Il dito di Dio: il viaggio di Pablo Trincia nel naufragio della Costa Concordia

Il dito di Dio: il viaggio di Pablo Trincia nel naufragio della Costa Concordia

Il dito di Dio: il viaggio di Pablo Trincia nel naufragio della Costa Concordia

Il dito di Dio – Voci dalla Concordia è il nuovo podcast di Paolo Trincia sul naufragio della Costa Concordia del 13 gennaio 2012, un viaggio empatico fra le macerie e le narrazioni di chi è rimasto.

Dieci anni dal naufragio della Costa Concordia. Tutti ricordiamo esattamente dove eravamo e cosa stavamo facendo nel momento in cui abbiamo saputo quello che stava succedendo nel mare nostrum, al largo della costa dell’Isola del Giglio. Tutti lo ricordiamo perché è stato un evento inaspettato, incredibile.

Chi avrebbe mai detto che nel 2012 le navi potessero ancora scontrarsi con gli scogli e, di conseguenza, naufragare? Chi avrebbe mai detto che nel ventunesimo secolo la gente sarebbe ancora morta in mare? Nessuno. Per questo il naufragio della Costa Concordia è considerato uno spartiacque nella storia della navigazione in Italia e occorre mantenerne ancora vivo il ricordo.

Per ricordare ciò che accadde la notte del 13 gennaio 2012, Pablo Trincia ripercorre al millesimo di secondo gli eventi, i momenti, gli errori che hanno portato alla tragedia ascoltando le voci di chi, quella notte, l’ha vissuta. Di chi ha avuto paura davvero e di chi quella notte ha perso qualcosa. Trincia, ospite di Daria Bignardi all’Ora Daria, parla di “un incidente evitabilissimo. Ma il vero dramma comincia dopo per la gestione dell’emergenza e dell’abbandono nave. I passeggeri si ritrovano senza nessun tipo di informazione mentre questa nave si inclina sempre di più e tutte le norme di sicurezza vengono ignorate. In molti non riescono ad abbandonare la nave perché, per via dell’inclinazione raggiunta, le scialuppe ad un certo punto non riescono più a scendere. Ci sono state delle coincidenze assurde, le storie delle persone sono legate fra di loro, in molti ancora si sentono dopo tutto questo tempo. Abbiamo visto viltà, menzogne e cialtroneria ma tanta umanità, non deve restare solo la storia di Schettino ma anche il ricordo di cosa siamo capaci di fare in senso positivo. La cosa più assurda di quest’incidente è la stupidità”.

Pablo Trincia, dal suo profilo Instagram

Pablo Trincia non opera però una condanna. Le storie di quattromila ospiti, quattromila persone, quattromila naufraghi diventano nove episodi di un podcast originale Spotify prodotto da Chora Media. Un podcast profondo e spiazzante fatto di interviste, racconti, domande e dubbi che piano piano vengono dissipati come nodi che si allentano. Storie di terrore e di rabbia che nel corso della notte diventano legami a cui aggrapparsi, che da quel giorno non si sono mai più sciolti.

Se dovessimo descrivere con una sola parola il lavoro di Pablo Trincia non ci sarebbero dubbi, sarebbe “empatia”. Trincia ha un modo di indagare la vita delle persone e i momenti salienti in un modo così delicato, senza pretese, senza forzature, con leggerezza. Quella leggerezza che, diceva il saggio, “non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto”.

Pablo Trincia è un uomo buono, un cantastorie, un amante della cronaca e un estimatore della verità. Lo avevamo capito con Veleno – podcast, poi libro e poi docu-serie Amazon Prime Video che ricostruisce la storia dei Diavoli della Bassa Modenese – ne abbiamo avuto la conferma con Il dito di DioVoci dalla Concordia. Si tratta di un podcast imperdibile, nel quale Pablo Trincia ha dimostrato ancora una volta di essere un vero maestro nell’utilizzo di questo “nuovo” mezzo di comunicazione.

 

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Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.

Avevamo davvero bisogno del pollo fritto vegan?

Avevamo davvero bisogno del pollo fritto vegan?

Avevamo davvero bisogno del pollo fritto vegan?

Nei ristoranti americani di KFC arriva il nuovo Beyond Fried Chicken, l’alternativa vegan al famosissimo pollo fritto. Ma era davvero ciò di cui avevamo bisogno?

