Trieste: quella “grazia scontrosa” cantata da Saba

Trieste: quella “grazia scontrosa” cantata da Saba

Trieste: quella “grazia scontrosa” cantata da Saba

Trieste come specchio di un’anima, percorrerne le strade, abbracciarla in un sol sguardo e ritrovare sè stessi laddove si credeva di essersi perduti. Questo fu Umberto Saba.

Trasfigurazione della condizione di Ulisse, in nessun luogo a casa se non nella propria Itaca, così Umberto Saba nella sua Trieste. Città ai margini del panorama letterario italiano primonovecentesco, scissa tra Austria e Italia, crogiolo di razze, realtà di confine, Trieste si fa musa ispiratrice del poeta Saba, un “cantuccio” riparato dalle ferite procurate dagli altri. La città come osservatorio privilegiato per il poeta gli consente un duplice movimento di immersione e distacco da una realtà percepita come contraddittoria.
La contraddittorietà dell’esistenza come motore di un’operazione di autoindagine, la psicanalisi come strumento per il raggiungimento di un’autocoscienza di sé, la scrittura come metodo di scavo della propria esistenza.
Umberto Poli, in arte Saba, nasce a Trieste nel 1883, trascorre un’infanzia segnata da fratture: il precoce abbandono del padre, il difficile rapporto con una madre anaffettiva e lo stretto legame con la balia Peppa, a cui la madre probabilmente lo sottrasse per gelosia.
Un senso di estraneità alla cultura ebraica di appartenenza, di distanza dal panorama letterario di spicco, primi tra tutti gli intellettuali de La Voce, oltre che la costante fuga dalle persecuzioni naziste grazie anche all’aiuto di intellettuali quali Montale e Vittorini, alimentano nel poeta quello che lui stesso chiama un “doloroso amore per la vita”. Tormentato da manie di persecuzione, Umberto Saba troverà nella psicanalisi un mezzo di indagine e scavo nel sé, uno strumento per la riemersione del rimosso e il risanamento delle proprie ferite.
Per mettere insieme i propri tasselli, Umberto Saba compie un’operazione che seicento anni prima, non diversamente ma scevro di cultura psicanalitica, intraprese Francesco Petrarca: stendere un Canzoniere, un corpus poetico organizzato in nuclei tematici, un tentativo di articolazione compiuta del sé, a più riprese riorganizzato internamente e revisionato linguisticamente, di cui si fa risalire la prima edizione al 1921.
Alla sezione Trieste e una donna appartiene la lirica Trieste, che meglio dipinge il senso di “triestinità” del poeta: una simbiosi fisica e spirituale, che consente a Saba di specchiarsi e di cogliere sé stesso nelle contraddizioni della città natia, attraverso un percorso tanto fisico quanto intellettuale, di identificarsi nella città stessa e trovare un “cantuccio” fatto proprio per lui dove sentirsi davvero immerso in quella che chiama “la mia vita”.

Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.

La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

(Trieste, 1910-12)

Un’occasione qualunque, una passeggiata attraverso una brulicante Trieste porta il poeta a salire un’erta. Il colle, in principio affollato, si fa sempre più deserto. Ormai dispersa la folla, si affaccia in lontananza un muricciolo.
Qui il poeta pronuncia una sorta di dichiarazione d’amore, l’interlocutrice è Trieste.
Trieste come “ragazzaccio aspro e vorace” ha occhi azzurri come il mare che ne bagna le coste e mani grandi, mani buone, per compiere atti gentili, che rivelano della città un carattere di ambivalenza, dapprima scontrosa, poi dolce e accogliente, si dimostra capace di regalare un fiore.
Dall’erta è possibile scorgere l’intera città, affollata e deserta, e ancora una volta contraddittoria. L’aria d’intorno è strana, è “aria natia”, il poeta è a casa, ed è protetto. Qui infatti ha trovato un suo cantuccio, un luogo dove potersi abbandonare alle proprie riflessioni, schivare le sofferenze procurategli dal mondo e dedicarsi alla propria vita “schiva e pensosa”, come “solo e pensoso” Francesco Petrarca percorreva deserti campi per schivare indiscreti sguardi.
La vita ora è “mia”, è sua, è del poeta, gli appartiene, il muricciolo è laddove il poeta si riappropria di sé, raccoglie i tasselli, si identifica esso stesso nella città, con uno sguardo la raccoglie tutta, così come nel cantuccio può raccogliere le proprie contraddizioni, ordinarle e per quanto possibile cercare di sanarle.

