli azionari.

Non Serviam on Twitter: "October 24, 1929 #OTD #History "Black Thursday" The Wall Street Crash of 1929 or, the Stock Market Crash of 1929 or simply, the Great Crash continued until OctoberCinque giorni dopo crolla anche la borsa valori dello Stock Exchange, sede del mercato finanziario più importante degli Stati Uniti. Il 29 ottobre 1929 verrà ricordato nella storia come “Black Thursday”, il primo giorno della più grave crisi economica mondiale della storia, la Grande Depressione.

La Grande Depressione

Una volta iniziata, la discesa dei titoli proseguì a precipizio: un’enorme quantità di azioni fu svenduta dai possessori nella speranza di limitare le perdite. I risparmiatori ritirarono i loro depositi; gli istituti di credito fallirono e la chiusura di migliaia di piccole banche fu rovinosa in un paese dove l’indebitamento privato era la pratica più diffusa. La Grande Depressione, dal 1929 al 1933,  smentì le previsioni ottimistiche alimentate dalla precedente fase di prosperità, estendendosi a gran parte del mondo. La Germania fu il paese in cui la crisi provocò gli effetti più disastrosi ma ne risentirono anche l’Argentina, il Brasile e, seppur con meno impatto, anche Francia e Gran Bretagna.

 

La crisi del ’29 è tra le cause del secondo conflitto mondiale?

La fisionomia della società capitalistica uscì profondamente mutata dalla svolta del 1929-32. Tra i più importanti progetti di riforma economica il New Deal del neopresidente democratico Franklin Delano Roosevelt fu certamente rivoluzionario. Per la prima volta negli Stati Uniti lo stato si trasformò in imprenditore assumendo i compiti di regolazione dell’economia e di intervento a sostegno delle fasce più deboli della popolazione. Il New Deal ridimensionò il potere delle grandi corporations e costruì un modello di welfare state sintetizzando le linee fondamentali della politica economica, più tardi nota come “keynensismo”, fondata su un intervento statale a sostegno della domanda interna. Tuttavia, la riforma capitalistica riuscì solo in parte a risolvere gli squilibri economici e sociali della crisi. Solo la congiuntura bellica avrebbe infatti permesso di rilanciare la produzione e di riassorbire la disoccupazione superando la fase recessiva apertasi nel 1929. Ma sul piano delle percezioni individuali la crisi si sommò alla guerra del 1914-18 nel generare una diffusa disaffezione per la democrazia e il sistema parlamentare. Dall’altra parte, fascismo e comunismo, sembravano promettere l’alba di un mondo nuovo, sacrificando la libertà e la sicurezza.

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Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

IoVoceNarrante? La mia penna.