Boom per il turismo “culturale”, fatturati alle stelle

Boom per il turismo “culturale”, fatturati alle stelle

Boom per il turismo “culturale”, fatturati alle stelle

All’interno di uno scenario globale estremamente positivo (+58% sul 2021), il Vecchio Continente si prende la scena, generando la metà delle entrate totali grazie alla presenza sul territorio di musei, borghi e attrazioni dal fascino intramontabile. I Paesi di punta? Germania e Italia…

Superare la tempesta, mantenendo lo sguardo fisso sull’orizzonte per scorgere nuovi e fruttuosi scenari: ecco ciò che ha fatto il settore del turismo nel corso degli ultimi anni e, stando a una serie di ricerche effettuate sulle principali testate del settore da Espresso Communication per la Fondazione Città Identitarie, uno dei principali traini su cui ha fatto e fa tutt’ora affidamento l’industria turistica globale è la cultura. Le prime conferme in merito giungono dal portale GlobeNewswire, secondo cui l’asset del cultural tourism raggiungerà quota 12 miliardi di dollari di fatturato entro il 2028 dopo aver sfiorato i 5 miliardi nel 2021. Ulteriori informazioni in merito giungono da un approfondimento stilato da Future Market Insights: stando a quanto indicato dal portale, il Nord America, l’Asia orientale e l’Africa sono alcuni dei paesi che favoriscono l’ascesa del mercato sopradescritto, ma l’Europa è la vera e propria capitale del turismo culturale. Technavio si dimostra sulla stessa lunghezza d’onda e afferma che il Vecchio Continente detiene la quota di maggioranza dell’asset perché contribuirà all’ottenimento del 50% delle entrate totali entro i prossimi 5 anni. Questo “traguardo” è dettato dal fatto che il territorio europeo può vantare la presenza di innumerevoli città, musei, borghi e attrazioni dal fascino intramontabile. Tra i principali paesi del territorio europeo, la crescita maggiore si verificherà in Germania e in Italia. A proposito di Bel Paese, le città d’arte sono diventate popolari trend virali sui social: basti pensare che su Instagram la top 3 delle città culturali più gettonate è costituita da Milano (1° con l’hashtag #milano che conta circa 39 milioni di contenuti), seguita da Roma (2° con 36 milioni di contenuti) e Napoli (3° con 21 milioni di post pubblicati), fuori dal podio Firenze con 12 milioni di contenuti e Venezia con quasi 11 milioni. Tik Tok, invece, ribalta la situazione: Napoli 1° con 17 miliardi views, seguita da Roma (2° con 11 miliardi) e Milano (3° con 7,5 miliardi). Non cambia, invece, la situazione di Firenze, che conta 1 miliardo di views, e Venezia, la quale ne vanta circa 980 milioni.

Al di là delle singole metropoli culturali, lo Stato italiano punta alla valorizzazione del propio patrimonio di riferimento attraverso iniziative mirate ed efficaci come i premi, i dibattiti e le attività didattiche organizzate dalla Fondazione Città Identitarie, realtà istituita dal movimento CulturaIdentità per promuovere l’unicità e la storia di tutto ciò che simboleggia il made in Italy. “Non è un caso che il nostro Paese sia una delle eccellenze in termini di turismo culturale – afferma Edoardo Sylos Labini, presidente della Fondazione Città Identitarie e ideatore del movimento CulturaIdentità – L’Italia è un vero e proprio polo di ricchezza sia in termini naturali sia artistici che, però, vanno promossi al meglio: per farlo è fondamentale ripartire dai borghi. In quanto fondazione e realtà fortemente radicata sul territorio, grazie all’adesione di quasi 8mila comuni dello Stivale, promuoviamo la storia, l’arte e la cultura del made in Italy. Con l’utilizzo di un linguaggio contemporaneo, applicato ad un circuito di eventi e festival, raccontiamo l’Italia più piccola, quella più bella, che ad oggi rappresenta circa il 70% dell’intero Stato italiano”.

