I mille nuovi prodotti in esposizione a Cibus nel segno dell’innovazione

I mille nuovi prodotti in esposizione a Cibus nel segno dell’innovazione

I mille nuovi prodotti in esposizione a Cibus nel segno dell’innovazione

Pronti per conquistare il mercato nazionale e quello estero, una selezione di 100 prodotti in fiera nell’area “Cibus Innovation Corner”

La vera innovazione parte sempre dalla tradizione. E i quasi mille nuovi prodotti in esposizione a Cibus – in partenza oggi, 3 maggio, e in programma fino al 6 presso il Salone delle Fiere di Parma –, pronti a essere lanciati sul mercato interno e su quello estero, sono, infatti, elaborazioni creative sulla base dell’antica storia del saper fare dell’alimentare italiano. Sono prodotti che, rispondendo alla domanda dei consumatori, si focalizzano negli ambiti dei prodotti salutistici, della ricerca del gusto anche attraverso nuovi mix di ingredienti, della tradizione dei prodotti tipici locali, dei packaging ecosostenibili, del benessere animale. Negli stand si potranno dunque trovare olii di oliva spremuti a freddo, salumi con meno grassi e sale, pesto realizzato a freddo, formaggi senza lattosio, hamburger vegetali, una vasta offerta di prodotti di nicchia, le offerte “ready to cook”.

Cento di questi prodotti, destinati sia al canale retail sia a quello Horeca, saranno esposti nell’area “Cibus Innovation Corner”, situata nel Padiglione 8, suddivisi per settori: Gusto & ingredienti, Packaging, Sostenibilità, Territorialità.

In generale, rimane forte l’attenzione delle industrie alimentari a salute e benessere, come pure alla domanda di prodotti biologici e vegani, seguendo l’onda lunga dell’emergenza pandemica (ne avevamo già parlato qui).

Qualche esempio: le maltagliatelle di lenticchie rosse e riso integrale; le polpettine di fave e piselli bio, cotte al forno; gli snack di legumi tostati, senza conservanti; la merenda con frullato di frutta fresca e gallette di riso ricoperte di cioccolato; il salame senza conservanti, a lunga stagionatura; le cotolette vegetali di pollo; il prosciutto di Parma da suini nutriti con semi oleosi ricchi di Omega 3; la pasta senza glutine a base di riso integrale e alga Spirulina; i filetti di alici con il 25% di sale in meno, confezionate in olio di semi biologico.

La ricerca del gusto rimane un imperativo assoluto, basti pensare a: guanciale di vitello brasato al barolo, cotto sottovuoto; le praline al cioccolato con anima di formaggio erborinato, cioè con muffe; il prosciutto cotto al tartufo nero; gli scrigni con gorgonzola e cioccolato rosa per i ripieni; la glassa al Marsala per piatti dolci e salati; la tradizionale salsa verde arricchita con prezzemolo, coriandolo, peperoncino e succo di limone; il pesto di agrumi con arance e mandorle, condimento per primi piatti e secondi di pesce; i friarelli saltati in vaschette.

Le confezioni sono sempre più spesso ecostenibili e compostabili: gli incarti del cioccolato bio a base di amido di mais compostabile; il Panbauletto con 58% in meno di plastica, confezionato senza vaschetta, con laccio apri e chiudi; salse per aperitivi con – 40% della plastica e -65% cartone e imballi.

E ancora: gli gnocchi surgelati, integrali grano antico Senatore Cappelli, cottura in 2 minuti; l’Olio Dop Umbria non filtrato; il filetto di salmone da allevamenti con 2,5% di salmoni su 97,5% d’acqua; i succhi di frutta in capsule compatibili.

I Musei del Cibo di Parma: guida all’enogastronomia emiliana

I Musei del Cibo di Parma: guida all’enogastronomia emiliana

I musei del cibo di Parma: guida all’enogastronomia emiliana

La patria della gastronomia italiana celebra la sua cultura con otto musei del cibo. La guida definitiva per scovarli e apprezzarli.

Salumi, formaggi, vino e pasta fresca sono gli alimenti a cui pensiamo immediatamente quando ci viene citata l’Emilia Romagna. Gli emiliani lo sanno bene e per celebrare la propria cultura enogastronomica sono stati progettati nel 2000 dall’Amministrazione Provinciale di Parma ­– città UNESCO della gastronomia ­– non uno, ma ben otto musei del cibo. Non solo cibo e bevande, ma anche spazi mozzafiato fuori dalle principali rotte turistiche: non a caso, infatti, i musei del cibo sono dispersi per la campagna parmense e hanno sede nei sotterranei di castelli (come il Museo del Salame di Felino), antiche corti (come il Museo del Culatello di Zibello) oppure in vecchi caseifici (come il Museo del Parmigiano Reggiano). Insigniti del premio Food Travel Award 2021, i Musei del Cibo sono considerati la migliore destinazione enogastronomica in Italia.