Da questa settimana tutti i ristoranti americani KFC grazie alla collaborazione con Beyond Meat, il brand famoso per aver creato in laboratorio un alimento vegetale che per gusto e consistenza si avvicina spaventosamente alla carne, proporranno in menù il nuovo Beyond Fried Chicken, una versione plant baseddel pollo fritto del celeberrimo fast food.

KFC aveva già testato il gradimento del pollo vegan nel 2019 ad Atlanta e i risultati annunciarono un incredibile successo, tanto che le scorte esaurirono in meno di cinque ore. I clienti statunitensi sembrano dunque apprezzare prodotti alternativi. Un grande passo, ma con delle complicazioni: KFC precisa in una nota ufficiale che la preparazione non sarà né vegana né vegetariana. Con molta probabilità, le pepite di pollo vegan verranno fritte nello stesso olio di quelle classiche o comunque entreranno in contatto con ingredienti di origine animale. Nel fast food, dunque, non sarà da escludere la possibilità di contaminazione incrociata.

Nonostante questo, Beyond Meat è più che orgogliosa di questa collaborazione che aprirà al grande pubblico la possibilità di consumare alimenti plant based anche al fast food. “Non potremmo essere più orgogliosi di collaborare con KFC per offrire un prodotto che non solo offre la deliziosa esperienza che i consumatori si aspettano da questa catena iconica, ma offre anche i vantaggi aggiuntivi della carne a base vegetale”, ha affermato Ethan Brown, Fondatore e CEO di Beyond Meat. “Siamo davvero entusiasti di renderlo disponibile ai consumatori a livello nazionale”.

Un successo di cui essere orgogliosi, ma che non arriva certo inaspettato. Nel mondo, la percentuale di persone che decide di avvicinarsi a un’alimentazione vegana o vegetariana è continuamente in ascesa. Si pensi solamente al caso italiano: secondo il Rapporto Italia 2021 di Eurispes, quasi una persona su dieci sulla penisola è vegana o vegetariana. Secondo i risultati dell’indagine annuale vegetariani e vegani sono l’8.2% della popolazione, sopra la media del periodo che va dal 2014 a oggi (7.5%). C’è anche chi afferma di non seguire attualmente una dieta priva di prodotti animali, ma di averlo fatto in passato: il 6% degli uomini e il 7.3% delle donne.

Cosa spinge gli italiani ad abbracciare questi regimi alimentari? Per il 23,1% degli intervistati, la scelta vegetariana/vegana si inserisce in uno stile di vita improntato al rispetto degli animali e del pianeta, mentre il 21,3% delle persone è spinto da motivazioni salutistiche. Altri ancora riferiscono di aver scelto una dieta vegetariana o vegana per ragioni esclusivamente animaliste (20,7%). C’è poi chi cita il rispetto dell’ambiente (11,2%), chi ammette di essere guidato dalla curiosità verso nuovi regimi alimentari (9,5%) e chi dice di farloper mangiare “meno e meglio” (5,9%).

Aldilà delle scelte etiche e sostenibili, sulle quali siamo liberi di discutere, ma non pretendere di avere ragione, quello che dobbiamo veramente chiederci è: avevamo davvero bisogno del pollo fritto vegan? Di un alimento fritto, unto e bisunto, commerciale che non ha nulla di ciò che esprime il suo nome, del “pollo”? Non bastano più le mille preparazioni possibili a base di legumi, verdure e cereali di cui è così ghiotta la dieta mediterranea? Perché chi decide di optare per un’alimentazione vegetariana o vegana dovrebbe sentire il bisogno di reintrodurre un alimento che al gusto e al tatto ricordi il pollo?

Il pollo fritto vegan non è altro che un alimento studiato in laboratorio, risultato di calcoli chimici e sviluppi fisici per garantire alla crocchetta una somiglianza quanto più possibile vicina alla carne vera. Il problema non è decidere di mangiare plant based, ma che bisogno c’era di mangiare piante che sanno di pollo? Dobbiamo domandarci questo, allora. Se siamo pronti per rimpiazzare un’alimentazione tradizionale, mediterranea, fatta di prodotti della terra, con pietanze chimiche, studiate, che non sono fatte di carne, ma ce ne ricordano il sapore. Un controsenso, no?