E la Germania? L’altro Paese del Vecchio Continente che emerge per cultural attraction viene ripreso anche dal sito dell’UNESCO. A questo proposito, i musei della cittadina di Bamberga, per esempio, organizzano corsi di cucina ed eventi gastronomici all’interno delle storiche strutture per avvicinare ulteriormente locali e turisti alla propria storia e bellezza culturale. Per concludere, Outlook Traveller ha realizzato un approfondimento contenente alcune delle migliori attrazioni del territorio tedesco, tra cui la città di Brema, la quale è arricchita dalla presenza di innumerevoli edifici dai tratti rinascimentali, Amburgo, influenzata dalla corrente Art Nuoveau, le opere del Tebel Art Park di Berlino e, infine, il Music Festival di Dresda che prevede una serie di appuntamenti orchestrali con balletti e anche qualche esibizione jazz.

La Stele di Vicchio esposta per la prima volta a Milano

La Stele di Vicchio esposta per la prima volta a Milano

La Stele di Vicchio esposta per la prima volta a Milano

La stele – un documento epigrafico di assoluta importanza e tra i tre testi religiosi più ampi della civiltà etrusca – resterà esposta fino al 16 luglio alla Fondazione Rovati, nel palazzo neoclassico di Corso Venezia

Nel museo della Fondazione Luigi Rovati a Milano è stata esposta per la prima volta al pubblico la Stele di Vicchio del VI secolo a.C, documento epigrafico di assoluta importanza e fra i tre testi religiosi più ampi della civiltà estrusca. La stele, in pietra arenaria e alta un metro e 26 centimetri, fu rinvenuta durante scavi condotti al Mugello nel 2015. Il prezioso reperto è stato presentato da Antonella Ranaldi, Soprintendente Archeologia per Firenze, Pistoia e Prato, dal docente di Archeologia presso il dipartimento di studi classici di The Open University, Phil Perkins, e da Giulio Paolucci, conservatore della collezione della Fondazione Luigi Rovati.

La stele resterà esposta fino al 16 luglio alla Fondazione Rovati, nel palazzo neoclassico di Corso Venezia che ospita una collezione etrusca di straordinaria importanza nell’ardito ipogeo sotterraneo con un impianto curvilineo che richiama la necropoli di Cerveteri. Vasi, sculture, marmi, ceramiche, il tutto mescolato tra tele contemporanee, raccontano un viaggio tra la storia e la civiltà. Dai guerrieri al rapporto con la natura, dalle divinità agl’impianti urbanistici etruschi, Marzabotto e Vulci.

L’incisione della stele di Vicchio costituisce uno dei tre testi religiosi etruschi più ampi finora ritrovati, insieme al Liber linteus della mummia di Zagabria e alla tegola di Capua. Fra le tre opere, è proprio la stele di Vicchio a essere la testimonianza più antica e l’unica proveniente da un contesto archeologico certo.

Inoltre, a differenza della maggior parte delle iscrizioni etrusche, proviene da un contesto non funerario. Data l’importanza del reperto e la complessità delle sue iscrizioni è stato avviato un nuovo progetto di ricerca internazionale che prevede la digitalizzazione tridimensionale della stele con tecniche di fotogrammetria digitale e laser scanning. A questo si aggiunge l’implementazione del modello 3D per la realtà virtuale immersiva.

La prima assoluta di Frankenstein al Teatro Astra di Torino

La prima assoluta di Frankenstein al Teatro Astra di Torino

La prima assoluta di Frankenstein al Teatro Astra di Torino

La nuova produzione di OHT, dedicata per la prima volta a un classico della letteratura occidentale, debutta nel teatro della Fondazione TPE Teatro Piemonte Europa, dando voce all’ansia climatica contemporanea. Uno spettacolo teatrale che è anche reading session, installazione, radiodramma e release musicale generati come parti di una sperimentazione che indaga le molteplici ramificazioni del romanzo

Scritto a soli diciannove anni da Mary Shelley, Frankenstein o il moderno Prometeo è non soltanto il capostipite dell’horror fantascientifico, ma anche una profetica anticipazione delle ansie contemporanee sul destino dell’ambiente: a questo classico della letteratura occidentale OHT – Office for a Human Theatre dedica Frankenstein, la sua nuova produzione presentata in prima assoluta mercoledì 8 febbraio 2023 al Teatro Astra di Torino, casa della Fondazione TPE Teatro Piemonte Europa.

