Il cinema indiano in Italia: intervista a Selvaggia Velo
Abbiamo avuto il piacere di fare una chiacchierata con Selvaggia Velo per parlare di festival del cinema, cinema indipendente indiano e delle donne. Fiorentina doc, dopo aver vissuto a Parigi e a Bruxelles e laureata a Bologna, fonda il River to River Florence Indian Film Festival, l’unico festival di cinema indiano presente in Italia.
Come è nato il River to River Florence Indian Film Festival e qual è il tuo legame con l’India?
“Inizia tutto nel 1998 con una mostra di manifesti di cinema indiano dipinti a mano. Poi con Sergio Staino, direttore dell’Estate fiorentina – rassegna culturale del Comune di Firenze che si svolge nei mesi estivi, .ndr – nell’anno successivo, si trovò un piccolo budget per portare a Firenze i pittori indiani di questi manifesti per farli dipingere en plein air durante gli eventi dell’estate fiorentina. In quell’occasione fu proiettato un film indiano in VHS. Nell’ottobre del 2001 poi si riuscì a organizzare il vero e proprio festival del cinema indiano, la prima edizione di River to River. Il 2001, per il cinema indiano, fu un anno importantissimo: Lagaan, infatti, vince al festival di Locarno e Monsoon Wedding di Mira Nair vince il Leone d’Oro a Venezia.
Si capisce subito l’importanza di questo festival e una serie di cose che bisognava ancora fare: avere un catalogo bilingue come testimonianza dell’avvenimento. E l’attaccamento alla tangibilità è rimasto perché anche quando siamo andati online nel 2020 c’è stato. Un’altra cosa da fare poi era invitare ospiti indiani”.
E quanto era celebre il cinema Indiano all’epoca?
C’era poco e nulla: qualcosa era stato fatto a Locarno, una rassegna di film indiani chiamata Indian Summer. In Italia invece niente.
Chi è stato il primo contatto con l’India e col Cinema Indiano?
“Io personalmente non ho contatti diretti con l’India, non ho parenti né ho mai avuto conoscenze. Uma da Cunha – casting director, giornalista, programmatrice di festival, fra le tante mansioni – è stata, ed è tutt’oggi, il mio punto di riferimento personale per quanto riguarda il cinema indiano. Lei viene a scoprire dell’esistenza di questo festival che stavo organizzando in Italia e mi contatta per organizzare una cena a Mumbai: in maniera molto naturale quindi inizia un rapporto basato sulla stima reciproca e sull’amore per il cinema che tutt’ora dura.
Da lì ho iniziato, anche con molta intraprendenza, a tessere un network di buoni contatti nel mondo del cinema indiano e garantirmi quindi la conoscenza di grandi registi e attori.
Ho imparato tanto in questi anni, grazie a lei e al cinema indiano, ma anche grazie ai contatti che mi ha aiutato a creare”.
Alla fine dell’edizione del festival immagino si cominci subito a preparare quella successiva. Vista l’importanza delle relazioni interpersonali per la creazione del festival, quanto tempo passi in India a cercare contatti?
“Conoscere così tante persone, anche grazie ai contatti presentati da Uma, siamo riusciti a proiettare film e avere grandi ospiti: il feeling tra le persone è stato fondamentale. Io di solito passo in primavera un mese in India a conoscere e interagire per preparare il festival successivo. E gli Indiani amano creare un legame speciale con le persone”.
Come si trova una fiorentina a relazionarsi con l’India?
“In realtà tre cose fondamentali noi italiani le abbiamo in comune con loro: l’amore per il cibo, per la famiglia e quello per il cinema. La cosa che distingue gli indiani da tutto il resto del mondo è la concezione del tempo. Lo si vede anche nella lunghezza dei film, per esempio. Il “qui e ora” non è mai qui e ora, tutto è più dilatato sia nel pubblico che nel privato. Bisogna armarsi di pazienza con loro oppure organizzarsi al meglio. C’è una parola in hindi che riassume tutto perfettamente, kal, che significa “sia ieri sia domani”: la lingua su questo concetto del tempo è chiara, ed esplicita perfettamente quale sia la loro concezione del tempo.
Mi è successo di partecipare a proiezioni cinematografiche fissate per le 19:30 e di trovarmi alle 22 ancora ad aspettare che iniziasse la proiezione. È difficile, per esempio, prendere un appuntamento con loro tra due settimane, devi fare tutto all’ultimo e mi è successo di partire con un’azienda italiana di product placement per l’India senza aver nessun appuntamento ma organizzare tutto una volta lì. Questa è una grande differenza nella visione del tempo”.
Come mai secondo te il cinema indiano non ha attecchito in Italia come invece ha fatto in altri paesi europei (Inghilterra o Francia)?
