10 motivi per leggere il Kamasutra

10 motivi per leggere il Kamasutra

10 motivi per leggere il Kamasutra

Il Kamasutra, per anni considerato un libro volgare e corrotto, è in realtà un inno all’amore più puro e – incredibile, ma vero – piacevole. Ecco perché leggerlo.

Quando sentiamo nominare il Kamasutra, la prima (e forse unica) cosa che ci viene in mente è l’elenco delle posizioni che una coppia dovrebbe assumere durante i rapporti sessuali, affinché sia le donne che gli uomini possano trarne il maggior piacere possibile.

Niente di più lontano dalla realtà, perché nel Kamasutra, che risale al III secolo, non c’è assolutamente nessuna lista: il kama (il “piacere”, o meglio “il soddisfacimento del piacere”) nella concezione hindu è solo uno dei tre grandi scopi dell’essere umano, insieme al dharma ( la “legge sacra”, intesa nel senso dell’osservanza delle norme rituali e delle leggi) e all’artha (l’ “utile”, il fine concreto per il quale si agisce, l’interesse materiale e la ricchezza). Ecco allora 10 motivi per cui chiunque dovrebbe leggere il Kamasutra di Vatsyayana, nella sua versione originale.

  1. Non c’è niente di pornografico. Non c’è una singola immagine o rappresentazione, non è un testo che ha lo scopo di incendiare gli animi. E’ un testo normativo, che si pone l’obiettivo di regolare le azioni e gli atteggiamenti da assumere quando il desiderio è acceso. Nessun’idea di violenza o di possesso. Non la scintilla che appicca il fuoco, ma l’ossigeno che lo tiene in vita affinché possa durare e generare il calore necessario.

  2. Amore per piacere, per puro godimento. Come dicevamo, non essendoci nessun riferimento pornografico, l’amore qui rappresentato è semplicemente un tipo di “amore per piacere”: fate l’amore perché è bello, perché è un istinto naturale, e perché non c’è nulla di male. Non è un rapporto sessuale che punta al concepimento, la prosecuzione della stirpe è compito dell’Utile, non del Desiderio. Questo è il campo dell’amore.
  1. Condanna ai matrimoni “violenti”. I matrimoni in India erano (e spesso sono) organizzati dalle famiglie. Vatsyayana identifica otto diversi tipi di matrimonio e li mette in ordine gerarchico: i primi quattro nella scala sono i più nobili, essendo tutti matrimoni organizzati dai genitori o dai parenti degli sposi, mentre gli altri quattro sono da lui profondamente condannati. Questi sono i casi i cui la sposa viene rapita o ingannata o ancora stuprata perché ubriaca o addormentata. Una presa di posizione nobilissima, se consideriamo che ancora oggi in alcune parti del mondo non c’è nessun riguardo per la donna, mai libera di esprimere i suoi desideri o di opporsi.

  2. Destinato a tutti gli strati sociali. La società hindu è una società profondamente castale, fortemente legata ai diritti e ai doveri dei gruppi sociali. Le dottrine della Legge Sacra e dell’Utile erano una prerogativa degli strati più alti della società, ma questo non vale per il Desiderio. Il kama è destinato a tutti, così lo è anche alle caste inferiori. Un segno più unico che raro di equità, come non se ne troveranno così facilmente nella storia dell’India.
  3. Una forma di istruzione per la donna (deve saper contare). Proprio perché destinato anche agli strati sociali più bassi, l’istruzione data dal Kamasutra è destinata anche alle donne da sempre escluse da qualsiasi attività o conoscenza. Anzi, essere buone mogli vuol dire anche essere in grado di soddisfare il proprio marito, ma non ci si ferma qui: le donne devono saper leggere, scrivere e contare, devono essere in grado di tenere la contabilità della famiglia e di amministrare la casa.
  4. Le donne hanno la stessa natura dei fiori. Vatsyayana ha una visione dolcissima della donna, e la dipinge delicata come un fiore. Bisogna dunque toccarla con delicatezza, senza mai forzarla, e avvicinarla solo quando mostrerà piena fiducia e arrendevolezza. Non bisogna spaventarla o farle pressione altrimenti svilupperà sentimenti di paura e astio nei confronti dell’amante. C’è da dire che, sempre secondo Vatsyayana, la prima mossa spetta sempre all’uomo, e la donna può fare avances solo quando è l’uomo a lasciarle prendere l’iniziativa. Ma siamo pur sempre nel III secolo, sfido chiunque a trovare un parallelo nella letteratura occidentale.
  1. Vastyayana è il primo a riconoscere l’esistenza dell’orgasmo femminile. La donna non è un dispositivo che serve a dare piacere all’uomo, anche la donna ha i suoi desideri e perviene al loro soddisfacimento. Anche la donna prova piacere, esattamente allo stesso modo dell’uomo. Nessun altro lo aveva ancora detto, nessun altro lo dirà ancora per molto tempo.

