“Pensavano fossimo un bluff” e invece il rap italiano ha fatto strada…il nuovo libro di Piotta
Il nuovo libro del rapper romano Piotta ha una caratteristica fondamentale: è vero. Una genuinità che racconta al meglio la nascita di un movimento che in Italia era sempre racchiuso in una frase “sempre a copiare gli americani”…
Sono passati anni dai tempi de “La grande onda“. Anni da quando la Roma del rap sfornava talenti rudi, diretti e genuini. Prima della trap, prima di quel ritorno a rime “violente”, ritmi meno hip e molto electro pop c’erano loro (e ci sono ancora eh, per quanto il tempo abbia fatto salire alla ribalta altri “autori”): i Cor Veleno, Noyz Narcos, Flaminio Maphia e lui, Piotta, gli idoli di una adolescenza di tutti quelli che cantavano, si atteggiavano e non sapevano che molte delle parole che usavano erano le loro. Supercafone, Ragazze Acidelle, Tigre,Tigre, La grande onda: miti di un’infanzia che rivorremmo e che non tornerà.
Un’infanzia di miti, vissuta tra radio, televisioni e primordiali collegamenti a internet, con una Youtube ricca di video sgranati, pochi pixel, ma tanta fantasia. E a raccontare quest’età d’oro del rap romano (e italiano) ci pensa proprio Piotta, al secolo Tommaso Zanello, che adesso, alla soglia dei 50 anni (no, non ci rassegneremo mai a questo, ndr.) pubblica il suo terzo libro. S’intitola “Il primo re(p), alle origini del rap italico” e rappresenta il viaggio del rapper romano in un mix tra la sua vita e quella del rap romano (e non solo).
Le orgini di un mito in fondo, le basi che hanno permesso oggi, dopo 20/30 anni, di avere riconosciuto quello che non è più solo un genere musicale da “strada”, ma anche una forma di poesia generazionale (con tutti i dovuti cambiamenti accorsi durante gli anni).
La storia personale che si intreccia con quella del rap. “Mi hanno chiesto un libro che raccontasse la storia del rap in Italia attraverso la mia vita. È proprio il mio ricordo personale, emotivo, della mia famiglia, della mia città in quegli anni, del mio liceo e anche di questa prima scena rap italiana che nasceva per gioco e per passione, con il sogno che sarebbe diventato, chissà, un lavoro“, ha raccontato Piotta ad Agi (per leggere l’intervista completa potete cliccare qui).
Da Roma all’espansione. “Ho ricordi bellissimi di quella Roma lì – continua – era unica, perché rispetto a quella di oggi, non c’era la rete per avvicinare queste realtà, ma ognuna di queste realtà aveva un proprio linguaggio, ascoltavi i dischi dei tuoi colleghi di altre città e sentivi utilizzare parole che non conoscevi, alle volte serviva proprio prendere il telefono e chiamare: “Ma questa cosa qui esattamente che vuol dire? Cosa intendete?”; c’era proprio uno scambio linguistico. Però ce n’è voluta, non ci credevano che si potesse fare musica di qualità usando termini come “Spaccà, Nnamo, zì…”. E invece…
Un discorso che, visto sotto la giusta luce, potrebbe anche essere fatto per gli autori di oggi. Che cosa pensa Piotta a riguardo?
“Non vorrei che la distanza anagrafica rendesse il giudizio un po’ troppo austero, ma questa sensazione ce l’ho anche io. Però ci muoviamo in un contesto del tutto differente a quello anche solo di vent’anni fa, perchè banalmente la mancanza della rete faceva si che quello dei ’90 fosse un mondo molto più simile a quello dei ’70 rispetto al nostro, perché c’è stato un gap tecnico e soprattutto spazio temporale (nel senso che è tutto immanente, quello che esce qui è già a New York sia nei suoni che nelle parole e nelle immagini). Io alle volte ascolto canzoni e mi verrebbe da prendere un vocabolario, ma in quale lingua? Sento utilizzare terminologie americane che noi non abbiamo mai usato anzi, ti dirò di più, quei pochi artisti italiani che usavano uno slang americano, perché pensavano che così potesse essere una traduzione più consona dell’hip hop, noi li dileggiavamo, perché ci sembrava invece un feticcio brutto, cioè prendere una cosa che non è proprio tua. Ci sembrava poco rispettoso nei confronti del contesto dal quale veniva strappata“, ha sottolineato a Gabriele Fazio di Agi.
Scelte opposte rispetto a quelle del rapper romano. “Si, mi sono impegnato nel prendere costantemente parole utilizzate a Roma per metterle in un tessuto linguistico che andava da una citazione altissima ad una molto più bassa e popolare, dal cinema d’autore ai B-Movies, fino al fumetto e alla letteratura“, dichiara.
Scelte simili a quelle fatte da altri artisti negli anni successivi, da Willie Peyote a Caparezza…
“Willie Peyote è un artista carismatico e che ha spessore, che non pensa a chi potrebbe copiare, anche di semi sconosciuto, per portarlo in Italia; no, io sono io, penso a chi sono io, chi voglio essere io, che voglio fare io. La sfida è con te stesso. Per cui a me artisti come Guglielmo, come Caparezza, mi piace come ragionano, fanno cose diverse da me ma senti che sono un unicum“.
Insomma, a noi non resta che consigliarvi di leggere il libro di Piotta. Con una lacrimuccia per un’era che ci siamo goduti e che abbiamo apprezzato forse troppo tardi…
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Francesco Inverso
Quando scrissi la prima volta un box autore avevo 24 anni, nessuno sapeva che cosa volesse dire congiunto, Jon Snow era ancora un bastardo, Daenerys un bel personaggio, Antonio Cassano un fuoriclasse e Valentino Rossi un idolo. Svariati errori dopo mi trovo a 3* anni, con qualche ruga in più, qualche energia in meno, una passione per le birre artigianali in più e una libreria colma di libri letti e work in progress.
Sbagliando si impara…a sbagliare meglio.