Quella di Saba è una poesia piana, autobiografica, domestica. Il poeta è consapevole di non essere adeguatamente considerato sul panorama letterario, fa di questo senso di marginalità – la stessa marginalità posseduta da Trieste – il suo centro propulsore, e così si pronuncia in occasione del settantesimo compleanno, nel 1953:
“Comunque, il mondo io l’ho guardato da Trieste: il suo paesaggio, materiale e spirituale, è presente in molte mie poesie e prose, pure in quelle – e sono la grande maggioranza – che parlano di tutt’altro e di Trieste non fanno nemmeno il nome.
Del resto, io non credo né alle parole né alle opere degli uomini che non hanno le radici profondamente radicate nella loro terra: sono sempre opere e parole campate in aria”.

(Discorso di U. Saba presso il Circolo della cultura e delle arti, 1953)

Umberto Saba muore nel 1957, lasciando una traccia, un’opera di scavo interiore volta al risanamento delle proprie ferite, capace di portare al centro, anche a distanza di anni, quella che era considerata una realtà culturale marginale, come Trieste allora, attraverso il ricorso a parole semplici ed esperienze quotidiane.
L’eco della sua voce ancora oggi si sente, riecheggiante dal “cantuccio”, presso il muricciolo.

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.

Alda Merini e l’amore per la poesia

Alda Merini e l’amore per la poesia

Alda Merini e l’amore per la poesia

Alda Merini, poetessa milanese scomparsa nel 2009, ha raccontato in versi l’amore carnale e l’amore per la poesia, sua compagna di vita. Ha testimoniato le sofferenze e il desiderio di libertà provate all’interno dei manicomi in cui è stata internata per diversi anni. 

Alda Merini nasceva il 21 marzo 1931 in una Milano che amava immensamente. Crebbe in una famiglia di umili condizioni e frequentò un istituto professionale. Cercò di trasferirsi al liceo Manzoni, ma non superò il test di italiano e si dedicò a studiare pianoforte. A quindici anni, però, emerse il suo talento e pubblicò due poesie all’interno di un’antologia. 

L’anno successivo, a soli sedici anni, comparvero i primi segni di una malattia che la perseguiterà per il resto della vita: il disturbo bipolare. Erano anni bui per le persone considerate pazze, internate nei manicomi senza alternative. La poetessa milanese non ricevette cure adeguate, ma solo numerose privazioni, subendo l’elettroshock. In quei luoghi dediti a torture ancora legali per diversi anni, Alda Merini riuscì a concepire poesie meravigliose, intense e forti, contrastando la bruttezza che la circondava. Da questa esperienza, infatti, nacque la raccolta La terra santa: un viaggio che attraversa i momenti vissuti all’interno del manicomio.
È stata marchiata dal fardello della follia, una compagna di vita scomoda e limitante, ma che le ha permesso di vedere il mondo da un altro punto di vista. Leggiamo un pezzo della lunga e struggente poesia Laggiù dove morivano i dannati: 

[…]
Laggiù nel manicomio
dove le urla venivano attutite
da sanguinari cuscini
laggiù tu vedevi Iddio
non so, tra le traslucide idee
della tua grande follia.
[…]

Il manicomio era il posto in cui non si poteva urlare il proprio dolore, dove non c’era posto per l’umanità e le urla venivano soffocate. È in quella mancanza che Alda Merini trovò Dio, lo vide in mezzo al nulla e lo sentì tra le pareti del silenzio. Credeva in Dio, pur non accettando che il sesso fosse trattato come un peccato. Ella amava l’amore sentimentale e il desiderio carnale, protagonisti di numerose poesie. Si innamorava continuamente, accettando anche la conseguente sofferenza. Visse relazioni difficili e conobbe uomini complicati, infedeli, che non le donavano tutto l’amore che lei dava loro. È in quell’amore, tra le braccia di un uomo, che riesce a stare bene. Ce lo racconta nella poesia C’è un posto nel mondo dove il cuore batte forte: 

C’è un posto nel mondo
dove il cuore batte forte,
dove rimani senza fiato,
per quanta emozione provi,
dove il tempo si ferma
e non hai più l’età;
quel posto è tra le tue braccia
in cui non invecchia il cuore,
mentre la mente non smette mai di sognare…
Da lì fuggir non potrò
poiché la fantasia d’incanto
risente il nostro calore e no…
non permetterò mai
ch’io possa rinunciar a chi
d’amor mi sa far volar.