  2. Visione positiva delle cortigiane. La cortigiana è una figura appartenente alla società e ivi attiva, un personaggio dunque degno di rispetto che non va emarginato o additato. I sultani sono i loro migliori clienti ed è frequentissimo trovarle nelle regge reali, sono le donne più libere di agire della società indiana in quanto svincolate da ogni legame matrimoniale. Il loro scopo primario è il perseguimento dell’Utile, il guadagno, e non devono assolutamente essere considerate impure, perché non lo sono.
  3. Le vedove possono risposarsi. Non è così scontato, perché nella società dell’India antica alla morte del marito la donna doveva gettarsi sulla sua pira funebre e sacrificarsi per lui, morendo così tra le fiamme. Tradizione oggi illegale, ma nel III secolo ogni donna che non si gettasse nel fuoco delle ceneri del marito era denigrata e considerata una traditrice, destinata alla miseria. Per Vatsyayana no, anzi. La vedova può risposarsi, se lo desidera, svincolandosi dal terribile dovere di sacrificare se stessa.
  4. L’amore omosessuale è lecito, non condannato né condannabile. Il kama mira al raggiungimento del piacere, è soggettivo ed esistono infiniti modi di amare, tanto che il Kamasutra non può certo elencarli tutti. Ma un capitolo particolare è dedicato all’amore omosessuale, addirittura sollecitato e regolamentato, perché il suo scopo sia quello di dare piacere a entrambe le parti della coppia. Roba che Medioevo, levati proprio.

Insomma, una visione più che attuale del sesso e del rapporto fra due persone elaborata mentre i Romani ancora pensavano a conquistare il mondo. La rappresentazione di rapporti dolcissimi, delicati, mai forzati, che obbediscono alle leggi della natura e della società. Perché non c’è niente di più naturale e di più puro del desiderio di unirsi a qualcuno.

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.

Perché La scuola cattolica è vietato ai minori (ed è giusto così)

Perché La scuola cattolica è vietato ai minori (ed è giusto così)

Perché La scuola cattolica è vietato ai minori (ed è giusto così)

La scuola cattolica di Stefano Mordini, tratto dall’omonimo romanzo Premio Strega di Edoardo Albinati, è stato vietato ai minori di 18 anni. Per molti l’ennesimo caso di censura, ma non è proprio così.

La trama è arcinota, anche se forse non troppo presso i Millennials: il delitto del Circeo. Roma, 1975. In un istituto scolastico maschile di stampo cattolico, dove le famiglie della migliore borghesia iscrivono i propri figli per tutelarli dai drammi della politica italiana di quel periodo nella speranza che una rigida istruzione possa prepararli ad affrontare il mondo. Qui, Edoardo (voce narrante e autore del romanzo) li osserva attentamente mantenendo un atteggiamento quasi sempre super partes, e si rende conto che la rigida morale impartita a scuola fa emergere le molte contraddizioni della loro piccola comunità, entro la quale il più debole viene sempre sottomesso dal più forte e qualsiasi ambizione, fantasia o impulso di ribellione viene prontamente represso in ambito scolastico e familiare.

