Federico Fellini: I Vitelloni e l’incapacità di affrontare la vita

Federico Fellini: I Vitelloni e l’incapacità di affrontare la vita

Federico Fellini: I Vitelloni e l’incapacità di affrontare la vita

Nelle inconsistenti vicende dei cinque ragazzi di provincia troviamo le paure di crescere e diventare uomini

Il film “I Vitelloni” del 1953 è il secondo girato da Federico Fellini, di cui ricorre il 31 ottobre il ventinovesimo anno della scomparsa. È una commedia a tratti divertente, a tratti triste e anche disperata, osservata con comprensione ma non senza capacità di giudizio dal protagonista Moraldo, interpretato da Franco Interlenghi.

Ambientato nella città del regista, narra le vicende di cinque uomini, giovani ma non più ventenni, alle prese con una vita di provincia monotona, ma alla quale non riescono e, in fondo, non vogliono rinunciare.

C’è Fausto, il bello e cinico donnaiolo del gruppo, che si vede costretto a sposare Sandra e a trovare un lavoro quando si scopre che aspetta un figlio da lui; Leopoldo, l’intellettuale che continua pigramente a scrivere e rimaneggiare un’opera teatrale. Alberto (un Sordi al secondo film con Fellini, dopo lo “Sceicco Bianco”) è un mammone perdigiorno che critica la sorella, unica fonte di reddito della famiglia, per la sua relazione con un uomo sposato.

C’è Riccardo e c’è appunto Moraldo, fratello di Sandra e quindi genero di Fausto. Vediamo i vitelloni che si fanno beffe della “matta” del quartiere, che stanno sul molo a guardare il mare in inverno o che prendono il sole all’esterno del loro bar. “Poca vita, sempre quella”, come avrebbe cantato Lucio Dalla in “Anna e Marco”.

La figura centrale è come detto Moraldo. Timido e ingenuo, osserva imbarazzato alcune trovate dei più esuberanti amici; li asseconda e li perdona, come quando abbassa gli occhi per non guardare il cognato Fausto corteggiare senza vergogna altre donne. Sul suo viso non si spegne mai il taglio di sorriso con cui segue i compari, ma lentamente si fa strada in lui il desiderio di voltare pagina.

Una notte, tornando a casa dopo una serata in compagnia, si ferma a parlare con Guido, ragazzino che invece sta recandosi fischiettando in stazione, dove lavora come fattorino-tuttofare. Gli chiede se è contento, e il ragazzo fa una smorfia, ma risponde: “beh, si sta bene”. Moraldo si confronta con una persona ben più giovane di lui, che già affronta la vita dura di chi si alza sempre alle tre, ma lo fa con realismo e di buon grado.

Gli toglie il berretto da lavoro e se lo mette in capo; i due ridono ed è il più grande che si incarica di dedicare un momento del loro incontro al gioco.

Da corda al cognato vanesio e lo aiuta addirittura a rubare un arredo sacro dal negozio dove lavora e da dove è stato licenziato dopo che ha insidiato la moglie del proprietario. Rassicura pateticamente Sandra sulla serietà del marito, ma quando lei scappa con il bimbo dopo l’ennesima impresa fedifraga, a Fausto che dice “se si è buttata in mare mi uccido!” risponde: “non lo farai mai, sei un vigliacco!”.

Il gruppo di amici è incapace di cambiare, ed è proprio Moraldo che realizza che, per crescere, bisogna partire. E così fa una mattina, salendo su un treno per chissà dove. Guido, il giovane fattorino, lo saluta con il volto illuminato dal sorriso, e quando il treno ha lasciato la stazione, si mette a camminare in equilibrio su una rotaia, riappropriandosi per un breve momento del suo diritto a giocare. Intanto tutti gli altri vitelloni dormono.

La carrellata dei letti con gli amici addormentati è nello stesso tempo tenera e feroce, e il gesto finalmente attivo di Moraldo avrà un’eco nel Nicola di “La meglio gioventù”, che, dopo aver osservato i propri cari vivere e smarrirsi, organizza la cattura della moglie brigatista, per impedirle di farsi e fare del male.