 

Museo del Parmigiano Reggiano

Il Museo del Parmigiano Reggiano ha sede nel complesso Castellazzi, una delle più preziose pertinenze del castello Meli-Lupi di Soragna. Un complesso di origine settecentesca composto dalla casa colonica che mantiene intatta una splendida stalla e a lato il prezioso caseificio di forma circolare, con a margine edifici minori quali rustici e ricoveri per attrezzi. L’antico caseificio è stato prescelto per divenire sede del Museo per la particolare conformazione della struttura a pianta circolare con un locale unico, dotato di tutti gli strumenti e gli attrezzi anticamente impiegati per la lavorazione del formaggio.
Il Parmigiano Reggiano è un inno alla tradizione, a differenza di altri formaggi blasonato non può essere “fabbricato” industrialmente, ma lo si fa solo con le mani esperte del casaro. L’unica differenza fra un Parmigiano Reggiano del XIII secolo e una forma attuale è nel controllo qualità che, grazie al Consorzio di Tutela preposto a questo D.O.P., assicura il rispetto di rigidi capitolati di produzione. Alle mucche da latte della zona tipica del Parmigiano Reggiano – Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna e Mantova ­– è riservata una dieta esclusiva di foraggi selezionati provenienti dai pascoli della zona: ecco l’elemento di spicco che contraddistingue la qualità di questo formaggio. La seconda peculiarità del Parmigiano reggiano è che, a differenza di quasi tutti gli altri formaggi, non contiene assolutamente conservanti. Fantastico, no?

Il Museo del Parmigiano Reggiano a Soragna

Museo della Pasta

Presso la stupenda corte agricola medievale di Giarola, posta sulla sponda destra del fiume Taro, in asse con quella Via Francigena che conduceva i pellegrini verso la Città eterna, a fianco del già esistente Museo del Pomodoro, viene allestito il Museo della Pasta. La pasta secca di semola di grano duro, di origine mediorientale, ha trovato in Italia la patria d’elezione, sviluppandosi nei secoli in diverse aree del Paese: in Sicilia, in Liguria, a Napoli, a Bologna. Nell’Ottocento inizia a Parma l’attività di Barilla, oggi leader mondiale del settore, che ha contribuito in maniera determinante alla nascita del museo dedicato in sei sezioni, alla conoscenza storica, tecnologica e culturale della pasta.

Il Museo della Pasta nella Corta di Giarola

Museo del Pomodoro

Situato accanto al Museo della Pasta, anche il Museo del Pomodoro si trova presso la Corte di Giarola. Giarola sorge sulla riva destra del Taro all’incirca a metà strada tra Fornovo e Pontetaro. Il significato e l’origine del toponimo sono di facile decifrabilità: Glarola, cioè la ghiaietta del Taro, in epoca romana o altomedievale.
Fino a tutto il Rinascimento le salse, a base di pane, aceto, vino e abbondanti spezie, avevano una uniforme colorazione bruna. Ma nel corso del Seicento, nella grande cucina di Versailles, grazie alla béchamel e alle sue applicazioni, i piatti del Re Sole si tingono di bianco, come bianco sarà il condimento degli spaghetti a Napoli, insaporiti con il Parmigiano grattugiato e resi più appetitosi da una spruzzata di pepe nero, quasi ad imitare il cono del Vesuvio. Sarà il pomodoro a cambiare – e per sempre – colori, sapori e profumi della cucina di molti Paesi. Un cambiamento, tuttavia, lento e discreto, che deve il suo esordio all’arrivo della rossa bacca in Europa sulle navi dei conquistatori spagnoli al seguito di Hernán Cortès di ritorno dalle Americhe.
L’incontro fra “Maccheroni e Pommarola” è fortunato ma non decisivo: parallelamente alla pasta, il pomodoro conquista anche la pizza. Nel 1835 Alexandre Dumas (1802-1870) descriveva vari tipi di pizza, quasi tutti ancora “in bianco”: con olio e aglio, con pesciolini e, variante minore, col pomodoro. Una ventina d’anni più tardi il napoletano Emanuele Rocco conferma questa ricetta, aggiungendo la mozzarella, abbinando prosciutto e pomodoro. La conquista si estende ovunque, a segnare di rosso quella che nel 1950 verrà definita “Dieta Mediterranea”: la Spagna propone, con il Gazpacho, una zuppa fredda con pomodoro e la Provenza fa delle Tomates un simbolo gastronomico.

Il Museo del Pomodoro

Museo del Vino

La “Cantina dei Musei del Cibo” è allestita al centro di una zona vocata da secoli alla produzione vitivinicola, nelle suggestive cantine della Rocca di Sala Baganza. Un percorso espositivo e sensoriale, inserito nel più ampio circuito dei Musei del Cibo della provincia di Parma interamente dedicato al vino di Parma, alla sua storia e alla sua cultura.
La prima sala, allestita in collaborazione con il Museo Archeologico Nazionale, è dedicata alla archeologia del vino nel parmense, con oggetti e immagini provenienti dagli scavi del territorio, che testimoniano come sia nato proprio in questa zona, introdotto dalle popolazioni celtiche, il modo “moderno” di bere il vino, abbandonando l’uso greco e latino di vini annacquati e speziati.
La seconda sala approfondisce gli aspetti legati alle caratteristiche della pianta della vite e alla viticultura presentando anche attrezzi e oggetti d’uso del secolo scorso e un filmato sulla tecnica della vite “maritata” agli alberi in filari, tipica della zona. La terza sala racconta, attraverso attrezzi e oggetti antichi, la vendemmia e la preparazione del vino.
Nella ghiacciaia rinascimentale immagini a 360° raccontano il ruolo della vite e del vino nel rito, nella storia e nell’arte, immersi in una cultura millenaria ricca di tradizioni. Nella sala delle botti invece si scopre la storia dei contenitori per il vino e dei mestieri ad essi correlati: il vetraio e il bottaio, ma si approfondisce anche la storia del tappo in sughero e del cavatappi, quella poco nota dell’etichetta e per conoscere le “parole chiave” legate al vino. Infine, la sesta sala presenta i frutti della viticultura parmense: i pionieri del settore, le varietà coltivate, i vini prodotti, perfetti per essere abbinati al formaggio e ai salumi d’eccellenza del territorio, le cantine da visitare nella zona, il ruolo del Consorzio dei Vini dei Colli di Parma a salvaguardia della qualità di un prodotto in continua crescita.