Fra i consueti problemi di quell’età, il confronto con le ragazze e la scoperta della sessualità, le famiglie alle spalle piene di moralità e incomprensioni, l’intera scuola viene sconvolta dal massacro del Circeo. Il culmine di un clima di violenze, una tragedia che era nell’aria da tempo, attuata da tre studenti dell’istituto. Angelo Izzo e Gianni Guido adescano le ventenni Donatella e Rosaria e le portano in una villa al Circeo; qui le violentano e massacrano fra il 29 e il 30 settembre in compagnia del loro amico Andrea Ghira. Rosaria sarà uccisa nel bel mezzo delle violenze. Donatella, dopo molte altre sevizie, si finge morta e viene caricata nel portabagagli della Fiat 127 di Gianni insieme al coro esanime dell’amica. Qui, pur stordita e malridotta, riesce ad attirare l’attenzione di un metronotte, che la libera.

In primis, un problema interpretativo. Nonostante gli appelli del regista Stefano Mordini, del produttore Roberto Sessa, delle interpreti Valentina Cervi e Valeria Golino e dello stesso autore Edoardo Albinati, il divieto è arrivato lo stesso. Ed essendo una manovra usata in rarissimi casi, per molti ha il volto della censura, soprattutto dopo le dichiarazioni del Ministro della Cultura Dario Franceschini che, lo scorso aprile, avrebbe affermato che ogni tipo di censura sarà abolito con la nuova legge sulla revisione cinematografica

In ogni caso, il Ministero si libera dall’accusa di aver censurato i film: “Lo stesso Ministero della Cultura, paradossalmente pure finanziatore del film, sottolinea come La scuola cattolica esca in sala, quindi senza censura e senza tagli, ma con uno dei divieti previsti anche dalla nuova normativa a tutela dei minori”, riporta la ricostruzione del Giornale. Dunque, non esattamente una “censura” nel suo significato vero e proprio, ma un tentativo di protezione nei confronti di un pubblico generalmente più fragile e, per certi versi, più facilmente condizionabile.

Questo perché? Perché qui non si parla solo di scene di nudo o di scene di violenza, qui la verità è un’altra. Perché questo è un film tratto da una storia vera, che parla della violenza alle donne, è interpretato da ragazzi che hanno aderito a un progetto difficile e vogliono farlo vedere ai giovani. È cattiveria nuda e cruda, raccolta e documentata e registrata e sputata sul grande schermo. “Non pensavo che questo Paese fosse ancora al Medioevo”, dice Roberto Sessa, mentre Albinati è convinto “che una ragazza e un ragazzo di oggi siano perfettamente capaci di distinguere il bene dal male senza qualcuno che gli nasconda la verità, con la scusa di proteggerli”. Il problema, però, non è certo la trama.

Ciò che fa più paura è quello che non appare sullo schermo, le attrici dai volti impestati di sangue che vengono colpite con colpi di karate, rassicurate e poi nuovamente chiuse in una stanza e seviziate per quelle che, nella vita vera, sono state 36 ore. È Donatella Colasanti che viene drogata con una sostanza in una siringa e si risveglia con una cintura stratta intorno al collo. È Rosaria Lopez seduta su una poltrona, nuda e piena di graffi, e qualche scena dopo stesa nel rigor mortis del bagagliaio di una 127 bianca con gli occhi chiusi per sempre. Balzi temporali, corpi nudi che si susseguono davanti allo schermo senza nulla di malizioso, solo uno sguardo crudele che si spegne nel passaggio da una scena a quella dopo senza dire niente, ma lasciando intendere tutto.

Questo non significa voler chiudere gli occhi davanti alle violenze che, ora come allora, sono all’ordine del giorno, né tantomeno voler fomentare una rape culture che nel bel paese dove il sì risuona non è ancora vista come un problema. Questo significa rispettare la delicatezza di chi, per questioni anagrafiche, potrebbe uscirne emotivamente segnato. Parlate ai vostri figli di Donatella e di Rosaria, parlate loro di Angelo Izzo, di Gianni Guido e di Andrea Ghira e di tutte le vittime e di tutti i carnefici. Non nascondeteli alla violenza che prima o poi li spiazzerà come ha spiazzato chiunque altro prima di loro. Ma usate le parole giuste, i ritmi giusti e i tempi giusti. Perché per conoscere la cattiveria, quella vera, questi ragazzi hanno ancora tempo.

di Gaia Rossetti

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.