La bonaria ferocia di Fellini si ripropone nei forti contrasti nel momento della festa di Carnevale, dove tutti devono divertirsi e perdersi (come se alcuni già non lo fossero) in azioni frivole e ingannatorie, per poi cambiare scena al mattino successivo. Dopo i bagordi c’è solo la desolazione di un altro giorno passato e di uno nuovo da riempire di nulla. Alberto, ubriaco, fissa una testa enorme di cartapesta, decorazione ormai inutile, e forse per un attimo vede sé stesso. Ritorna faticosamente a casa, aiutato da Moraldo, e trova la sorella che scappa con il suo amore impossibile. È la tragedia: Alberto consola la madre ma in lui si fa strada la consapevolezza che dovrà trovarsi un lavoro.

E ancora contrasti nelle profonde differenze tra Fausto e il padre, persona povera ma orgogliosa e piena di dignità che, una volta che la nuora Sandra è riapparsa, accoglie il figlio a cinghiate. Alla scena è presente l’ex datore di lavoro di Fausto, che porge la mano al genitore sconsolato dalla vacuità del figlio e gli dice con rispetto: “onoratissimo!”.

“I Vitelloni” non ha avuto immediato successo; la sua fama è cresciuta nel tempo; Martin Scorsese ha detto di essersi ispirato al film per le dinamiche tra criminali di “Quei bravi ragazzi”, e Stanley Kubrick lo ha definito semplicemente il “mio film preferito”. I personaggi assurgono a tipi universali; non c’è quasi traccia di cadenze dialettali, e la pellicola, come spesso accade in Fellini, non è nemmeno girata nella sua città natale. Come in altri suoi lavori, la bugia e il sogno sono sempre in agguato, mezzi espressivi principali del Maestro per raccontare la sua verità.

Danilo Gori

RAMBO HA QUARANT’ANNI. MA VA FORTE COME ALLORA.

RAMBO HA QUARANT’ANNI. MA VA FORTE COME ALLORA.

RAMBO HA QUARANT’ANNI. MA VA FORTE COME ALLORA

Nell’ottobre del 1982 esce il film che rivoluziona il genere avventuroso. Sospeso tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, grazie all’interpretazione di Sylvester Stallone diverrà un classico assoluto.

They drew first blood, not me”, “hanno sparso loro sangue per primi, non io”. Così risponde l’ex berretto verde John Rambo al suo superiore, il colonnello Trautman, che lo accusa di aver causato alcuni danni. In “First blood” romanzo pubblicato nel 1972, l’attenzione è dunque posta su chi colpisce per primo, ossia lo Stato; la società ne utilizza la forza per controllare gli impulsi devianti, non volendo togliere il velo che copre ma non nasconde le cause di tale devianza, mentre il reduce di guerra è uno psicopatico violento, una macchina da guerra che ha perso il lavoro, ed ora è inutile e pericolosa per gli altri.

Ma il film tratto dal libro non vede la luce subito.

Sylvester Stallone è già arrivato al secondo capitolo della saga di Rocky. È ormai una star planetaria, ma non vuole ora essere identificato solamente con il ring. Si mette alla ricerca di una sceneggiatura che ne esalti la figura e lo lanci definitivamente come attore completo; inoltre ha rifiutato il ruolo del reduce dalla guerra del Vietnam in “Tornando a casa”, film che pochi anni prima aveva portato il protagonista Jon Voight (e Jane Fonda) al premio Oscar. È un errore cui deve porre rimedio.

L’ambizione di Sly incontra l’intuizione di Mario Kassar e Andrew Vajna, i boss della Carolco, casa di produzione che ha rilevato i diritti per la trasposizione cinematografica del romanzo di David Morrell. I due vogliono puntare sul tema dell’underdog, dell’escluso reietto dalla società corrotta che trionfa contro ogni previsione.

Il topic sta diventando un classico in quel periodo: del 1984 è “The Karate Kid” che ha come protagonista Daniel Larusso il ragazzo italo-americano che diventa superkarateka (e come regista John Avildsen, quello di Rocky); del 1983 è “Stayin’ alive” sequel de “La febbre del sabato sera” con Tony Manero che, da guinea in fuga dalla New York “sbagliata” nel 1977, diventa star di Broadway (e la regia è, guarda caso, del buon Sylvester).