Museo del Salame di Felino

Il Museo del Salame di Felino, ubicato nel meraviglioso Castello di Felino, è testimone del rapporto privilegiato instaurato nel tempo tra il prodotto unico che conosciamo e il suo territorio d’origine. Felino rende così omaggio al suo “figlio” più amato, la cui storia è finalmente a degna dimora nei magnifici locali settecenteschi delle cantine del castello di Felino.
Il Museo rappresenta un’occasione per far conoscere ed apprezzare non semplicemente l’essenza di quello che è stato definito il principe dei salami, ma il territorio e la comunità di cui è espressione, a partire dalla qualità delle materie prime fino alla sapienza delle mani che continuano a lavorarlo.
Per Felino, l’assoluta simbiosi con il maiale e la sua storia risale all’età del bronzo, come documentano i frammenti ossei rinvenuti tra i reperti del villaggio terramaricolo di Monte Leoni, situato sulle colline che sovrastano il paese. In particolare, il primo documento relativo al Salame rintracciato a Parma risale al 1436, quando Niccolò Piccinino, condottiero al soldo del duca di Milano che qui aveva una delle sue basi operative, ordinò che gli si procurassero ‘porchos viginti a carnibus pro sallamine’, ovvero venti maiali per fare salami. Nell’Ottocento l’allevamento suino iniziò a concentrarsi presso i caseifici del territorio: Felino si orientò decisamente verso la trasformazione della carne più che sull’allevamento dei maiali, tanto che all’epoca in paese erano registrati più produttori di salumi che in ogni altro comune del parmense. In questo stesso periodo i salumi parmigiani erano anche inviati in Lombardia: è attorno al 1897 che a Milano il salame genericamente definito di “Parma” verrà dichiarato “di Felino”, a sottolineare la sua qualità di prodotto preparato con maiali di montagna nutriti con ghiande.

L’ultima sala del Museo del Salame di Felino

Museo del Prosciutto di Parma

Il Museo del Prosciutto e dei salumi parmigiani ha la sua sede a Langhirano, patria d’elezione del Prosciutto di Parma, nella vasta struttura dell’ex Foro Boario. L’area oggi occupata dal Foro Boario è il risultato di un intervento urbanistico dei primi decenni del Novecento, finalizzato alla regimentazione dell’alveo del torrente Parma e alla costruzione del muro di difesa dell’abitato.
La fama del Prosciutto di Parma, esclusiva specialità dei Lardaroli Parmensi, affonda le sue radici in tempi ancor più lontani, all’epoca romana. Parma, allora situata nel cuore di quella che era la Gallia Cisalpina, era rinomata, come ricorda Varrone nel De Re Rustica, per l’attività dei suoi abitanti che allevavano grandi mandrie di porci ed erano particolarmente abili nel produrre prosciutti salati. Lo stesso Catone delinea già nel II secolo a. C., nel suo De Agri Coltura la tecnologia di produzione, sostanzialmente identica all’attuale. Riferimenti gastronomici al Prosciutto di Parma si trovano nel Libro de Cocina della seconda metà del Trecento, nel menù delle nozze Colonna del 1589, nel prezioso testo del Nascia, cuoco di Ranuccio Farnese nella seconda metà del XVII secolo. Il Prosciutto fa capolino tra le rime del Tassoni e nei consigli dietetici del medico bolognese Pisanelli.
La denominazione di Prosciutto di Parma è attribuita in relazione alla zona di origine degli animali (Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Toscana, Umbria, Marche, Lazio Abruzzo, Molise) unita alle inimitabili condizioni microclimatiche ed ambientali di una delimitata area collinare della provincia di Parma, dovute all’azione dell’aria che giunge dal mare della Versilia e che, addolcendosi tra gli uliveti e le pinete della Val di Magra, asciugandosi ai passi appenninici ed arricchendosi del profumo dei castagni, arriva a prosciugare i Prosciutti di Parma e a renderne la dolcezza esclusiva.
A salvaguardia della qualità delle materie prime e dell’osservanza delle scrupolose norme di lavorazione, nel 1963 è sorto il Consorzio del Prosciutto di Parma incaricato dallo Stato, con provvedimento del 3 luglio 1978, di esercitare il controllo sul prodotto e di garantirne la corrispondenza con gli standard richiesti dal disciplinare, attraverso l’apposizione del noto marchio con la corona sulla cotenna delle cosce. Il Consorzio, che svolge anche funzione di promozione e valorizzazione del prodotto, è stato riconosciuto in ambito europeo ed è abilitato alle operazioni di controllo anche da Paesi terzi, come gli USA. Il Prosciutto di Parma è stato insignito del marchio di Denominazione di Origine Protetta DOP della Comunità Europea.