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.

Innovazione e tradizione: i dolci di Natale dei World Chocolate Masters

Innovazione e tradizione: i dolci di Natale dei World Chocolate Masters

Innovazione e tradizione: i dolci di Natale dei World Chocolate Masters

In vista della sfida finale del World Chocolate Masters il 2 febbraio 2022, i giovani pasticceri italiani in gara presentano i loro dolci di Natale

Ogni anno le maggiori testate della Penisola si interrogano su quali siano i migliori panettoni dell’anno e stilano una classifica per guidare i consumatori nell’acquisto del dolce più congeniale ai loro gusti. Perché, a prescindere dalle varie forme sotto cui si può manifestare lo spirito natalizio –regali, amici, famiglia, tradizione –, c’è un solo modo che mette d’accordo tutti: i dolci.

La preparazione dei grandi lievitati durante il periodo natalizio ha una fortissima valenza simbolica e culturale, un momento di condivisione e appartenenza a una determinata tradizione. Panettone, pandoro, ma soprattutto torrone e cioccolato, una delle massime espressioni di amore (e di golosità): è sul cioccolato infatti che vertono i dolci natalizi presentati dai finalisti italiani del World Chocolate Masters, con i quali hanno deciso di raccontare il loro Natale.

Si parte dalla tradizione: il sorrentino Antonino Maresca ha scelto di reinterpretare il panettone, un classico simbolo natalizio ma nella sua versione “Azteca”, che prevede l’unione di tre cioccolati che hanno come comune denominatore la pianta del cacao, le cui origini si rifanno ad alcune leggende delle popolazioni precolombiane da cui prende il nome.

Il Panettone “Azteca” di Antonino Maresca

Similmente, il pasticcere lombardo Stefano Bernardi ha presentato il suo Panettone al Cioccolato Fondente. Una ricetta classica sì, ma sempre golosa e mai banale.

Il Panettone al Cioccolato Fondente di Stefano Bernardi

Non solo panettone però, perché il veneto Attilio Rebeccani dipinge il suo Natale attraverso il Tronchetto Santa Claus, realizzato con una mousse al cioccolato al latte. Il tronchetto, come si evince dal nome, ha la forma di un Babbo Natale e viene sistemato sopra alcune decorazioni natalizie per completare il quadro.

Il tronchetto Santa Claus di Attilio Rebeccani

L’amore che il Natale porta con sé è rappresentato dal campione italiano di pasticceria e gelateria Diego Mascia, di origini piemontesi, attraverso la sua “Torta Amore” a base di cioccolato fondente e lime arricchita con una gelatina ai frutti di bosco assemblata su vari livelli.

La Torta Amore di Diego Mascia

Filippo Valsecchi, il lombardo vincitore di numerose competizioni a livello globale, sceglie un dolce più piccolo, ma indimenticabile per la riuscita di u buon pranzo di Natale: la sua Pralina XMas. Si tratta di un bon bon che sintetizza tutti i profumi e i sapori associati al Natale, carica di vaniglia e zenzero per scaldare gli animi – e i cuori.

La Pralina XMas di Filippo Valsecchi

Lo chef argentino naturalizzato italiano Matiaz Ortiz realizza con la sua La Foyer Christmas Cake una perfetta ricostruzione di un albero di Natale addobbato e composto interamente da un mix di cioccolato fondente e cioccolato al latte.

Ultima, ma non per importanza, la pasticcera bresciana Anna Gerasi ha deciso di rappresentare lo spirito delle feste con una Torta al Cioccolato innovativa, che unisce una mousse equatoriale alla crema inglese e un fondo croccante di nocciola.

 

La tradizione, dunque, ancora una volta si scontra con l’innovazione, con una ricerca creativa precisa al grammo. E ancora l’innovazione sarà al centro della sfida che il 2 febbraio 2022 vedrà questi giovani pasticceri concorrere a Pollenzo per la finale italiana del World Chocolate Masters. Il tema della competizione sarà il “Domani” e tutti i cambiamenti che comporta.

La missione alla base di questo progetto è stimolare gli chef ad avvicinarsi alla scienza, alla tecnologia e al design, raccontando la pasticceria in una chiave nuova, sulla base di una costante innovazione e ricerca.