E dunque chi meglio dell’interprete dello Stallone Italiano può ripagare lo sforzo economico della Carolco?

Eppure, dopo che il passaggio dei diritti tra diverse case di produzione, i ripetuti cambi di registi, attori principali ed antagonisti e i numerosi rimaneggiamenti della sceneggiatura abbiano fatto guadagnare al progetto una aura di film problematico, anche Sylvester Stallone rinuncia. Accetta solo quando gli viene accordata la facoltà di riscrivere la sceneggiatura.

Così, pur mantenendo il titolo del romanzo, l’attore punta tutto su Rambo.

L’opera pone le basi degli action movie del decennio: imprese sovrumane, figure iconiche e laconiche, torti da vendicare e cattivi sempre meno sfaccettati e sempre più determinati nella loro cattiveria; il vice sergente Galt in questo caso è particolarmente sadico.

Rambo invece è l’esercito di un solo uomo. Si può dire che senza l’eroe di Stallone non avremmo avuto Jean-Claude Van Damme, Dolph Lundgren e i vari Die Hard, e gli anni Ottanta non sarebbero stati ricordati, tra le altre cose, come gli anni che hanno rivoluzionato il genere.

Stallone, infatti, comincia con questo film a ritagliare, per sé e per i suoi colleghi la figura di personaggio solitario, silente e sempre meno espressivo; la sua comica umiltà del primo film del pugile di Philadelphia si squaglia, così come restano poche tracce di ironia (quando assale un mezzo dell’esercito ed espelle il pilota: “Guarda la strada, è così che accadono gli incidenti”).

Le scene della fuga nei boschi sono straordinarie e coinvolgenti, e il protagonista si mostra subito a suo agio nella guerriglia; scappa da ogni trappola e i suoi inseguitori lo credono morto. Solo Trautman capisce, non senza personale soddisfazione, che Rambo è ancora vivo.

Il contrasto tra le scene di guerriglia e quelle in cui viene pretestuosamente arrestato per vagabondaggio è però evidente. Rambo, almeno nel primo film della serie, non appare affatto come un eroe senza macchia. È fragile, terrorizzato, devastato dal suo passato, e non comprende come possano i suoi connazionali trattarlo come un appestato e contestargli l’essere un assassino di civili inermi; come possa essere un indesiderato persino dalle forze dell’ordine.

L’ex berretto verde è ancora legato all’humus culturale del decennio precedente che ci ha regalato opere come “Quel pomeriggio di un giorno da cani” con Al Pacino e John Cazale. La società si vergogna di questi reduci, e li tiene fuori dall’uscio di casa. Nella scena finale lo sguardo perso di John verso gli abitanti della cittadina da lui devastata ricorda proprio quello di Al Pacino/Sonny arrestato all’aeroporto.

In questo il personaggio di Stallone (e ovviamente non di Morrell) è ancora sospeso tra i due decenni e paga il tributo a figure come il Travis Bickle di “Taxi Driver”, o anche proprio il Bob Hyde di “Tornando a casa”.

La complessità e le lacerazioni interiori lasceranno spazio nei sequel alla totale dedizione verso la causa (la ricerca di soldati prigionieri in Vietnam e il sostegno alla guerriglia afghana); il presidente Ronald Reagan loderà i film successivi, vedendo in Rambo il simbolo del militare americano, che nel terzo capitolo si accanisce contro una delle più stereotipate edizioni del soldato sovietico. Nel terzo film della saga Rambo, pur rimanendo diversissimo, strizza l’occhio al Michael Kirby di “Berretti Verdi” del 1968, interpretato da John Wayne, mai così agghindato come uno Zio Sam ultraconservatore.

Siamo però nel 1988 e questa iconografia è ormai agli sgoccioli. Dello stesso anno è il film “Danko” dove Arnold Schwarzenegger è un poliziotto in trasferta a Chicago, discretamente robotizzato ma simpatico e ben assortito con il collega yankee Jim Belushi. Il mondo sta cambiando.