Museo del Culatello di Zibello

Alla metà del XIII secolo Uberto Pallavicino detto il Grande, Vicario Imperiale per la Lombardia, dopo aver ricevuto l’investitura del feudo di Polesine, ordina la costruzione di una fortificazione per il controllo militare del porto sul Po, l’esazione dei dazi e la custodia del sale proveniente dalle saline di Salsomaggiore. La fortificazione sorge proprio dove si trova oggi il Palazzo delle due torri. Successivamente Rolando Pallavicino “il Magnifico”, invece di restaurarla, erige una nuova rocca, meglio munita e più vicina al fiume. Negli anni Ottanta del Novecento però, dopo anni di vicissitudini non sempre felici per l’immobile, il degrado è tale che la proprietà decide di venderlo. Viene acquistato nel gennaio 1991 dai fratelli Spigaroli – in omaggio alle tre generazioni della famiglia succedutesi sul podere – che iniziano i lavori di restauro e restituiscono la dignità perduta a questa antica residenza Pallavicina ricca di storia e di fascino.
Si narra che già nel 1332, al banchetto di nozze di Andrea dei Conti Rossi e Giovanna dei Conti Sanvitale, si facessero apprezzare alcuni Culatelli recati in dono agli sposi e che, più avanti, i Pallavicino avessero offerto omaggi di Culatello a Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano. 
È certo che la “nascita” del culatello sia da collegare strettamente alla costituzione del feudo dei Pallavicino, che governarono i territori di Busseto, Zibello e Polesine dal 1249 fino all’epoca napoleonica, per più di mezzo millennio e che favorirono l’agricoltura e l’allevamento dei suini. Non è un caso che i colori argento e rosso del loro blasone siano stati oggi ripresi nel marchio del Consorzio di tutela del Culatello di Zibello.

Il Museo del Culatello di Zibello

Museo del Fungo Porcino di Borgotaro

L’ottavo e ultimo Museo del Cibo è dedicato al Fungo Porcino di Borgotaro. Fin dalla preistoria – come testimoniato dai reperti conservati al Museo Archeologico di Parma – i funghi entrano nell’alimentazione del popolo delle Terramare. I funghi erano conosciuti per le loro caratteristiche organolettiche già nell’antica Roma dove se ne faceva largo consumo, in particolare nei banchetti imperiali dei “Cesari”. Ne è prova il nome di Amanita Caesarea attribuito all’ovulo buono, considerato fin da allora fra i più prelibati.
Anche il Porcino di Borgotaro vanta una fama gloriosa in cucina, apprezzato dai duchi Farnese e impiegato magistralmente dal cuoco Carlo Nascia (XVII-XVIII sec.) nel trattato Li quattro banchetti alla Corte di Parma.
I Boleti sono oggetto di commercio con l’estero, pratica che è ancora ben presente sul finire dell’Ottocento, ad opera dei numerosi montanari costretti ad emigrare verso l’America o l’Inghilterra. I Porcini sono una risorsa per l’economia: le donne li raccolgono e li vendono freschi o secchi ai paesi vicini. Del 1893 è il libro di Tommaso Grilli Manipolo di cognizioni con cenni storici di Albareto di Borgotaro, nel quale si parla in maniera diffusa di raccolta e produzione di funghi: «quando comparisce questo vegetale carnoso, quasi tutte le famiglie vi attendono per raccoglierne quanto più possono con tutta la cura; e tagliato in fette sottili lo fanno seccare al sole, oppure al calore della fiamma del fuoco nelle cucine, e dopo lo vendono per lo più ai mercanti di Tarsogno che lo trasportano a Genova». Alla fine dell’Ottocento a Borgo Val di Taro prima il dr. Colombo Calzolari e poi Lazzaro Bruschi iniziarono l’attività di lavorazione – secco, sott’olio e fresco – e commercializzazione dei Porcini.
Nel 1928 venne pubblicato a Borgo Val di Taro il regolamento per il mercato dei funghi, probabilmente il primo in Italia. Anche a Bedonia nel 1920 ha inizio con buoni risultati e per molti anni l’attività di lavorazione di funghi Porcini conservati presso la ditta “La Mirtillo”, voluta da Primo Lagasi con la collaborazione di Colombo Calzolari. Nel 1964 il Consorzio delle Comunalie Parmensi istituiva una riserva per la raccolta sostenibile dei funghi. Il riconoscimento di Indicazione Geografica protetta giunse nel 1996.
L’interesse per questo alimento è ad oggi sempre molto vivo, sia per il pregio dei suoi profumi e sapori che per la sua importanza gastronomica, valorizzata dai ristoranti del territorio.

Il fungo porcino di Borgotaro

 

Le immagini e molte delle informazioni sono prese dal sito ufficiale dei Musei del Cibo della Provincia di Parma.

Gaia Rossetti

Sono una gastrocuriosa e sarò un'antropologa.
Mia nonna dice che sono anche bella e intelligente, il problema è che ho un ego gigantesco. Parlo di cibo il 60% del tempo, il restante 40% lo passo a coccolare cagnetti e a far lievitare cose.
Su questi schermi mi occupo di cultura del cibo e letteratura ed esprimo solo giudizi non richiesti.

“Sono un uomo”: il nuovo singolo dei DESHEDUS feat. Alberto Fortis e Tony Cicco

“Sono un uomo”: il nuovo singolo dei DESHEDUS feat. Alberto Fortis e Tony Cicco

“Sono un uomo”: il nuovo singolo dei DESHEDUS feat. Alberto Fortis e Tony Cicco

È su Youtube il videoclip di “Sono un uomo”, l’ultimo singolo dei DESHEDUS feat. Alberto Fortis e Tony Cicco, pubblicato dall’etichetta IM02.

“Freedom is the power of the new generation” urla Alberto Fortis nei primissimi secondi del videoclip, ed è proprio nella commistione tra due diverse generazioni – quella di Alberto Fortis e Tony Cicco, e quella dei giovanissimi Deshedus – che sta una delle componenti fondamentali tanto del video quanto del singolo stesso, in grado inoltre di dare forza alla componente fortemente umanista del singolo.