Non può fuggire da quel posto, fonte di una felicità priva di eguali. Non può e non sa rinunciarvi perché anche se il tempo passa e si riversa sul corpo, lì il cuore non invecchia mai. Rimane vivo. 

Alda Merini era sposata con un panettiere, ma in seguito alla sua morte sposò il poeta Michele Pierri, che aveva apprezzato molto le sue poesie. Si trasferì per tre anni a Taranto e scrisse il suo primo libro in prosa: L’altra verità. Diario di una diversa. A Taranto, però, venne nuovamente internata e visse anni terribili, le impedirono anche di vedere le figlie. Soltanto dopo il 1978, anno in cui la Legge Basaglia chiuse i manicomi, Alda Merini poté ritrovare la serenità perduta.

Le più belle poesie
si scrivono sopra le pietre
coi ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero.
[…]
Così, pazzo criminale qual sei
tu detti versi all’umanità,
i versi della riscossa
e le bibliche profezie
e sei fratello a Giona.

Questa poesia, contenuta nella raccolta La terra santa, presenta un’antitesi tra la poesia, bella e delicata, e la pietra, dura e pesante. Alda Merini vuole dirci che non c’è bellezza senza sofferenza. Scrisse molte delle sue poesie in un manicomio, un luogo in cui ha subìto umiliazioni, ma quelle ginocchia piegate non le hanno impedito di inseguire la bellezza. È lì che cercò il mistero, trovandolo tra i versi di una poesia scritta col sangue. Tu, poeta, sei un pazzo criminale e detti versi all’umanità: consegni agli uomini i versi della rivincita, della speranza. Tu, poeta, sei fratello a Giona: sei come il profeta Giona, che trasgredì il dovere dettato da Dio, fuggendo e isolandosi da tutti gli altri. 

I poeti trovano sé stessi di notte, quando gli altri dormono e non hanno fretta di finire. Scrivono quando le piazze sono vuote e l’unico rumore che si ode è quello delle lancette: 

I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.
[…]

Alda Merini visse una vita difficile, violenta e accusata di essere folle. Non smise mai di cercare, creare e amare. Mise su carta le proprie emozioni, altalenanti e forti, consegnandoci fragilità, coraggio e speranza. È stata e continua a essere una delle poetesse più espressive e talentuose del Novecento, e non solo. Non è stata compresa per molto tempo, ma la penna le è rimasta fedele tra le dita. 

O poesia, non venirmi addosso
sei come una montagna pesante,
mi schiacci come un moscerino;
[…]

La poesia è violenta con lei, la teme, come alcuni uomini che ha conosciuto. Eppure, non può fare a meno di amarla e noi non possiamo non amare i suoi versi. 

Martina Macrì

Sono Martina, ho una laurea in Lettere e studio Semiotica a Bologna. La scrittura è il mio posto sicuro, il mio rifugio. Scrivo affinché gli altri, o anche solo una persona, mi leggano e si riconoscano. Su IoVoceNarrante mi occupo principalmente di letteratura.  

Parte Più Libri Più Liberi, la fiera romana dell’editoria

Parte Più Libri Più Liberi, la fiera romana dell’editoria

Parte Più libri più liberi, la fiera romana dell’editoria

Cinque giorni, oltre 600 appuntamenti e 519 espositori da tutto il Paese: torna dal 7 all’11 dicembre Più Libri Più Liberi, la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria…

Cinque giorni, oltre 600 appuntamenti e 519 espositori da tutto il Paese: torna dal 7 all’11 dicembre Più Libri Più Liberi, la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria, promossa e organizzata dall’Associazione Italiana Editori-Aie al Roma Convention Center La Nuvola dell’Eur a Roma che “concorre al successo di una manifestazione tra le più amate e partecipate della città”.

Per il secondo anno consecutivo saranno aperti gli spazi dell’Auditorium della Nuvola dove tra gli incontri più attesi c’è quello dell’8 dicembre con la scrittrice originaria di Teheran Azar Nafisi, che torna in Italia dopo molto tempo, in esclusiva per la fiera e sarà in dialogo con Michela Murgia.