La carica profondamente umana in esso trasfusa fa di “Rambo” un film che si lega al suo periodo storico e al tempo stesso ne travalica i confini, mantenendo il suo fascino e la sua forza espressiva ancora oggi. Al di là di ogni etichetta, John Rambo è un eroe universale, la sua lotta per la sopravvivenza lo ha portato fino a noi intatto nel carisma e nel messaggio.

Danilo Gori

US OPEN: una vittoria… Carlito’s way!

US OPEN: una vittoria… Carlito’s way!

US OPEN: Alcaraz, una vittoria… Carlito’s way!

Nell’ultimo major dell’anno infuria la lotta tra i possibili successori dei big three; a spuntarla è il giovanissimo tennista di Murcia, Carlos Alcaraz.

Que viva Alcaraz!

Si conclude il magico giro del mondo che ogni anno parte a gennaio da Melbourne per arrivare a settembre a New York, passando in estate per Parigi e Londra. Sono le città che rappresentano i paesi con le tradizioni tennistiche più importanti e che più indietro nel tempo affondano le proprie radici.

Nel giorno di sabato 10, canonicamente dedicato alla finale femminile, ai lati del campo centrale gli organizzatori fanno scrivere la data fatidica: 9/11/2001, il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle. La finale maschile dell’edizione 2022 del torneo ha coinciso con la triste ricorrenza. È stata l’edizione di un americano in semifinale (non accadeva da diciannove anni); Frances Tiafoe, brillante giocatore del Maryland, ha eliminato Nadal. Ma anche di Casper Ruud, il norvegese atipico che non si diletta di sci di fondo, ma si fa un nome come racchettatore e si spinge fino alla finale. E di Sinner, sempre più determinato e completo.

Tutti bravi, ma non abbastanza per vincere nella Grande Mela.

Nel 2022 i nomi di Nadal e Djokovic sono entrati per l’ennesima volta negli albi d’oro delle prime tre tappe; ma nell’ultimo atto un nome nuovo ha avuto la meglio su tutti, e si propone come numero uno mondiale: Carlos Alcaraz.

Abbiamo seguito le sue vittorie a Madrid e Barcellona sulla terra, e a febbraio anche la sua affermazione sul cemento di Miami. A Parigi ha perso nei quarti, e a Wimbledon si è arreso al nostro Sinner, contro il quale si è vendicato nei quarti a Flushing Meadows. Non ha brillato in agosto, ma ha ricaricato le batterie per presentarsi a Flushing con la giusta tensione. Ha perso sette set complessivi; per tre volte è andato alla quinta partita, che ogni volta ha vinto 63; ha annullato una palla-match, come diremo tra poco. Ha sofferto, ha perso punti incredibili ma ne ha anche vinti, sempre deciso a cancellare dalla testa tutto subito, per rituffarsi nello scambio seguente con rinnovata fame di vittoria.

Difficile pensare che possa vincere come il suo connazionale Nadal, ma di sicuro il futuro di Alcaraz è già qua, e parecchie altre volte lo vedremo trionfare.

Il torneo maschile ha visto nei quarti i due protagonisti italiani uscire con onore. Ma mentre Berrettini è stato battuto nettamente da Ruud, Sinner ha perso una battaglia memorabile proprio contro il vincitore della manifestazione.

La sfida tra i due giovani (21 anni Jannik, 19 Carlos!) ha stabilito il record di durata per una partita giocata in notturna: circa cinque ore e un quarto. È terminata dopo le due di notte, ora locale.

Jannik è stato il giocatore che più di tutti ha messo Alcaraz con le spalle al muro. Dopo una partenza favorevole all’iberico, Sinner ha vinto il secondo e il terzo set al tie-break. Nel quarto set si è conquistato un matchball, che però non è riuscito a convertire. Nella quinta e decisiva frazione ha strappato il servizio al suo avversario, ma ha anche esaurito il carburante, subendo un parziale di cinque giochi consecutivi che ha spianato allo spagnolo il passaggio del turno.