Il titolo del brano, Sono un uomo, è una vera e propria affermazione, una presa di posizione, un tentativo di riaffermare la dignità dell’Uomo, troppo spesso calpestata da altri uomini; un urlo generazionale, per usare le parole degli stessi Deshedus. «Vorrei vedere Hitler e i tedeschi suoi se quello che fanno non fosse nell’uomo di poterlo fare», scriveva Elio Vittorini in Uomini e no nel 1944. E allora è questo “il male che c’è nel mondo” a cui fa riferimento la canzone: quello dell’uomo, da sempre ambivalente, oscillante senza tregua tra bene e male.

Il videoclip, quindi, tramuta efficacemente in immagini un messaggio di tale portata: le riprese della distesa d’acqua piatta che scorre sotto la macchina da presa – un luogo senza punti di riferimenti, quasi fuori dallo spazio e dal tempo – paiono simboleggiare l’estensione di quell’urlo generazionale oltre ogni confine. L’animazione delle foglie che cadono – dal rimando quasi ungarettiano – non fa che conferire ulteriore caducità alla condizione umana prima evocata. Fortemente carichi, dal punto di vista emotivo, sono anche i primi piani di Alessio che, guardando in camera canta “Sono un uomo, e tu mi disprezzi”.

Negli ultimi secondi del video, che riprendono l’esibizione al Festival “Una voce per San Marino” (noi li avevamo intervistati qui), l’emotività cede il posto alla festa: troviamo tutti gli artisti insieme sul palco, uniti nel desiderio di celebrare questo messaggio universale.

Food Travel Award 2021: i Musei del Cibo di Parma sono la migliore destinazione in Italia

Food Travel Award 2021: i Musei del Cibo di Parma sono la migliore destinazione in Italia

Food Travel Award 2021: i Musei del Cibo di Parma sono la migliore destinazione in Italia

Il Food Travel Award, premio assegnato annualmente dal Gist, per il 2021 va ai Musei del Cibo di Parma

Al TTG Travel Experience di Rimini, il principale appuntamento dedicato al mondo del turismo in Italia, il Gist (Gruppo Italiano Stampa Turistica) ha premiato i vincitori del Gist Travel Food Award 2021. La quarta edizione del premio, tematizzata con lo slogan “Restart & Reload 2.0”, conferma il patrocinio dell’ENIT – Agenzia Nazionale del Turismo. Dal palco di Arena Italy il presidente del GIST Sabrina Talarico e il presidente della giuria Vittorio Castellani hanno conferito i riconoscimenti a cinque realtà nazionali e internazionali, selezionate tra decine di candidature, con i loro progetti.

Come “Miglior Destinazione” hanno vinto i Musei del Cibo della Provincia di Parma. La motivazione è la presenza fondamentale per capire il rapporto tra il paesaggio, l’uomo che lo abita con le sue tradizioni e con un patrimonio alimentare che lo colloca tra le principali aree di attrazione turistico-gastronomica. Un unicum per Italia e per l’Europa. Ed è con grande soddisfazione che Cristiano Casa – vicepresidente dei Musei del Cibo e presidente di Visit Emilia ha ritirato il premio.

La giuria del Gist Travel Food Award, presieduta da Vittorio Castellani è composta dai giornalisti e soci Gist: Elena Bianco, Marco Epifani, Alessandra Gesuelli, Alberto Lupini, Ada Mascheroni, Marina Moioli, Marina Tagliaferri.

“Siamo molto felici e orgogliosi per questo premio, attribuitoci da una giuria di grande qualità e competenza e nel prestigioso contesto del principale marketplace del turismo in Italia. Il nostro è un circuito di sette – fra poco otto – Musei che celebrano i prodotti eccellenti del parmense e che hanno reso la Food Valley ormai famosa anche al di fuori dei confini nazionali. Questo riconoscimento che ci onora, premia i nostri sforzi organizzativi e gestionali volti a promuovere un circuito unico nel suo genere e un territorio straordinario”. Questo il commento di Mario Marini, presidente dei Musei del Cibo, alla notizia del premio.

La dozzina del Premio Strega 2022: chi sono i candidati

La dozzina del Premio Strega 2022: chi sono i candidati

La dozzina del Premio Strega 2022: chi sono i candidati

I titoli e gli autori candidati al Premio Strega 2022 che si contendono un posto nella cinquina finalista

Il Premio Strega non è il più antico premio letterario italiano, ma quasi sicuramente quello di maggior rilevanza a livello nazionale e internazionale.

Il 31 marzo  nella Sala del Tempio di Adriano a Roma il Comitato direttivo del Premio Strega presieduto da Melania Mazzucco ha decretato i dodici candidati ufficiali. Cinque donne e sette uomini che hanno raccontato il percorso delle loro opere scritte o terminate per la maggior parte durante la pandemia. Imprese titaniche, a tratti scoraggianti, ma che li hanno portati fino a qui. Uno solo l’obiettivo: vedere il proprio nome nella cinquina di finalisti che sarà annunciata l’8 giugno a Benevento e, per l’opera migliore, la proclamazione durante la finale il 7 luglio al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma.

In questa edizione, comunica Mazzucco, “svariati autori si confrontano co i padri – o nella genealogia maschile con i nonni – spesso imbarazzanti, mediocri, anaffettivi, violenti, comunque ingombranti. In generale ricorre la crisi del maschio”. Ma chi sono i dodici candidati?