Il più divino e umano degli alimenti: il pane di Dante

Il più divino e umano degli alimenti: il pane di Dante

Il più divino e umano degli alimenti: il pane di Dante

Cosa manca nella Divina Commedia di Dante? La gastronomia. Ma non del tutto, poiché nel Paradiso si parla dell’alimento per eccellenza: il pane

Passioni, sentimenti, paure e contraddizioni umane. Ulisse, il pazzo spavaldo che voleva superare i limiti della ragione umana, e Francesca, la donna che vuole essere libera di amare. La filosofia di Platone e Aristotele e la teologia di Tommaso, la storia, la politica, la cultura classica, le cronache dell’epoca. Che lo si ritenga l’ultimo dei medievali o il primo degli umanisti, Dante nella Divina Commedia ha messo tutto: la bellezza, la luca divina, il riscatto. Una guida verso l’alto anche per chi non crede. La Divina Commedia è una palestra di umanità, ma fra tutte le cose umane Dante ha trascurato il simbolo dell’umanità per eccellenza: la gastronomia. O meglio, così sembra.

La cultura medioevale considera la gola come un vero e grave peccato: nell’Inferno i golosi stanno nel terzo cerchio, nel sesto canto Dante li racconta immersi in un fango gelido di pioggia battente e nevischio, azzannati dal cane a tre teste, Cerbero. In fondo, in questo canto, del peccato di gola non si parla affatto.

Nel Purgatorio, nella sesta cornice, i peccatori di gola patiscono gravemente la fame e la sete. All’ingresso della montagna che si eleva verso il cielo ci sono due alberi di frutta e un ruscello di acqua sorgiva e in questa cornice Dante racconta con un tono quasi comico il vizio di Papa Martino IV, originario di Tours, in Francia. Il Pontefice amava passare molte giornate a Bolsena, in riva al lago, a fare scorpacciate di anguille, innaffiate di Vernaccia: “e quella faccia dilà da lui che l’altre trapunta, ebbe la Santa Chiesa in su le braccia, dal Torso fu, e purga per digiuno, l’anguille di Bolsena e la Vernaccia”.

In Paradiso il banchetto è apprezzato, ma il cibo è sostanzialmente una metafora. È citato un pane degli angeli e il valore simbolico del pane, nella cultura cristiana, è potente. Il poeta intende il nutrimento dell’anima. E quale pane, se non quello che Dante conosceva così bene, il pane sciapo della sua terra?

Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale
– Paradiso XVIII, vv. 58-60

L’autore, legato alla sua patria, con questi versi del Paradiso vuole simboleggiare la durezza e difficoltà della vita in esilio, dove conoscerà un pane che sa di sale, così diverso dal pane sciapo toscano a cui da sempre è abituato.

Il pane senza sale (o pane sciocco, o pane sciapo) è molto significativo per la Toscana, al punto che anche Dante si identifica in esso. Sebbene non si conosca la vera origine di questo pane, si sa per certo che la tradizione di non mettere il sale nell’impasto nasce da motivi storici e l’ipotesi prevalente risale al XII secolo. Firenze e Pisa erano città in eterna lotta e, durante quel periodo, Pisa controllava i porti, facendo pagare care ai fiorentini le quantità di sale che sbarcavano. Firenze decise così di non utilizzare più il sale, iniziando un’importante produzione di pane sciapo. Un conflitto, quello tra Firenze e Pisa, che Dante non manca di raccontare nel suo Inferno:

Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ‘l sì suona
– Inferno XIII, vv. 79-80

 

Diversa è la storia del pane senza sale nella vicina Umbria: siamo nel 1540, ben più tardi, quando il papa impose una tassa molto salata (e sembra una barzelletta) sul sale. Nacque così a Perugia la “guerra del sale” contro il papato, ma la città perse e da allora in tutta l’Umbria si mangia pane senza sale. Una teoria che però venne messa in dubbio da molti storici, poiché il pane senza sale è diffuso in tutta l’Umbria così come nelle Marche e a Viterbo.