A fine partita grandi abbracci e fair-play tra i contendenti, che si conoscono e sono amici dagli albori junior delle loro carriere. Sui social diversi addetti ai lavori hanno riconosciuto nella sfida uno dei confronti che maggiormente caratterizzerà il tennis nel prossimo decennio. Sperém, ovviamente contando su di un finale differente, di tanto in tanto almeno.

Nelle semifinali la maggiore solidità di Casper Ruud ha la meglio su un Kachanov già contento di essere arrivato sin lì, mentre Alcaraz vince il terzo incontro consecutivo al quinto set, stavolta con il già citato Tiafoe. In finale l’infante di Spagna prevale su Ruud in quattro set, vacillando nel secondo ma imponendosi di forza nel quarto.

Il torneo femminile, dopo aver vissuto una prima parte densa di rivolgimenti e di teste coronate in disgrazia anzitempo, ha prodotto la finale più credibile in questo momento. Da una parte la polacca Iga Swiatek, numero uno mondiale e vincitrice a Roma e a Parigi, dall’altra Ons Jabeur, tunisina, sempre più un simbolo per il suo paese e per il mondo arabo; quest’anno si è imposta a Madrid e ha perso le finali di Roma e di Wimbledon.

L’incontro decisivo ha confermato le attuali gerarchie; la Swiatek ha dominato il primo set ed è salita tre a zero nel secondo. Ha quindi subito il ritorno dell’atleta nordafricana, che nel tie-break ha avuto una palla per vincere la frazione. La numero uno del mondo l’ha cancellata con un dritto straordinario a uscire che ha baciato la linea laterale. Poi, complici due errori della Jabeur, è giunto il trionfo per Iga, che ha avuto l’onore di ricevere la coppa dalle mani della grandissima Martina Navratilova.

Menzione per la nostra Camila Giorgi: ha perso al secondo turno contro l’americana Madison Keys, assai forte. Camila non ha saputo amministrare un vantaggio di 5 a 2 nel set decisivo, e ha ceduto al tie-break. Peccato, bella difesa ma soprattutto occasione persa.

Ora spazio all’ultima fase della stagione, con una corsa tra i migliori per raccogliere punti validi per la qualificazione alle ATP finals in programma dal 13 al 20 novembre a Torino: i migliori otto dell’anno per una settimana di tennis scintillante all’ombra della Mole. Berrettini e Sinner hanno ancora delle chance di arrivare nella griglia di partenza, ma non devono commettere troppi passi falsi: la concorrenza è spietata.

Prima però spazio alla Coppa Davis; a Bologna dal 13 al 18 settembre Italia, Croazia, Svezia e Argentina si sfidano per definire le due squadre che parteciperanno alla fase finale a Malaga, a casa di Nadal e Alcaraz, in novembre. In primo piano per la nostra nazionale, nemmeno a dirlo, Matteo Berrettini e Jannik Sinner. Forza Azzurri!

Danilo Gori

US OPEN: Matteo Berrettini e Jannik Sinner, italians a go-go!

US OPEN: Matteo Berrettini e Jannik Sinner, italians a go-go!

US OPEN: MATTEO BERRETTINI E JANNIK SINNER: ITALIANS A GO-GO!

I due italiani protagonisti nelle prime giornate del torneo, mentre Serena Williams si ritira dalla bagarre e viene celebrata da tutto il suo mondo.

Prima settimana del torneo newyorchese: allo US Open conferme, novità e storie belle belle. Quella che si prende la copertina si chiama Serena; sabato 3 settembre la sconfitta patita dall’australiana Tomljanovic ha posto fine alla sua impareggiabile carriera.

La campionessa ha superato due turni: nel secondo match ha sconfitto l’attuale numero due del mondo, la estone Anett Kontaveit: ha giocato il suo miglior incontro degli ultimi anni ed è stata sospinta da un pubblico che ha tifato anche palesemente contro la sua avversaria. Anett si è lamentata di questo e ha pianto durante la conferenza stampa, ma la realtà è che Serena l’ha sovrastata nella personalità prima ancora che nel gioco. 