Marco Amerighi, Randagi (Bollati Boringhieri)
“A Pisa, in un appartamento zeppo di quadri e strumenti musicali affacciato sulla Torre pendente, Pietro Benati aspetta di scomparire. A quanto dice sua madre, sulla loro famiglia grava una maledizione: prima o poi tutti i Benati maschi tagliano la corda e Pietro – ultimogenito fifone e senza qualità – non farà eccezione. Il primo era stato il nonno, disperso durante la guerra in Etiopia e rimpatriato l’anno dopo con disonore. Il secondo, nel 1988, quello scommettitore incallito del padre, Berto, tornato a casa dopo un mese senza il mignolo della mano destra. Quando uno scandalo travolge la famiglia, Pietro si convince che il suo turno è alle porte. Invece a svanire nel nulla è suo fratello maggiore Tommaso, promessa del calcio, genio della matematica e unico punto di riferimento di Pietro; a cui invece, ancora una volta, non accade un bel niente. Per quanto impegno metta nella carriera musicale, nell’università o con le ragazze, per quanto cambi città e nazione, per quanto cerchi di tagliare i ponti con quel truffatore del padre o quella ipocondriaca della madre, la sua vita resta un indecifrabile susseguirsi di fallimenti e delusioni. Almeno finché non incontra due creature raminghe e confuse come lui: Laurent, un gigolò con il pallino delle nuotate notturne e l’alcol, e Dora, un’appassionata di film horror con un dolore opposto al suo. E, accanto a loro, finalmente Pietro si accende.”

Fabio Bacà, Nova (Adelphi)
“Del cervello umano, Davide sa quanto ha imparato all’università, e usa nel suo mestiere di neurochirurgo. Finora gli è bastato a neutralizzare i fastidiosi rumori di fondo e le modeste minacce della vita non elettrizzante che conduce nella Lucca suburbana: l’estremismo vegano di sua moglie, ad esempio, o l’inspiegabile atterraggio in giardino di un boomerang aborigeno in arrivo dal nulla. Ma in quei suoni familiari e sedati si nasconde una vibrazione più sinistra, che all’improvviso un pretesto qualsiasi – una discussione al semaforo, una bega di decibel con un vicino di casa – rischia di rendere insopportabile. È quello che tenta di far capire a Davide il suo nuovo, enigmatico maestro, Diego: a contare, e spesso a esplodere nel modo più feroce, è quanto del cervello, qualunque cosa sia, non si sa. O si preferisce non sapere.”

Alessandro Bertante, Mordi e fuggi (Baldini+Castoldi)
“Milano, 1969. Università occupate, cortei, tensioni nelle fabbriche. Il 12 dicembre la strage di piazza Fontana. Alberto Boscolo ha vent’anni, viene da una famiglia normale, né ricca né povera, è iscritto alla Statale ma vuole di più. Vuole realizzare un proprio progetto politico. Deluso dall’inconcludenza del Movimento Studentesco, si avvicina a quello che di lì a poco sarà il nucleo delle Brigate Rosse. I mesi passano, Alberto partecipa alle azioni dimostrative, alle rapine di autofinanziamento e al primo attentato incendiario, ma il suo senso di insoddisfazione non si placa. Vuole agire sul serio. Il gruppo organizza il sequestro lampo di Idalgo Macchiarini, un dirigente della Sit-Siemens, e lo sottopone al primo processo proletario. «Mordi e fuggi », scrivono i brigatisti. La stampa batte la notizia; nei bar degli operai non si parla d’altro, le Brigate Rosse sono pronte ad alzare il livello dello scontro.”

Alessandra Carati, E poi saremo salvi (Mondadori)
“Aida ha appena sei anni quando, con la madre, deve fuggire dal piccolo paese in cui è nata e cresciuta. In una notte infinita di buio, di ignoto e di terrore raggiunge il confine con l’Italia, dove incontra il padre. Insieme arrivano a Milano. Mentre i giorni scivolano uno sull’altro, Aida cerca di prendere le misure del nuovo universo. Crescere è ovunque difficile, e lei deve farlo all’improvviso, da sola, perché il trasloco coatto ha rovesciato anche la realtà dei suoi genitori. Nemmeno l’arrivo del fratellino Ibro sa rimettere in ordine le cose: la loro vita è sempre altrove – un altrove che la guerra ha ormai cancellato. Sotto la piena della nostalgia, la sua famiglia si consuma, chi sgretolato dalla rabbia, chi schiacciato dal peso di segreti insopportabili, chi ostaggio di un male inafferrabile. Aida capisce presto che per sopravvivere deve disegnarsi un nuovo orizzonte, anche a costo di un taglio delle radici.”

Mario Desiati, Spatriati (Einaudi)
“Claudia entra nella vita di Francesco in una mattina di sole, nell’atrio della scuola: è una folgorazione, la nascita di un desiderio tutto nuovo, che è soprattutto desiderio di vita. Cresceranno insieme, bisticciando come l’acqua e il fuoco, divergenti e inquieti. Lei spavalda, capelli rossi e cravatta, sempre in fuga, lui schivo ma bruciato dalla curiosità erotica. Sono due spatriati, irregolari, o semplicemente giovani. Un romanzo sull’appartenenza e l’accettazione di sé, sulle amicizie tenaci, su una generazione che ha guardato lontano per trovarsi.”

