Gregor J. Mendel: la teoria dell’ereditarietà dei caratteri
Se oggi può sembrare familiare imbatterci anche nel linguaggio comune in termini come DNA, genetica, ereditarietà, altrettanto non era fino a due secoli fa. Quelli che per noi oggi sono concetti forse scontati, furono una delle più sensazionali scoperte della biologia nell’ambito dello studio dell’ereditarietà dei caratteri umani. A chi, e come, dobbiamo il merito di queste scoperte?
Una mente poliedrica
A tutti quanti almeno una volta nella vita sarà capitato di sentirsi dire “assomigli proprio al papà”, oppure “hai gli occhi della nonna”: insomma, sapere di aver ereditato un qualche carattere da un parente più o meno stretto. Se per noi oggi risulta abbastanza scontato, non poteva dirsi altrettanto agli inizi del XIX Secolo. La formulazione di concetti quali ereditarietà dei caratteri, e successivamente di genetica e DNA la dobbiamo, infatti, agli studi intrapresi a cavallo tra prima e seconda metà dell’Ottocento dal matematico e biologo ceco Gregor Johann Mendel.
Chi era costui e soprattutto, come arrivò a questa significativa scoperta?
Gregor Johann Mendel nasce nel 1822 nell’attuale Repubblica Ceca. Terminati gli studi superiori, decide di prendere i voti ed entrare in monastero, dove condurrà il resto della propria vita sino alla morte, avvenuta nel 1884. Parallelamente alla vita di monaco, frequenta le facoltà di biologia e matematica presso l’Università di Vienna, affermandosi sulla scena scientifica internazionale. Una fervida curiosità e spirito di osservazione, lo portano a intraprendere studi in merito all’eredità biologica dei caratteri a partire da alcuni esperimenti svolti sulle piante di piselli nel giardino del monastero.
Dagli esperimenti condotti, deriveranno conseguenze importanti, in quanto Mendel riuscirà a formulare quelle che oggi sono meglio note come leggi della trasmissione ereditaria dei caratteri, alla base della moderna genetica. È bene tenere a mente che con Mendel tuttavia non si può ancora parlare propriamente di genetica, disciplina che prenderà forma compiuta solo a partire dal 1906 attraverso l’opera di William Bateson.
La formulazione della teoria
Mendel dovette il successo della propria teoria anche al fatto che per la prima volta applicò la matematica allo studio della biologia attraverso l’uso di statistica e calcolo della probabilità.
La tesi di partenza sostenuta dal monaco presupponeva che alla base dell’ereditarietà dei caratteri vi fossero fattori specifici nei genitori.
Gli studi di Mendel presero dunque avvio a partire da osservazioni compiute sulla pianta dei piselli. Essa consentiva, infatti, una serie di vantaggi: facilità di coltivazione, possibilità di controllo dell’impollinazione ed esistenza di numerose varietà. Mendel individuò sette “linee pure”, o varietà di pisello, classificate in base a colori di seme e baccello, forme di seme e baccello, caratteristiche e colore dei fiori, lunghezza dei fusti. Quindi, condusse i propri esperimenti impollinando a sua libera discrezione i fiori della pianta. Numerose furono le impollinazioni effettuate, al fine di poterle meglio classificare.
Per l’impollinazione Mendel partì da due varietà o linee pure di pisello del tutto differenti incrociando le varietà per caratteri specularmente opposti: per esempio una pianta a fiori rossi con una a fiori bianchi, notando che la prima generazione di piante derivante dall’incrocio (F1), presentava solo uno dei caratteri delle generazioni parentali (P), arrivando a concludere che quel carattere potesse dirsi “dominante” rispetto all’altro.
In un secondo momento, incrociò le piante della prima generazione (F1) osservando che, nella successiva generazione (F2), ricomparivano caratteri che in F1 sembravano essere andati perduti. Comprese quindi che quei caratteri non erano scomparsi, ma – semplicemente – erano stati oscurati dai caratteri definiti appunto “dominanti”, e gli attribuì il nome di “recessivi”.