OHT si misura per la prima volta con un classico raccogliendo nella sua versione lo stesso corto-circuito all’origine della creatura di Frankenstein e invitandoci a fare i conti con quello che siamo soliti omettere alla vista e consideriamo mostruoso.

Pubblicato nel 1816, mentre il mondo sta vivendo la più grande anomalia climatica della sua storia causata dall’eruzione del vulcano Tambora (la più potente mai registrata), Frankenstein non è solo un’icona letteraria ma una reazione all’Anno-Senza-Estate causato dalla nebbia sulfurea del vulcano, che offuscò la stratosfera, abbassò le temperature, provocò violenti e continui temporali e conseguenti carestie in Europa, Nord America e Asia. In quel clima distopico, una compagnia di giovani intellettuali, rinchiusi a causa del maltempo a Villa Diodati sul lago di Ginevra, si cimenta nella stesura di un racconto del terrore su invito dell’ospite lord Byron.

Filippo Andreatta, che dal 2008 con OHT si dedica all’esplorazione dei rapporti fra teatro, paesaggio, architettura e ambiente, parte da questa suggestione e, nella sua lettura scenica, fa muovere la creatura del dottor Frankenstein in un primordiale paesaggio in cui emerge la superbia dell’uomo nel voler manipolare il corpo, la vita e le leggi della natura.

Frankenstein è un mito in cui i paesaggi esteriori si confondono con quelli interiori, gli strapiombi del Monte Bianco diventano vertigini intime, luoghi inaccessibili come le Alpi si fanno rifugio per questa creatura inafferrabile, che in essi impara a conoscersi. Il demone e il paesaggio diventano tutt’uno mentre Victor Frankenstein non sembra più in controllo di ciò che lo circonda.
Frankenstein si rivela un romanzo di formazione, in cui per la prima volta è il mostro a parlare, non come escluso ma come artefice del nostro immaginario, come un nostro concittadino, un nostro pari mostruoso. Finalmente il mostro rinasce rivelandosi come un bambino a cui appaiono i primi colori, le forme, le cui mani iniziano ad afferrare, le cui labbra articolano le prime parole.

La nuova produzione di OHT si muove dall’esperimento del dottor Frankenstein e opera affondi nel testo: l’opera di Shelley diventa materiale da esaminare, sezionare, ricucire, corpo disponibile per esperimenti scenici: uno spettacolo teatrale, una reading session, un’installazione, un radiodramma e un album musicale verranno generati come parti di una stessa sperimentazione che avanza orizzontalmente nel romanzo per indagarne le molteplici ramificazioni.

Sanremo: le 5 canzoni vincenti più brutte di sempre

Sanremo: le 5 canzoni vincenti più brutte di sempre

Sanremo: le 5 canzoni vincitrici più brutte di sempre (fino ad ora…)

Vincenti, premiate e…dimenticabili Qual è la peggior canzone vincitrice di Sanremo? Scopriamolo.

Sanremo è alle porte. Forse per fortuna, forse purtroppo, forse ce ne importa il giusto, ma l’evento nazional popolare per eccellenza è ormai arrivato. E dobbiamo ammetterlo: mai come negli ultimi anni si è notato il tentativo della direzione artistica di svecchiare il dinosauro, con esiti di dubbia riuscita magari.

Da Francesco Gabbani (eletto a giovane tra i giovani tanto perché se hai meno di 40 anni sei automaticamente un ragazzino) a Mahmood, da Lo Stato Sociale alle edizioni degli ultimi due anni che, dopo anni di fuoriusciti dai talent, ci hanno regalato la classica edizione che rincorre la moda del momento, facendo sfoggio del meglio tra i gruppi ex indie italiani (perché sì amici, se la tua etichetta è la Warner sei indie quanto Giulia De Lellis è colta).