Il pandoro: storia di un brevetto, di fallimento e di rinascita

Il pandoro: storia di un brevetto, di fallimento e di rinascita

Il pandoro: storia di un brevetto, di fallimento e di rinascita

La certezza è una sola: il pandoro è nato a Verona. Eppure ci sono moltissime leggende riguardo la preparazione dolciaria che avrebbe ispirato Domenico Melegatti, colui che nel 1894 depositò il brevetto.

Alcuni sostengono che il dolce derivi dall’antico Pan di Vienna, una ricetta austriaca dei tempi dell’Impero Asburgico a sua volta ispirata alle brioche francesi. Ma le caratteristiche che accomunano il pandoro alla brioche francese hanno origini ancora più lontane: nei suoi scritti, Plinio il Vecchio cita un panettiere di nome Vergilius Stefanus Senex e il suo panis con farina, burro e olio.

Un’altra versione della storia sostiene invece che il pandoro sia un lontano parente del Pan de Oro, un dolce veneziano ricoperto da sottili foglie d’oro zecchino servito sulle tavole dell’alta nobiltà. Più probabile è, per somiglianza nell’aspetto e nel sapore, che il pandoro derivi dal Nadalin veronese, un dolce costituito da un tronco a stella con otto punte, non troppo alto e ricoperto da una leggera glassa che le famiglie prepararono per la prima volta nel 1260, per festeggiare il primo Natale sotto la signoria dei Della Scala.

Il pandoro moderno, come racconta la stessa famiglia Melegatti, nasce ufficialmente il 14 ottobre 1894, quando il celebre pasticcere veronese Domenico Melegatti ottiene il brevetto per la sua nuova creazione. Secondo la leggenda che aleggia intorno a questo dato storico, un garzone di bottega, addentando quel dolce morbido e burroso illuminato da un raggio di sole, avrebbe esclamato: “L’è proprio un pan de oro!”. E il nome per il dolce di Natale era stato scelto.

Il brevetto del pandoro Melegatti

Domenico Melegatti era un pasticcere molto noto a Verona, soprattutto per le sue sperimentazioni in cucina. Un’antica tradizione prevedeva che le donne veronesi si riunissero, la notte della Vigilia, per impastare il levà, un dolce fatto con farina, latte e lievito. Proprio dall’idea di trasformare quel dolce casereccio in qualcosa di godurioso, arricchendolo di uova e burro, nasce il pandoro.

All’inizio del Novecento, i medici consigliavano il pandoro ai convalescenti e alle donne in dolce attesa, ma negli anni Cinquanta diventa un dolce di ampio consumo e Melegatti inaugura il primo stabilimento industriale. Negli anni Settanta il dolce entra nei supermercati, e così inizia l’ascesa di un dolce che diventerà un vero e proprio must have sulle tavole natalizie.

Ma il periodo felice del pandoro Melegatti non era destinato a durare in eterno, e nel giro di una trentina d’anni l’azienda entra in crisi. Si fa risalire l’inizio di questo periodo nero al 2005, quando morì Salvatore Ronca, presidente molto amato dalla società. In realtà il business dei dolci natalizi, essendo richiesti solamente per un determinato periodo dell’anno, era in crisi già da tempo, e i vari competitor dell’azienda veronese si erano già attrezzati per restare attivi sul mercato tutto l’anno, grazie alla produzione di prodotti come brioche e biscotti. Melegatti è rimasta indietro, inaugurando il suo nuovo impianto per i croissant solo nel 2017. Proprio nell’agosto dello stesso anno la situazione precipita: la produzione si ferma, gli stipendi restano non pagati e i sindacati dichiarano lo stato di crisi. I dipendenti finiscono in cassa integrazione a zero ore e il debito sfiora i 30 milioni di euro. E si parla di fallimento.

Nel Natale del 2018, Melegatti torna a sorridere. Come una fenice, l’azienda dolciaria rinasce dalle proprie ceneri e torna a sfornare i suoi mitici pandori. I primi dolci di questa “seconda vita” sono stati prodotti da terzisti in altri stabilimenti, ma la nuova proprietà è riuscita a riportare i suoi pandori in alcune catene della grande distribuzione, dove fedeli compratori provenienti da tutto il Veneto si sono lanciati nell’acquisto.