Veronica Galletta, Nina sull’argine, (minimum fax)
“Caterina è al suo primo incarico importante: ingegnere responsabile dei lavori per la costruzione dell’argine di Spina, piccolo insediamento dell’alta pianura padana. Giovane, in un ambiente di soli uomini, si confronta con difficoltà di ogni sorta: ostacoli tecnici, proteste degli ambientalisti, responsabilità per la sicurezza degli operai. Giorno dopo giorno, tutto diventa cantiere: la sua vita sentimentale, il rapporto con la Sicilia terra d’origine, il suo ruolo all’interno dell’ufficio. A volte si sente svanire nella nebbia, come se anche il tempo diventasse scivoloso e non si potesse opporre nulla alla forza del fiume in piena. Alla ricerca di un posto dove stare, la prima ad avere bisogno di un argine è lei stessa. È tentata di abbandonare, dorme poco e male. Ma, piano piano, l’anonima umanità che la circonda – geometri, assessori, gruisti, vedove di operai – acquista un volto. Così l’argine viene realizzato, in un movimento continuo di stagioni e paesaggi, fino al giorno del collaudo, quando Caterina, dopo una notte in cui fa i conti con tutti i suoi fantasmi, si congeda da quel mondo.”

Jana Karšaiová, Divorzio di velluto (Feltrinelli)
“Come si sopravvive allo strappo, alla perdita delle radici? Cosa resta, come ci si inventa di nuovo? Katarína torna da Praga a Bratislava per trascorrere il Natale insieme alla famiglia. Alle vecchie incomprensioni con la madre, si aggiunge la difficoltà di giustificare l’assenza del marito Eugen. Ma in quei pochi giorni ritrova anche le vecchie compagne di università, soprattutto Viera, che si è trasferita in Italia grazie a una borsa di studio e torna sempre più malvolentieri in Slovacchia. Le due amiche si riavvicinano, si raccontano l’un l’altra gli strappi, le ferite – Viera con Barbara, che era stata la loro insegnante di italiano, Katarína con Eugen, che l’ha abbandonata due mesi prima con un biglietto sul tavolo della cucina. Katarína ripercorre il rapporto con lui, dal primo incontro al matrimonio forse troppo precoce, con le tante difficoltà di integrarsi a Praga, fino al dolore, di cui ancora non riesce a parlare. E tra i ricordi emergono frammenti della vita a Bratislava sotto il governo comunista: l’abolizione delle festività cattoliche, la censura, le code per la carne e per qualsiasi cosa. Con “divorzio di velluto” si intende la separazione tra Slovacchia e Repubblica Ceca, che nel romanzo riverbera quelle tra Katarína e il marito Eugen, tra Viera e un paese per lei troppo stretto… È una storia di assenze che pesano, di tradimenti, di desideri temuti e mai pronunciati, di strappi che chiedono nuove risorse per essere ricomposti, di sradicamento e di rinascita – una ricerca di sé della protagonista e del suo paese, entrambi orfani di un passato solido. La scrittura versatile e profonda di Jana Karšaiová è straordinaria per un’autrice che ha scelto l’italiano come lingua elettiva. Un esordio letterario di grande maturità.”

Marino Magliani, Il cannocchiale del tenente Dumon (L’Orma)
“Estate 1800. Tre soldati napoleonici stanchi della guerra. Alle loro spalle la campagna d’Egitto e i suoi inferni, leniti appena dalla scoperta di una nuova, dolce droga: l’hascisc. Travolti dalla baraonda di Marengo – «la battaglia che alle cinque era persa e alle sette era vinta» –, disertano e si danno alla macchia. Sulle tracce dei tre si mettono gli emissari del dottor Zomer, un medico olandese che ha orchestrato un singolare «esperimento sanitario» per indagare gli effetti della nuova sostanza. Smarriti in un paesaggio ligure che pullula di spie e uniformi ormai tutte indistintamente nemiche, Lemoine, Dumont e Urruti – un capitano erudito, un tenente sognatore e un rude soldato basco – incontrano sulla propria strada amori difficili, illusioni perdute e la gioia del sole. Scopriranno così la libertà di scrollarsi di dosso la Storia per inseguire una vita fatta di attimi e di scelte. Forte di una prosa di precisa bellezza, Marino Magliani dirige una narrazione mossa e visionaria, alternando la velocità della grande avventura all’ampio respiro della pittura di paesaggio.”

Davide Orecchio, Storia aperta (Bompiani)
“«Chi siamo noi?», ci chiediamo all’inizio di questo romanzo. «Noi siamo ignoranti. Noi siamo, in miliardi di pixel, gli eredi», coloro che vivono ormai fuori della linearità storica, dove il solo modo per capire i nostri padri è studiare. Così, in principio c’è un padre bambino, appena nato e già pronto ad affrontare il Novecento perché è un «bambino diacronico», «creatura della durata». Grazie alle parole che ha scritto – perché i bambini diacronici hanno lasciato montagne di parole, con le loro grafie sghembe, i loro dattiloscritti, telegrammi, articoli, faldoni – possiamo seguirne i passi attraverso il secolo breve, che non lo è stato affatto per chi come lui lo ha vissuto in ogni suo palpito. L’educazione fascista, l’amore con Michela, l’Etiopia, il fronte greco-albanese; la consapevolezza, l’adesione al comunismo, la Resistenza; la militanza politica che assorbe ogni altra vocazione, anche quella di padre, di scrittore; il terrorismo, poi il destino del partito, le verità, la perdita di identità; la vecchiaia come un «brodo sugli occhi» attraverso cui cercare di credere ancora. Questa la sorte di Pietro Migliorisi, protagonista di Storia aperta ed eteronimo di tanti uomini e donne della sua generazione: Davide Orecchio li riporta in vita attraverso una vertiginosa tessitura delle proprie parole e di quelle (in larghissima parte inedite) lasciate dal padre Alfredo Orecchio, insieme ai testi di molti comprimari, di cui nella Notafinale è offerto un toccante catalogo. In queste pagine avviene una moderna nékyia, la rievocazione di coloro che vissero in un tempo altro, nel quale splendeva il sole dell’avvenire, e si compie l’impresa di un romanzo in cui la polvere di tante voci ne compone una sola. Davide Orecchio insegue il mistero di un padre sconosciuto, ne indaga le traiettorie possibili, si impone un ferreo rigore documentario ma al tempo stesso permette alla fantasia di colmare lacune, sognare destini. Nel silenzio del passato, nel buio dell’inchiostro, cerca la luce.”