È bene a questo punto introdurre un concetto, che troverà maggiore chiarezza in seguito: l’allele.
Noi oggi sappiamo che il DNA – tanto per le piante quanto per gli esseri umani – è costituito coppie omologhe di cromosomi, ciascuna composta da un cromosoma di origine paterna e dal corrispondente di origine materna. Quindi, in ciascuna coppia di cromosomi, uno dei due riporta una copia del gene di origine materna, l’altro la copia del gene di origine paterna. Queste due copie di geni parentali prendono rispettivamente il nome di alleli (materno o paterno) e condizionano i caratteri ereditati dai figli.
Lo sviluppo della teoria
Dunque a partire dai dati raccolti attraverso gli esperimenti di impollinazione, e meglio interpretati attraverso calcolo della probabilità e uso della statistica, Mendel arrivò a formulare tre leggi:
- legge della dominanza dei caratteri
un incrocio tra individui che differiscono per un solo carattere genera in F1 (la prima generazione) degli ibridi uguali, ossia individui che manifestano solo uno dei fenotipi (o caratteri) dei genitori. Il fenotipo trasmesso, ovvero il carattere parentale trasmesso e manifesto anche nei figli, è chiamato “dominante”; - legge della segregazione
incrociando gli ibridi uguali della prima generazione (F1) gli alleli che controllano un determinato carattere si separano, venendo così trasmessi a cellule sessuali (o gameti) distinte. Quindi il rapporto tra carattere dominante e recessivo nei piselli di seconda generazione (F2), risultava essere: 3/4 di individui con carattere dominante e 1/4 di individui con carattere recessivo. Questo stava a significare che nella generazione F2, ricompariva il carattere oscurato in F1; - legge dell’assortimento indipendente
alleli corrispondenti a due caratteri diversi, si trasmettono alla prole in modo indipendente l’uno dall’altro, generando nuovi fenotipi (o caratteri).
Le leggi formulate da Mendel facevano riferimento a quei caratteri ereditari definiti come caratteri monofattoriali (ovvero determinati da un singolo gene e dei suoi alleli).
Le conclusioni
Le conclusioni cui arrivò Mendel furono quindi che i caratteri apparentemente persi in un determinato passaggio generazionale possono ricomparire in una generazione successiva. Questa affermazione gli consentì di dimostrare che l’eredità non era quindi una semplice mescolanza di caratteri parentali bensì che i caratteri ereditari erano trasmessi come entità distinte, distribuiti e riassortiti in modo diverso in ogni generazione. Per intenderci, da due genitori entrambi castani, potrebbe nascere un figlio biondo se nel patrimonio genetico di entrambi i genitori è presente un carattere “recessivo” di tipo biondo, non manifestatosi nei genitori, ma presente per esempio nei nonni.
La conseguenza di questa intuizione fu la possibilità di affermare l’esistenza di un preciso codice genetico trasmesso per via ereditaria dai genitori ai figli. Le scoperte di Mendel non ebbero tuttavia un immediato successo presso la comunità scientifica, a dimostrarlo fu il fatto che negli stessi anni Charles Darwin formulò una propria teoria sull’ereditarietà ignorando del tutto le formulazioni di Mendel.
Fu solo a inizio Novecento che vennero ripresi gli studi del monaco ceco e integrati alla teoria dei geni di Johannsen, dando avvio a quella che oggi è meglio nota come genetica. Infatti, quelli che Mendel chiamava “caratteri” e che considerava essere trasmessi ereditariamente, erano in realtà derivati dei caratteri stessi, quelli che Johannsen identificò appunto come “geni”.
L’importanza delle conclusioni di Mendel resta tuttavia indiscussa. Le sue scoperte posero infatti le basi per la successiva e più significativa scoperta del DNA, l’impronta genetica caratteristica di ciascun individuo.
Martina Tamengo
U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.
Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.
Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.