Se Melegatti è sopravvissuta, il merito va a due personaggi conosciuti ora come gli “angeli del lievito”, Matteo Peraro e Davide Stoppazzoni, due dipendenti che anche durante la chiusura dello stabilimento, senza percepire stipendio o rimborsi, hanno continuato a nutrire il lievito madre. E si sa, in questo periodo in cui la panificazione è diventata di casa grazie alla quarantena e alla corsa al lievito, che il lievito madre deve essere coltivato quotidianamente e rinfrescato periodicamente. Neanche fosse un figlio.

Sono passati molti anni ormai da quel lontano 1894, quando Domenico Melegatti ha realizzato il sogno di ogni bambino proponendo un’alternativa delicata ma altrettanto golosa al sapore più impegnativo del panettone, che già da decenni troneggiava sulle tavole natalizie meneghine. E oggi, la domanda rimane una soltanto: panettone o pandoro?

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
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49 falene: il nuovo singolo di Theft è “pieno di ombre e disillusione”

49 falene: il nuovo singolo di Theft è “pieno di ombre e disillusione”

49 falene: il nuovo singolo di Theft è “pieno di ombre e disillusione”

Giacomo Grasso, in arte “Theft”, rilascia su YouTube il nuovo videoclip di 49 falene, in tutti i digital stores

Esce proprio in questi giorni il videoclip dell’ultimo singolo di Giacomo Theft Grasso, 49 falene, pubblicato dall’etichetta Terzo Millennio Records. “Un affascinante e irrequieto mantra elettronico a bassa fedeltà. Un brano pieno di ombre e di disillusione, accompagnato da una base elettronica tanto minimale quanto distorta con un retrogusto anni ’80 e un approccio fra il post-punk e l’alt-rock molto anni ’90, che scorre su una melodia cadenzata capace di diventare ipnotica” dice lo scrittore e musicista Roberto Bonfanti.

Giacomo Grasso, in arte “Theft”, nasce a Genova il 1972 e, dopo essersi diplomato alla Scuola d’Arte Paul Klee ed essersi specializzato in nuove tecnologie e video arte, ha lavorato come grafico, designer, musicista e videomaker. Ha lavorato per aziende quali Sony, Apple, Elea, Midiware, Steinberg e Roland e ha affinato le sue capacità tecniche fino a diventare un formatore Steinberg e Presonus qualificato per applicazioni multimediali audio e video, tenendo anche lezioni sulle nuove tecnologie in studi di registrazione e al Conservatorio di Genova, ma la musica è sempre stata una delle sue più grandi passioni. Non solo un amore, ma anche una fedele compagna di vita e crescita personale: sa suonare il basso, il contrabbasso, la chitarra acustica ed elettrica, il mandolino, il bouzuki greco e l’ukulele. Le sinfonie di tutti questi strumenti si uniscono alla sua passione per l’elettronica, attraverso l’uso di sintetizzatori e del theremin (manipolatorie di suoni che utilizza un hardware). Oltre che di musica, Theft si occupa anche di produzione, registrazione e mixaggio delle canzoni presso il suo studio a Genova, dove si occupa anche di riprese e montaggio video.

Si è esibito in Italia, Francia, Germania e Svizzera. A Genova è stato chiamato a suonare nei locali più importanti della città e in prestigiose location come la sala mercato Teatro Modena, il Museo d’arte moderna Villa Croce, le Cisterne del Palazzo Ducale, il Palazzo della Commenda di Prè e il teatro Gustavo Modena prima insieme a gruppi locali, poi come solita. O, come direbbe lui, “one man band”.

Nel 2012 Theft torna a scrivere musica e testi in forma di canzone, mettendo in pausa la sperimentazione sonora e visiva, facendo uscire il singolo Cometa.

49 falene, il nuovo singolo e il relativo videoclip, è una riflessione affranta sul susseguirsi degli anni che passano, che si bruciano come falene e sul senso della libertà. Nessuno è libero, e la ricerca spasmodica per esserlo ci porta a essere, irrimediabilmente, soli con noi stessi. Giacomo Theft Grasso lo sa bene e di questo insegnamento fondamentale fa ciò che meglio gli compete: metterlo in musica.

La libertà è solitudine che incatena il coraggio – Theft