Alcuni sostengono che sia per il costo elevato del sale a Firenze, altri ancora invece rimandano agli Etruschi perché il pane senza sale viene prodotto e utilizzato nel Lazio settentrionale, la vecchia Etruria. Un prodotto molto diverso dagli altri tipi di pane, unico nella sua semplicità. E – soprattutto – simbolo del nutrimento dell’anima che per Dante era alla base dell’essere umani.

di Gaia Rossetti

Monica Geller, il personaggio meno apprezzato (ingiustamente) di sempre

Monica Geller, il personaggio meno apprezzato (ingiustamente) di sempre

Monica Geller, il personaggio meno apprezzato (ingiustamente) di sempre

Sono passati poco più di quindici anni dalla messa in onda dell’ultimo episodio della sitcom Friends e, fra le molteplici cose che durante questo lasso di tempo siamo riusciti a elaborare, oggi ci ritroviamo a dimostrare perché Monica Geller sia il personaggio meno apprezzato, ma meglio costruito di sempre.

Certo, Phoebe era quella stramba, Ross quello intelligente, Chandler quello sgamato, Rachel quella egoriferita e Joey era lo scemotto e tutti questi personaggi subiscono un’evoluzione notevole ed evidente fin dalla prima stagione. Eppure, il personaggio di Monica è quello che all’inizio risulta già ben delineato, ma con il susseguirsi degli episodi attraversa una fase di crescita esponenziale sia caratterialmente che emotivamente – ed è quello che suscita in noi le più grasse risate. Non è necessario allora ricordare che Courteney Cox, l’attrice che interpreta Monica Geller, abbia ricevuto una nomination agli Emmy Awards mentre lo show era ancora in onda.

Sono tante le ragioni per cui Monica, sebbene sia il personaggio più sottovalutato, è senza dubbio quello migliore della serie, prima fra tutti la sua ossessione per la pulizia e l’ordine. Un amore per la casa e per il calore familiare che l’ha portata a sfamare tutti i suoi amici quasi ogni giorno senza lamentarsi, è una cuoca ed è brava nel suo mestiere tanto da portarsi questo onore (e onere) all’interno delle mura domestiche. Cucina al lavoro e cucina anche a casa, e non lo fa solo per desiderio di gloria: le piace che le sue doti siano apprezzate, ma ama soprattutto vedere le facce felici dei suoi amici quando finalmente riempiono i loro stomaci brontolanti.

Questa sua caratteristica la porta a eccellere in un lavoro tradizionalmente maschile (sì, la cucina è una professione generalmente dominata dagli uomini) e in hobby tradizionalmente maschili (il calcio), senza però compromettere la sua femminilità. Allo stesso tempo, infatti, fra i suoi interessi rientrano anche elementi prettamente femminili – lo so, non è una definizione pienamente politically correct, ma guardiamo in faccia la realtà – come i bambini, il matrimonio e le faccende di casa senza doversi scusare per questo o lasciar intendere che l’avrebbero resa inferiore o debole.

È una bella donna e cura il suo aspetto fisico, tanto da aver superato l’obesità dell’adolescenza. Se è vero che tutti in quella fase della vita tendiamo a “incicciottirci un po’” beh, non tutti siamo ugualmente capaci di mettere fine a questo processo. Una cura per la sua immagine ostacolata in realtà da una caratteristica terribile: i capelli che si gonfiano con l’umidità. Un problema molto diffuso fra tutti gli esseri umani, purtroppo, ma nel caso di Monica la rendono così… inguardabile. Ce la ricordiamo tutti quella puntata, vero?

La forza di Monica non è solo votata alla cura di sé, ma la sua è anche una notevole forza d’animo. È cresciuta in una casa emotivamente abusiva, con una madre che la sottometteva a critiche e violenza verbale… eppure è comunque cresciuta con un’importante consapevolezza del proprio valore, determinazione nell’inseguire i suoi sogni e un’enorme capacità di prendersi cura degli altri.