E quindi, dopo le lunghe introduzioni che non saranno mai lunghe come una puntata condotta da Amadeus, ecco le cinque canzoni vincitrici più brutte della storia, messe in ordine più o meno casuale.

5 – Il Volo, Grande Amore

Una canzone “vecchio stile”, dove per vecchio intendiamo di un paio di secoli fa. Per carità, il ritmo è anche orecchiabile, le voci dei tenori fanno sempre la loro figura, ma il testo è imbarazzante, la creatività non è pervenuta e… il video è quanto di più cringe possa esistere, tra riferimenti mal recitati a Ghost e una serie di espressioni facciali che… beh, giudicate voi.

4 – Peppino di Capri, Non lo faccio più

Siamo onesti, non è la più brutta, ma in ogni altra edizione avrebbe meritato un ventesimo posto. Perché ha vinto? Perché le altre erano peggio.

3 – Marco Carta, La forza mia

Direttamente dal successo di Amici, Marco Carta presenta a Sanremo una canzone orecchiabile, con quel sano ritmo a metà tra i primi 2000 e l’oratorio estivo. Nessun riferimento immotivato alla religione, un testo sciapo che sembra tratto dai “link” di Facebook (e non ci sentiamo di escludere che il testo sia stato partorito proprio tra un post e l’altro), una benedizione di Maria e si va a vincere Sanremo.

2 – Giò di Tonno e Lola Ponce, Colpo di fulmine

Sanremo 2008: l’edizione dimenticata (e dimenticabile). Non vi ricordate la canzone? Non riuscite nemmeno a farvi tornare in mente il ritornello? Non sapete se Giò di Tonno sia vero o solo un errore di battitura? Tranquilli, è normale. Nessuno ricorda Colpo di Fulmine, per cui ve la raccontiamo noi.


Era il 2008, non c’erano notti buie e tempestose, solo Pippo Baudo come direttore artistico, una lunga serie di partecipanti di dubbia bravura, i fuoriusciti dai talent sarebbero arrivati l’anno successivo e Colpo di fulmine arrivò a scontrarsi con mostri sacri della musica italiana: i Finley, Paolo Meneguzzi e altre canzoni di cui non ricordiamo (fortunatamente) l’esistenza. Che cosa ricordiamo invece di Sanremo 2008? Eppure mi hai cambiato la vita di Fabrizio Moro che – inspiegabilmente – non ha superato il terzo posto e il clamoroso flop dei dati auditel, con la kermesse sanremese surclassata anche dai Cesaroni e dalla storia d’amore tra Eva e Marco (vuoi leggere un giudizio particolarmente impopolare sul personaggio? Clicca qui).

Insomma. Un disastro. E ci dispiace per Giò di Tonno, perché lui negli anni ha dimostrato di valere il palco ed è un peccato che la sua edizione sarà per sempre associata a… a niente. Nessuno la ricorda in fondo.

1 – Povia, Vorrei avere il becco

La vittoria di Povia a Sanremo 2006 con Vorrei avere il becco è il più lampante caso di titolo assegnato ad honorem nel nostro Paese. Reduce dal successo de I bambini fanno “ooh”, che nel 2005 lo portò alla ribalta (la canzone doveva presentarsi all’edizione 2005 condotta da Bonolis, ma dato che non era inedita venne messa fuori dalla kermesse), Povia si è presentato a Sanremo 2006 con una canzone tendenzialmente paraculo piena di frasi e pensieri intrisi di quel “moralismo da applausi” degno di una prima serata su Rai Uno, in pratica la versione 2.0 di quella dell’anno prima, con l’esaltazione delle piccole cose ripetuta all’infinito: nel 2005 voleva essere un bambino, nel 2006 voleva essere un piccione.