I dodici candidati

Claudio Piersanti, Quel maledetto Vronskij (Rizzoli)
“ “Perdonami, sono tanto stanca. Non mi cercare.” Solo questo lascia scritto Giulia, prima di scomparire nel nulla. E suo marito Giovanni, nella casa improvvisamente vuota, si sente un naufrago. Il loro è un amore fatto di cose minime: la colazione al mattino, con le fette imburrate e la marmellata; un bacio volante prima di andare al lavoro e un altro più lungo la sera, quando lui torna dalla tipografia con le dita sporche d’inchiostro; abbracciarsi in giardino, tra le rose che lei ha potato con cura. Dopo una vita insieme, non hanno ancora perso la voglia di farsi felici l’un l’altra. O almeno, così credeva lui. Adesso Giovanni, in cerca di risposte, guarda tra i libri di Giulia e dagli scaffali pesca il più voluminoso: Anna Karenina. Comincia a leggere. E si convince che sua moglie abbia trovato un altro uomo, un amante focoso, un maledetto Vronskij. Geloso e amareggiato, si chiude in tipografia, deciso a creare una copia unica del capolavoro di Tolstoj: carta pregiata, copertina in pelle, nella speranza, un giorno, di farne il suo ultimo pegno d’amore per Giulia. Ma la vita non è un romanzo, procede per strappi lievi e imprevedibili. Quando il mistero della scomparsa si svela, Giovanni capisce che c’è sempre qualcosa che ci sfugge, e tutto ciò che possiamo fare è smettere di averne paura.”

Veronica Raimo, Niente di vero (Einaudi)
“Prendete lo spirito dissacrante che trasforma nevrosi, sesso e disastri famigliari in commedia, da Fleabag al Lamento di Portnoy, aggiungete l’uso spietato che Annie Ernaux fa dei ricordi: avrete la voce di una scrittrice che in Italia ancora non c’era. Veronica Raimo sabota dall’interno il romanzo di formazione. Il suo racconto procede in modo libero, seminando sassolini indimenticabili sulla strada. All’origine ci sono una madre onnipresente che riconosce come unico principio morale la propria ansia; un padre pieno di ossessioni igieniche e architettoniche che condanna i figli a fare presto i conti con la noia; un fratello genio precoce, centro di tutte le attenzioni. Circondata da questa congrega di famigliari difettosi, Veronica scopre l’impostura per inventare se stessa. Se la memoria è una sabotatrice sopraffina e la scrittura, come il ricordo, rischia di falsare allegramente la tua identità, allora il comico è una precisa scelta letteraria, il grimaldello per aprire all’indicibile. In questa storia all’apparenza intima, c’è il racconto precisissimo di certi cortocircuiti emotivi, di quell’energia paralizzante che può essere la famiglia, dell’impresa sempre incerta che è il diventare donna. Con una prosa nervosa, pungente, dall’intelligenza sempre inquieta, Veronica Raimo ci regala un monologo ustionante.”

Daniela Ranieri, Stradario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie)
“Una donna in dialogo perpetuo con sé stessa e con il mondo disegna una mappa delle sue ossessioni, del suo rapporto con l’amore e con il corpo, serbatoio di ipocondrie e nevrosi: il nuovo romanzo di Daniela Ranieri è un diario lucido e iperrealistico, in cui ogni dettaglio, ogni sussulto di vita interiore è trattato allo stesso tempo come dato scientifico e ferita dell’anima. Dalla pandemia di Covid-19 alla vita quotidiana di Roma, tutto viene fatto oggetto di narrazione ironica e burrascosa, ma in special modo le relazioni d’amore: le tante sfaccettature di Eros – l’incontro, il flirt, il piacere, le convivenze sbagliate, la violenza, l’idealizzazione, la dipendenza, l’amore puro – vengono sviscerate nello stile impareggiabile dell’autrice, un misto di strazio, risentimento, ironia impastati con la grande letteratura europea (e non solo). E forse è proprio la lingua di Daniela Ranieri il vero protagonista di questo Stradario aggiornato di tutti i miei baci, una lingua ricchissima di echi gaddiani, di irritazioni à la Thomas Bernhard, di citazioni, e allo stesso tempo inquietantemente diretta e inaudita, una lingua la cui capacità di nominare e avvicinare le cose è pari soltanto alla sua potenza nel distruggerle. Lo Stradario di Daniela Ranieri non è solo un romanzo: ha la sostanza di un corpo vivente che abita nel mondo, di una voce che avvince e persuade con la forza della grande letteratura.”