Grazie a questa abilità è riuscita a mantenere ottimi rapporti di amicizia con suo fratello Ross, che la bullizzava da bambina e ha contribuito a rendere la casa ancora più emotivamente abusiva, senza mai incolparlo per i suoi maltrattamenti e senza mostrare risentimento nei suoi confronti.

Ha accolto in casa sua la sua migliore amica del liceo, che l’ha abbandonata e rifiutata per una vita di “alta società”, senza fare domande, e prima ancora ha accettato come coinquilina una donna che aveva prima vissuto per strada, dandole il benvenuto nel suo gruppo di amici.

Non solo importanti riconciliazioni, ma anche terribili addii. Monica ha infatti lasciato l’uomo che pensava fosse l’amore della sua vita perché lei voleva dei figli che invece lui avrebbe deciso di avere solo per renderla felice. Anche se quell’opzione sarebbe stata cento volte meno dolorosa per Monica, lei sapeva che non sarebbe stato corretto nei confronti di lui e ha rifiutato.

Ha resistito alla sua mania del controllo per dare a Chandler il potere di prendere le grandi decisioni riguardo il loro futuro (dire “ti amo”, andare a vivere insieme, il matrimonio), così che lui potesse lavorare sulla sua paura di impegnarsi. E ne è valsa la pena al 100%.

Ha incoraggiato suo marito a lasciare il lavoro che odiava, poi l’ha supportato – finanziariamente ed emotivamente – nella conseguente disoccupazione e lo ha aiutato a trovare il suo lavoro dei sogni.

PRO:

  • Sfama tutti i suoi amici senza lamentarsi mai
  • Si fa strada in campi prettamente maschili (cucina, calcio), ma le piacciono comunque alcune “cose da donna”
  • Ha superato l’obesità adolescenziale
  • Accoglie in casa sua la ex migliore amica che l’aveva rifiutata
  • Resta amica di Ross nonostante la bullizzasse
  • Lascia l’uomo che pensava di amare perché ha desideri diversi dai suoi
  • Aiuta Chandler a superare i suoi evidenti problemi con se stesso e lo incoraggia a inseguire i suoi sogni.

CONTRO:

  • Maniaca del controllo
  • Maniaca del pulito
  • Evidente disturbo ossessivo-compulsivo
  • Brutti capelli quando il clima si fa umido

VOTO: 9/10 (purtroppo la sua situazione-capelli non può non essere considerata)

Quando non si godevano intere tazze di caffè al Central Perk nel bel mezzo della giornata lavorativa, i sei friends si ritrovavano a casa di Monica e il perché è evidente: Monica è il cuore e l’anima del gruppo e, di conseguenza, lo stesso vale per il suo appartamento. Il fatto che tutti si lamentino quando Monica si trasferisce a Westchester è la prova di come, senza di lei, la compagnia abbia perso la sua forza centripeta. L’appartamento vuoto nell’episodio finale della serie è un simbolo di quanto le nostre vite sarebbero state vuote senza Monica.

di Gaia Rossetti

Quando non si godevano intere tazze di caffè al Central Perk nel bel mezzo della giornata lavorativa, i sei friends si ritrovavano a casa di Monica e il perché è evidente: Monica è il cuore e l’anima del gruppo e, di conseguenza, lo stesso vale per il suo appartamento. Il fatto che tutti si lamentino quando Monica si trasferisce a Westchester è la prova di come, senza di lei, la compagnia abbia perso la sua forza centripeta.

La barbajada: storia della bevanda milanese dimenticata

La barbajada: storia della bevanda milanese dimenticata

La barbajada: storia della bevanda milanese dimenticata

Milano non è solo la patria della cotolètta e dello sbagliato, Milano è anche una misteriosa bevanda dimenticata: la barbajada. Cos’è? Da dove arriva? Ma soprattutto… che fine ha fatto?

La barbajada è una bevanda che nasce a Milano, molto in voga nella prima metà dell’Ottocento, che accompagnava la degustazione di diversi dolci. Si beveva sia calda, in inverno, che fredda, nella stagione più calda, e le grandi dame e i signori di un tempo di incontravano nelle caffetterie proprio per sorseggiare questa bevanda lanciata da un impresario teatro locale, Domenico Barbaja.