Il comportamento della audience mi ha ricordato l’edizione del 1991, quando il trentanovenne Jimmy Connors riuscì a issarsi fino alle semifinali orchestrando gli spalti come un vero gladiatore. Nel match contro l’olandese Paul Haarhuis un suo passante di rovescio in avanzamento è da molti considerato il punto più entusiasmante nell’intera storia del torneo; anni dopo, durante un’intervista, l’olandese dirà: “non ho mai sentito un baccano simile su un campo da tennis, né più lo sentirò”.

Ho divagato. Tutti i colleghi di Serena, più o meno titolati, hanno celebrato sulle rispettive pagine social il ritiro della regina nera. Personalmente credo che il suo impatto sulla popolarità del tennis femminile sia avvicinato solo da quello impresso sul movimento da Martina Navratilova, che fuggì a 19 anni nel 1975 dalla nativa Cecoslovacchia. Da Martina a Serena, ovvero quando i confini dello sport sono troppo stretti per personaggi che entrano nell’immaginario collettivo.

Protagoniste del torneo femminile? Detto della Williams, per il resto a regnare è il caos! Tutte battono tutte, le certezze di ieri non sono quelle di oggi, e probabilmente domani sarà un altro giorno…

Rossella O’Hara a parte, ci sono sorprese in tutti i turni e troppe sorprese equivalgono a nessuna sorpresa; per evitarvi il tedio di una nuova riproposizione della parola aserpros (scritta alla rovescia, così non entra nel computo), diciamo che, come peraltro già in passato indicato, l’uniformità del gioco moderno ha indebolito le gerarchie. In ogni torneo dello Slam possiamo considerare come minimo dieci giocatrici in grado di vincere; entro il secondo turno quest’anno sono uscite ben sette vincitrici di tornei dello Slam, dato senza precedenti, che dimostra la volatilità delle classifiche attuali.

Quanto descritto si traduce in uno statu quo difficile da gestire dal punto di vista finanziario per l’Associazione Tennis Femminile (WTA), che ha bisogno assoluto di nuove figure vincenti che trainino il circuito. L’associazione inoltre ha cancellato tutti gli eventi in Cina, a seguito della vicenda drammatica che ha coinvolto la tennista cinese Shuai Peng. La giocatrice ha denunciato sul proprio blog durante lo scorso novembre di essere stata oggetto di violenza sessuale da parte di un dirigente del tennis cinese, e per alcuni giorni è scomparsa. In seguito, sono stati diffusi video apparentemente rassicuranti dell’atleta, ma ancora non è stato possibile alla WTA contattarla direttamente. Da qui la decisione in merito alle competizioni in Cina, che però toglie introiti importanti.

Tornando agli US Open, a mio parere le tenniste che agli ottavi di finale sembrano avere qualcosa in più da mettere sul tavolo negli ultimi turni sono, oltre a Iga Swiatek, campionessa a Parigi e numero uno della classifica, Ons Jabeur, vincitrice a Madrid, e le americane Pegula e Gauff. Senza dimenticare la francese Garcia.

Il titolo comunque parla di italiani, e quindi… parliamone! Pur giocando a corrente alternata, Berrettini e Sinner hanno raggiunto gli ottavi di finale. Nella sera di domenica 3 Matteo è sceso in campo e si è qualificato per i quarti di finale superando in cinque set lo spagnolo Davidovich-Fokina. L’italiano ha commesso diversi errori di diritto e con il servizio, ma ha gestito meglio del suo avversario i momenti più delicati del match. Lunedì sarà la volta dell’altoatesino, che è favorito contro il russo Ivashka. Il traguardo di due nostri rappresentanti negli ultimi otto in gara agli US Open è tutt’altro che impossibile.

Nel torneo maschile Rafa Nadal è l’osservato speciale numero uno. Si è qualificato per gli ottavi; le sue condizioni fisiche lasciano ancora più di un dubbio, ma, nella terza partita della settimana ha giocato assai bene, confermando l’attitudine dei grandi campioni di andare in crescendo negli appuntamenti più importanti.