E ancora Alessandro Baricco con una lectio sul tema della fiera “Perdersi e ritrovarsi, i libri e la libertà”. Lo storico Alessandro Barbero e poi un viaggio “nei registri simbolici nei quali siamo cresciuti” con Michela Murgia e Chiara Valerio, mentre Roberto Saviano ha dato forfait dopo aver annullato oggi anche il doppio appuntamento al Teatro Valli di Reggio Emilia per il 27 e 28 novembre spiegando di sentirsi bersaglio di “odio tangibile” e senza “alcuno scudo”. Una lectio di Alberto Angela su Nerone in un incontro in cui ricorderà il padre Piero Angela. Verrà ricordato Mattia Torre con la serie culto Boris alla quarta stagione. Super atteso l’evento di chiusura con Zerocalcare e Ascanio Celestini. E per la prima volta TikTok partecipa alla fiera. “Abbiamo doppiato i 20 anni. Quest’anno la fiera ha una particolarità nuova: uno sguardo più attento alla dimensione internazionale. Avremo con noi i direttori dei principali appuntamenti internazionali del libro” ha detto il presidente dell’Aie, Ricardo Franco Levi. La ventesima edizione della Fiera prende ancora maggior forza dai dati postivi per la piccola e media editoria che continua a crescere: la quota di mercato delle case editrici fino a 25 milioni di venduto a prezzo di copertina raggiunge il 45,2%. È di medi, piccoli e micro editori il 50% dei titoli in commercio, raggiungendo nel 2021 i 671.000 titoli “commercialmente vivi” (+3% rispetto al 2020). 

Gli editori in fiera saranno 519, ma le richieste erano molte di più e non siamo riusciti ad accoglierli tutti” ha spiegato Fabio Del Giudice, direttore di Più Libri Più Liberi. “E’ stato un anno in cui l’editoria è cresciuta, ma anche difficile perché nessuno poteva pensare di trovarsi catapultati in una guerra. Il senso di smarrimento si rispecchia nel tema di quest’anno e nell’immagine della manifestazione firmata da Lorenzo Mattotti con una nave in tempesta” ha detto la presidente della Fiera Annamaria Malato.

Sostenuta dal Centro per il libro e la lettura del ministero della Cultura, dalla Regione Lazio, da Roma Capitale, dalla Camera di Commercio di Roma e da ICE-Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, con il contributo di Siae, quest’anno Più Libri Più Liberi vede alla guida del programma la storica curatrice Silvia Barbagallo e Chiara Valerio a cui nel 2023 passerà il testimone. “Il lavoro che per 14 anni ho fatto alla Fiera è stato molto importante e lo porterò con me in tutte le altre esperienze lavorative” ha detto emozionata Barbagallo. Tra gli ospiti il filosofo Paul B.Preciado, il giovane scrittore senegalese Mohamed Mbougar Sarr Premio Goncourt 2021, l’americana Ellen Lupton con ‘Extra Bold’, per la prima volta in Italia, la peruviana Gabriela Wiener con ‘Sanguemisto’ (La Nuova Frontiera) e Sheena Patel con il potente esordio ‘Ti seguo’ (Atlantide).

Per la prima volta ci sarà una serie di incontri in cui scrittori e scrittrici omaggiano altri autori e autrici: Sandro Veronesi approfondirà Flannery O’Connor, Nicola Lagioia il romeno Mircea Cartarescu e Lisa Ginzburg la brasiliana Clarice Lispector, mentre Giordano Meacci farà un incontro-omaggio dedicato ad Andrea Camilleri. Grande spazio a Scienza e Ambiente, Graphic Novel e attualità. Ampia l’area Business con oltre 500 metri quadri. Tra i premi ospitati, lo Strega Ragazze e Ragazzi, Mastercard Letteratura e il Malerba.

  •  

Attilio Bertolucci: fra impressionismo e memoria

Attilio Bertolucci: fra impressionismo e memoria

Attilio Bertolucci: fra impressionismo e memoria

Attilio Bertolucci, poeta emiliano, suscita col proprio stile conto, ma limpido, stupore se rapportato alla crudità del Novecento, il secolo orribile.

La voce di Attilio Bertolucci si segnala per una delicatezza disarmante che ai più, immersi nell’epoca della retorica pomposa del consumismo e del fallace eroismo, resta impercettibile, nonché scomoda. 

Esordi e poetica

Attilio Bertolucci nacque vicino a Parma il 18 novembre 1911, dopo la laurea in lettere a Bologna comincia ad insegnare storia dell’arte e a dirigere una collana di opere straniere tradotte in Italia. 