Il testo era di una banalità da lacrime agli occhi, la melodia era la rivisitazione di quella dell’anno prima e i versi onomatopeici ci hanno torturato per mesi (comunque più sensati delle “critiche sociali” mosse da Povia negli anni). Insomma, quando rinfacciamo alle generazioni di oggi la pochezza della loro musica e gli ricordiamo quanto la “musica di una volta” sia meglio della loro ripensiamo a Vorrei avere il becco.
Ah, signora mia, una volta qua era tutto cantautorato di qualità…

Breve storia del diritto di voto femminile in Europa

Breve storia del diritto di voto femminile in Europa

Breve storia del diritto di voto femminile in Europa

La storia dell’emancipazione femminile per un secolo ha riguardato la lotta per il diritto di voto che solo nel 1948 viene riconosciuto come diritto fondamentale dell’umanità dall’ONU

Nel 1840, a Londra, si tenne la World Anti-Slavery Convention, una convenzione che si inserì nella scia dei movimenti abolizionistici che attraversavano, in particolare, gli Stati Uniti d’America. Se questa convenzione segna un punto importante per i diritti umani, allo stesso tempo rappresenta un punto importante per il dibattito sull’emancipazione femminile. Infatti, alla World Anti-Slavery Convention non solo le donne vennero osteggiate, ma soprattutto non ebbero diritto alcun diritto di parola.

Dalle ceneri di questa esperienza Elizabeth Cady Stanton e Lucretia Mott – che avevano preso entrambe parte alla convenzione del 1840 – organizzarono nella cittadina di Seneca Falls, nello stato di Ney York, la prima convenzione espressamente dedicata ai diritti delle donne. Al centro di questa prima convenzione è il diritto di voto alle donne, tema che sarà il principale motivo di battaglia per le donne nei decenni successivi. Proprio questa convenzione segna il punto di avvio del movimento delle suffragette che avrà una sempre maggior diffusione e importanza per l’affermazione dei diritti delle donne.

Così, fino alla seconda metà del XX secolo, le rivendicazioni femminili si concentrarono, in particolare, sul diritto di voto. Infatti, fino alla fine dell’800 nessuno stato nel mondo riconosceva questo diritto alle donne. A questo proposito, il primo paese nel mondo è la Nuova Zelanda nel 1893, periodo in cui gli Stati Europei, non solo erano ben lontani dal riconoscimento del suffragio femminile, ma non avevano, in larga parte, riconosciuto quello maschile – addirittura in Italia il suffragio universale maschile è del 1912, mentre in Inghilterra venne allargato definitivamente nel 1918. Figurarsi per il diritto di voto femminile. Se il 1848 è l’anno in cui prende avvio il movimento femminista delle suffragette, solo un secolo più tardi, con il referendum costituzionale del 2 giugno 1946, le donne voteranno per la prima volta.

A dire il vero, però, al di là del caso italiano, le suffragiste, fino alla Prima Guerra Mondiale, non otterranno grandi successi. Il diritto di voto era stato approvato solo in alcuni stati – tra cui, oltre alla Nuova Zelanda, l’Australia (1902) e la Finlandia (1906). Questo ritardo è davvero sorprendente se si considerano i grandi fenomeni economici e sociali che rivoluzionarono l’Occidente e l’Europa a partire dalla rivoluzione industriale. Infatti, l’ingresso nel mondo del lavoro delle donne con la diffusione delle industrie diede un ruolo di maggior rilievo alle donne, ma senza che questo si tramutasse in un riconoscimento politico – anzi, ebbe un risvolto di sfruttamento e schiavitù lavorativa ben documentati.