“Perché qui il cinema indiano è percepito ancora come qualcosa di esotico e molto distante da no e dalla nostra culturai. C’è, su questo, ancora molto pregiudizio; non viene vista come una vera cinematografia. E poi c’è tutto il problema della lingua e del doppiaggio: nel resto del mondo è sdoganato il fatto di guardare i film in lingua originale coi sottotitoli, in Italia invece la lingua originale è percepita ancora come un ostacolo”.
Le protagoniste dei film che hai selezionato si sono interfacciate con la dicotomia fra oriente e occidente: quanto è percepito e quanto è influente – se lo è – il modello occidentale nel mondo indiano?
“Il loro modello di riferimento è fondamentalmente quello americano; i film che escono in India al cinema infatti sono praticamente solo americani. Loro sono però molto legati alle proprie origini: cibo, festività, ritualità familiari ecc. sono molto radicate e sentite, poi comunque si aprono anche all’occidente. Resta però il fatto che anche le persone più moderne, aperte mentalmente e culturalmente che ho conosciuto sono talmente legate alle loro tradizioni da risultare contraddittorie. La fissità di certe tradizioni indiane entra in contrasto spesso con l’apertura verso il resto del mondo, ma, secondo me, è proprio questo il bello della cultura indiana.
Per esempio, ho conosciuto una coppia fantastica, estremamente aperta e che ha girato il mondo e quando mi hanno raccontato il loro amore è frutto di un matrimonio combinato non potevo crederci. Eppure, lì, quello che da noi può sembrare fuori dal mondo, è consuetudine.
Ma per esempio anche prima delle proiezioni dei film si fa la puja, un atto di adorazione verso una divinità che prevede un’offerta o un rito: è così in tutti gli ambiti della vita e che avvengono anche nei luoghi più contemporanei e aperti verso il mondo.
Sicuramente ho visto tante situazioni particolari, soprattutto per quanto riguarda le abitudini alimentari: vedere un indiano ordinare è pazzesco, perché spesso hanno il loro guru, una sorta di guida che spesso aiuta anche a decidere cosa e come mangiare”.
E tu hai acquisito qualcosa di non tipicamente italiano ma che è prepotentemente indiano?
“Sì, l’accostamento dei colori: io quotidianamente abbino i colori come loro nei miei vestiti. E sicuramente anche l’essere paziente, il saper aspettare e il saper interpretare le loro risposte”.
Il festival quest’anno ha ruotato intorno alla tematica dell’empowerment femminile. Le figure femminili protagoniste dei film che hai scelto vivono situazioni particolare: in The Tenant per esempio convivono nello stesso posto donne molto emancipate e donne invece molto legate e attaccate alle tradizioni indiane più puriste.
“Un film come The Tenant racconta una storia assolutamente realistica: quello che viene raccontato nel film e tutto vero. Quando mi venne a trovare il mio compagno mentre vivevo con una coinquilina americana, mi ero posta lo scrupolo di non fare in modo che le persone del condominio la giudicassero. Di base tutti sono molto legati alle loro radici, ma con una costante apertura verso i valori occidentali”.
Come ha influito la pandemia nell’organizzazione degli ultimi due festival?
“Tieni conto che il 2020 era l’anniversario del nostri vent’anni e io non volevo assolutamente rinunciare. Tutto si è quindi riversato sull’online: è stata un’esperienza davvero straniante. Tutti i collegamenti erano live e io seguivo tutto dal teatro che avevo per l’occasione arredato in stile indiano: è stato strano parlare di fronte a un cinema vuoto, ma nonostante fossimo chiusi il calore del pubblico l’abbiamo percepito. Grazie alla live chat siamo riusciti a mettere in contatto sia il pubblico italiano che gli ospiti in collegamento dall’India. È stata però, per assurdo, molto più difficile l’edizione del 2021: la doppia modalità ha complicato tutto ed è sembrato di fare due festival insieme. È stato però impagabile avere la possibilità di avere un pubblico vero”.
E quest’anno andrai in India?
“Quest’anno ancora non lo so: ci vado per le pubbliche relazioni, ma ora è difficile, quasi possibile, forse più avanti, in primavera. E posso dirti che mi manca moltissimo”.
Ringraziamo Selvaggia Velo per l’intervista, per averci fatto entrare nell’affascinante mondo del cinema indiano e per averci regalato, in questi tempi instabili, la sua vitale curiosità e intraprendenza.
Giorgia Grendene
Sono Giorgia e amo le cose vecchie e polverose (come la mia laurea in lettere classiche), le storie un po’ noiose che richiedono tempo per essere raccontate e apprezzate, i personaggi semplici con storie disastrose. Mi piacciono il bianco e nero e il technicolor molto più del 4K, i libri di carta molto più degli e-book, il salato molto più del dolce, i cani molto più dei gatti.