Domenico Barbaja fu un giovane cameriere in una caffetteria meneghina, ma in età più matura divenne uno degli uomini più potenti dell’Europa ottocentesca grazie a un eccezionale talento musicale e un’ineguagliata capacità imprenditoriale. Non a caso, Barbaja diresse diversi grandi teatri milanesi come il Teatro alla Scala, il San Carlo e il Teatro di Cannobiana (oggi teatro Lirico). Fu lui a fondare il Caffè dei Virtuosi, un bar che si ubicava proprio accanto alla Scala per intrattenere i frequentatori del teatro, e proprio in memoria delle sue umili origini di cameriere creò una bevanda golosa e irresistibile: la barbajada, preparata con un mix di cioccolata, latte e caffè in parti uguali a cui si aggiungeva dello zucchero e che veniva mescolata fino a schiumare.

Un vero e proprio “rito delle cinque”, al Caffè dei virtuosi ci si incontrava per discutere di affari generali, società, cultura e politica degustando una bibita nuovissima, accompagnata da biscotti e dolci di ogni tipo. Un peccato di gola dal sapore borghese, ma non solo: negli anni in cui i Savoia, a causa delle invasioni napoleoniche, dovettero rifugiarsi a Cagliari tra il 1807 e il 1814, Francesco d’Austria-Este futuro Duca di Modena annota nella sua Descrizione della Sardegna che il Re di Sardegna Vittorio Emanuele I si alzava ogni giorno alle sette e faceva una colazione “che consiste sempre in barbaja, ossia caffè e cioccolata insieme”.

Per il milanese, la barbajada era comune fino agli anni Trenta del secolo scorso, poi è andata pian piano a scomparire perché il procedimento con il quale si realizza è impegnativo e lungo. Negli anni Cinquanta si poteva trovare solo in pochi bar amanti della tradizione, ma piano piano anche questi locali hanno smesso di produrla fino a causare la sparizione della bevanda negli anni Settanta. L’avvento delle macchinette del caffè e della cioccolata ha reso sempre più obsoleto dover preparare una bevanda mescolando ingredienti a mano, le troppe preparazioni necessarie per la preparazione di una singola tazza hanno fatto sì che questa tradizione si perdesse nel corso della storia.

Sebbene sia difficile degustarla nei locali meneghini, la barbajada rappresenta un simbolo non troppo conosciuto della storia della città di Milano e per questo è stata insignita del titolo De.Co., un riconoscimento dato dal Comune di Milano ai prodotti gastronomici legati alla tradizione della città, alla sua identità e al potere di comunicarla in tutto il mondo (esatto, lo hanno ricevuto anche il panettone e il risotto). Un titolo che la barbajada ha ricevuto soltanto nell’aprile 2008 per sottolineare la sua territorialità.

Oggi è piuttosto difficile trovare un luogo dove poter bere la barbajada seduti davanti a una bella fetta di torta, quei pochi locali che la servivano nei primi anni Duemila hanno recentemente cessato l’attività e questo ha messo in seria difficoltà i cittadini desiderosi di ripercorrere questa tappa della storia milanese. Eppure, cercando con attenzione, abbiamo trovato un paio di esercizi commerciali che propongono la barbajada: prima fra tutti la pasticceria Vergani (Corso di Porta Romana), che la propone per la colazione con una fetta di panettone, ma anche la Torrefazione Hodeidah (via Piero della Francesca), una bottega storica milanese fondata nel 1946. Da non dimenticare nemmeno Pavè (quattro diversi locali, quattro diverse declinazioni di Pavè a Milano), un posto felice che, oltre alle delizie di caffetteria, propone moltissime goloserie provenienti dal loro laboratorio, dalle deliziose brioche per la colazione alle birrette per l’aperitivo. È, al momento, uno degli unici posti a Milano dove poter gustare la barbajada come si faceva una volta. Provare per credere.

di Gaia Rossetti