Anche gli Stati Uniti ebbero un percorso simile all’Europa. Eredità dell’età progressista – quel periodo che si ascrive al 1890-1920 – è sicuramente un generale miglioramento delle condizioni di vita e lavorative delle classe medie e degli operai, ma anche – e soprattutto – un profondo avanzamento per quanto riguarda il discorso dell’emancipazione femminile e il diritto di voto alle donne – alcuni stati dell’Ovest come la California e l’Arizona lo introdussero già prima della guerra il diritto di voto alle donne. Ma questo diritto verrà generalizzato solo nel 1920 con il XIX emendamento. Così, se il movimento delle suffragette conosce alcuni successi già nell’800, essi sono comunque molto limitati rispetto alla portata delle rivendicazioni.

Così, guardando alcune date, si può dire che l’affermazione della società di massa nel primo ‘900 e, soprattutto, la Grande Guerra siano stati determinanti per una prima grande diffusione del diritto di voto alle donne. Per esempio, la già citata Inghilterra nel 1918 – che riconobbe il voto, però, solo alle donne sopra i trent’anni –, come anche il Canada, la Germania e l’Austria, sempre nel 1918. Un anno prima era arrivata la Russia che accordò il diritto di voto nel 1917 con la Rivoluzione, diritto poi ratificato dall’Assemblea costituente nel 1918.

Ma per quale motivo i fermenti dei primi vent’anni del ‘900 furono così importanti? Si può dire che allo sviluppo dell’opinione pubblica si accompagna la gestazione di una moderna opinione pubblica che mise sempre più in difficoltà il modello liberale che era ancora basato sul censo – come in Inghilterra e in Italia. Con l’accesso delle masse popolari la società esige un cambiamento di rappresentanza. Le ristrette basi di consenso dello stato liberale non sono più rappresentative né potrebbero esserlo in alcun modo. E Giolitti, infatti, comprende bene questo punto e cerca, fino alla fine, di allargare le basi del potere del sistema liberale italiano. Così anche le donne iniziano ad avere un ruolo più rilevante e una maggior coscienza di sé su questo piano. In Italia, per esempio, si tenne, nel 1908, Congresso Nazionale delle Donne Italiane, organizzato dal Consiglio nazionale delle donne, nato nel 1901.

Ma un vero e proprio momento di svolta per l’emancipazione femminile – che riguardano ambiti diversi, ma le richieste erano soprattutto inerenti al diritto di voto – si ha con la Prima guerra mondiale. Con l’intensificarsi dell’attività industriale e per tamponare la carenza di manodopera maschile nelle fabbriche – dato che milioni di lavoratori erano impegnati al fronte – le donne vennero inserite in massa nelle attività produttive. Così il loro ruolo cambiò. Non erano più inferiori se erano riuscite a svolgere ruoli e mansioni maschili. E così apparvero agli occhi della società del tempo. Così, il diritto di voto in alcuni paesi fu avvertito come giusta “ricompensa” per l’impegno prestato dalle donne. Le donne c’erano state per lo stato e rivendicavano un maggior riconoscimento politico.

Le italiane voteranno solo nel 2 giugno 1946. Appare sorprendente rileggere oggi queste parole: “Io penso che la concessione del voto alle donne in un primo tempo nelle elezioni amministrative in un secondo tempo nelle elezioni politiche non avrà conseguenze catastrofiche come opinano alcuni misoneisti”. A pronunciarle è Benito Mussolini, il 9 maggio 1923, all’apertura del IX congresso dell’Associazione internazionale del Suffragio femminile. Le parole di Mussolini saranno riprese da una legge nel 1925 che concede alle italiane con la terza media la possibilità di eleggere gli amministratori locali. Ma le donne chiaramente non voteranno mai. Anzi, tre mesi dopo anche il voto maschile perderà qualsiasi valore con la legge “fascistissima” che sostituiva i sindaci con potestà nominati dal Duce.

E il percorso sarà ancora molto lungo. Solo con la fine della Seconda guerra mondiale il suffragio femminile sarà generalizzato. A metà degli anni settanta solo pochi paesi non l’avevano ancora riconosciuto – tra cui Svizzera, Yemen, Giordania e Sudafrica. A suggellare l’universalità del diritto di voto femminile è la Dichiarazione universale dei diritti umani approvata dall’ONU nel 1948.

di Simone Mazza