Il suo primo avversario è il russo Medvedev, il vincitore dell’ultima edizione. Ha passeggiato nelle prime tre partite, ma nella notte tra domenica e lunedì affronterà Nick Kirgyos, che dopo la finale di Wimbledon ha intenzione di continuare a giocare con la stessa intensità. Il quadro si completa con il passaggio agli ottavi di Carlos Alcaraz, mentre Tsitsipas ha mandato in campo una sua sbiadita controfigura, ed è stato eliminato al primo turno da un giocatore di secondo piano.

Con la seconda settimana lo US Open entra nel vivo degli incontri decisivi, per arrivare alle finali del prossimo fine settimana. A lunedì quindi, per leggere di vincitori e vinti!

US Open: ciak si gira, il tennis nella Grande Mela

US Open: ciak si gira, il tennis nella Grande Mela

US Open: ciak si gira, il tennis e la Grande Mela

Comincia lunedì 29 l’ultima prova dello Slam, tra italiani agguerriti, assenze eccellenti, ritorni, addii e… lieti eventi

Il nostro racconto della stagione tennistica si era interrotto a Londra, con gli applausi per Djokovic e Rybakina, re e regina di Wimbledon; eccolo riprendere a New York, dove lunedì 29 ha inizio lo US Open!

Il sole piacevole, le nuvole inglesi agilissime a celarlo e mutevoli, a volte caricate a salve e a volte piene d’acqua. I riti e le liturgie dei luoghi sacri dello sport, la noblesse du tenis. Beh, dimentichiamo tutto.

Ora comanda l’afa insopportabile di fine estate della east coast, con una superficie, il cemento, che amplifica il caldo percepito dagli atleti. Il pubblico americano si muove, compra da mangiare e torna sugli spalti in ritardo; il giudice di sedia lo richiama più volte “take your seats quickly please”. Non vive nulla di sacro, vede piuttosto un grande show, uno dei tanti nella città di Broadway. Insomma, gente indisciplinata ma divertente.

Cenni di storia: il complesso di Flushing Meadows viene inaugurato nel 1978: il vecchio Forest Hills, nel cuore del Queens, ospita in due distinti periodi ben sessanta edizioni degli US Open, con in aggiunta ben dieci finali di Coppa Davis. Ma negli anni Settanta non basta più per contenere la crescita di pubblico.

Nel 1974 si gioca per l’ultima volta sull’erba, e vince Jimmy Connors; nei tre anni successivi viene scelta la terra verde, più veloce di quella rossa europea. Ma urge una nuova struttura, moderna e soprattutto più capiente. E gli americani erigono Flushing; manco a farlo apposta, vicinissimo all’aeroporto “Fiorello La Guardia”: ogni minuto si alza un aereo, con costante disturbo per la concentrazione dei tennisti. Nel 1978 si gioca sul cemento, scelta seguita fino ai giorni nostri; Adriano Panatta nei quarti apparecchia il suo tennis migliore, ma Connors, che poi vince il titolo, lo beffa sul traguardo con un passante di rovescio a una mano considerato ancora oggi uno dei colpi più belli nella storia del torneo.

Il sindaco Dave Dinkins interviene e nel 1990 ottiene il cambio delle traiettorie aeree per insonorizzare (si fa per dire) il torneo. Well done Dave, tutti i vincitori da lì in poi ti devono qualcosa!

Il Campo Centrale è dedicato ad Arthur Ashe, leggendario atleta di colore, campione nel 1975 di Wimbledon e di intelligenza contro un furioso Connors (sempre lui!); è lo stadio del tennis più grande del mondo.

 

Vicino ad esso l’arena dedicata a Louis Armstrong, omaggio al divino trombettista e alla personalità culturale che trascende l’ambito e la nazionalità. Ma, se si vuole sorridere un po’, possiamo di nuovo pensare a come gli americani approcciano lo sport. Boris Becker trionfò nel 1989, e disse: “vincere qui è incredibile. A Wimbledon è di rigore il silenzio? A New York uno potrebbe suonare il sassofono nelle prime file, e nessuno avrebbe da ridire.”. D’altronde, non è forse nato qui negli anni Settanta il World Tennis Team, una competizione a squadre, già una forzatura in uno sport individuale, dove i tennisti potevano essere sostituiti come nel calcio, e il pubblico poteva tifare – orrore – durante gli scambi?

I più grandi vincitori degli US Open sono Jimmy Connors, Pete Sampras e Roger Federer, tutti con cinque allori; tra le signore Chris Evert e Serena Williams, sei volte ciascuna a segno. Il risultato più importante di un italiano nel torneo è la semifinale raggiunta da Berrettini tre anni or sono, finita con la vittoria netta di Rafa Nadal.

Prima di lui semifinale anche per Corrado Barazzutti nel 1976; perse da Connors, e il match è rimasto famoso per un punto, un colpo di Jimbo che Corrado riteneva fosse out. Prima ancora che il giudice si avvicinasse per controllare il segno (si giocava sulla terra), l’americano passò la rete e cancellò la traccia con il piede, davanti all’attonito “barazza” . Il pubblico lo travolse con dei sonori buu e il giudice arbitro disse qualcosa come “non si fa così Mr. Connors”, in pratica perdonandolo. Avrebbe vinto comunque, però fu un tantino cafone.

Tra le donne invece c’è l’indimenticabile finale del 2015, che si trasformò in una strapugliese tra la tarantina Vinci e la brindisina Pennetta, con quest’ultima che alza la coppa.

Come è andata l’estate tennistica? Dopo Wimbledon luglio ha vissuto l’ultimo scorcio di terra rossa vacanziera, a Umag in Croazia e Gstaad in Svizzera, con i nostri portacolori sugli scudi. Berrettini finalista in Svizzera, Sinner vincitore in Croazia e Musetti ad Amburgo. In agosto il cemento americano è stato meno generoso con gli italiani e ha visto vincere a Cincinnati due giocatori risorti dopo periodi tribolati: Borna Coric e Caroline Garcia. Protagonisti in più per lo Slam newyorchese.

 

Non mi sottraggo al gioco dei favoriti: un pronostico errato in più non può compromettere oltre la mia fama di esperto (ah ah!). Tra i maschi non c’è Djokovic, la cui avversione ai vaccini continua a non piacere lontano dall’Europa (non poté entrare nemmeno in Australia); Nadal ha l’unico dubbio nell’integrità fisica, poi Medvedev, campione uscente. Alcaraz sta tornando dopo un luglio sottotono, Tsitsipas sta giocando benissimo. Italiani: Matteo Berrettini, Jannik Sinner e Lorenzo Musetti sono teste di serie, speriamo arrivino agli ottavi, e poi si vedrà. Forza ragazzi!

Tra le femminucce, Iga Swiatek dopo Parigi ha vissuto soprattutto delusioni; le più in forma sembrano Simona Halep e le americane Pegula e Gauff. Possibili sorprese? La brasiliana Haddad Maia e la russa Kasatkina.

L’edizione in avvio vivrà la commozione di un addio pesante: Serena Williams, una delle più grandi di sempre, si ritira o, come preferisce dire lei stessa, evolve. Nessuna ha vinto più di lei; la sua storia, recentemente narrata in un film con Will Smith nella parte del padre suo e della sorella Venus, si identifica con quella dello spirito a stelle e strisce, della determinazione ferrea di chi vuole arrivare contro tutti e tutto. Straordinaria ambasciatrice dello sport, giocherà l’ultima palla nello stadio dedicato ad un’altra icona black del gioco, quell’Arthur Ashe a sua volta protagonista dell’emancipazione negli anni Settanta.

Il resto è felicità: quella di Petra Kvitova, due titoli a Wimbledon, che annuncia il suo presto sposi; quella di Angelique Kerber, tre coppe Slam, che avvisa tutti: “non partecipo agli US Open, non sarebbe corretto giocare due contro uno”. Capita, quando ti accorgi di essere in dolce attesa.

I migliori auguri a loro, che per un po’ appoggiano la racchetta sul comodino. Un “buon tennis” ai colleghi che invece se la tengono ben stretta in mano, pronti ad usarla come sanno a Flushing Meadows; duecentocinquantasei protagonisti, in scena da lunedì. A chi gli Oscar? Lo sapremo alla fine della… quinzaine (deciditi: è l’Oscar o la Palma d’Oro?). Insomma: pronti, partenza, via!