La voce poetica si manifesta assai precocemente, se si tiene conto che la prima raccolta, Sirio, venne pubblicata già nel 1929, all’età di diciotto anni. E proprio dal ‘29 occorrerebbe partire per comprendere le implicazioni della poesia di Bertolucci sul seculum horribile del Novecento: dalla crisi del ‘29 al montare dei totalitarismi fino alla Seconda guerra mondiale, lo sguardo di Bertolucci si staglia su un universo governato dall’insensatezza e dalla violenza cui il poeta stesso oppone una poesia nitida, raffinatamente semplice, dimessa, dal taglio descrittivo e che rifugge toni fastosi. 

In La rosa bianca, tratta dalla raccolta La capanna indiana (1951), Bertolucci scrive:

Coglierò per te

l’ultima rosa del giardino,

la rosa bianca che fiorisce

nelle prime nebbie.

Le avide api l’hanno visitata

sino a ieri,

ma è ancora così dolce

che fa tremare.

È un ritratto di te a trent’anni,

un po’ smemorata, come tu sarai allora.

Le nebbie della poesia rimandano al paesaggio tipico della pianura Padana cui Bertolucci fu tanto avvezzo: gli elementi naturali, dalla rosa bianca alle api avide, si saldano perfettamente nella lirica dal tono lirico e impressionistico, marcando un tratto costante della poesia di Bertolucci; a ben vedere, gli ambienti domestici, le atmosfere contadine e campagnole fanno da sfondo ad uno sguardo acuto e scrutatore alla ricerca di marche elegiache, ricollegandosi alle linee già tracciate da Pascoli e Saba.

Il secondo dopoguerra

La poetica di Bertolucci subisce, nel secondo dopoguerra, un drastico cambiamento dettato dallo scorrere della Storia cui nulla può opporsi: se in un primo momento gli ambienti dimessi possono rappresentare una protezione, un’alcova ideale di riposo dell’animo, con l’inizio dell’era consumistica, che raggiunge il suo apice fra anni Sessanta e Settanta, la semplicità e primigenia essenza del mondo rurale padano si dissolve di fronte alla mesta sensazione di disgregazione

Nella descrizione impressionistica della natura fa capolino un certo sentore di negatività che acuisce lacerazioni latenti, già esacerbate dal suo trasferimento a Roma, città avvertita estranea alla propria intima essenza di poeta: 

Non posso più scrivere né vivere

se quest’anno la neve che si scioglie

non mi avrà testimone impaziente

di sentire nell’aria prime viole.

Nella prima strofa di Pensieri di casa, tratta dalla raccolta In un tempo incerto (1955), la condizione esistenziale è strettamente connessa all’attività della scrittura. E la scrittura di Bertolucci trae la propria ispirazione proprio da quelle nevi periture annunciatrici della primavera: è chiaro il rimando al paesaggio padano, avvertito tuttavia lontano, sia geograficamente in quanto negli anni ‘50 Bertolucci si trasferì a Roma, sia sentimentalmente: una sensazione di finitudine inevitabile aleggia sulla poetica del poeta emiliano, il quale si rifugia oramai nella memoria, ultima spiaggia di una morte figurata presagita:

 

Come se fossi morto mi ricordo

la nostra primavera (…).

Trieste: quella scontrosa grazia cantata da Saba

Trieste: quella scontrosa grazia cantata da Saba

Trieste: quella scontrosa grazia cantata da Saba

Trieste come specchio di un’anima, percorrerne le strade, abbracciarla in un sol sguardo e ritrovare sé stessi laddove si credeva di essersi perduti. Questo fu Umberto Saba.

Umberto Saba: una personalità complessa

Trasfigurazione della condizione di Ulisse, in nessun luogo a casa se non nella propria Itaca, così Umberto Saba nella sua Trieste. Città ai margini del panorama letterario italiano primonovecentesco, scissa tra Austria e Italia, crogiolo di razze, realtà di confine, Trieste si fa musa ispiratrice del poeta Saba, un “cantuccio” riparato dalle ferite procurate dagli altri. La città come osservatorio privilegiato per il poeta gli consente un duplice movimento di immersione e distacco da una realtà percepita come contraddittoria.
La contraddittorietà dell’esistenza come motore di un’operazione di autoindagine, la psicanalisi come strumento per il raggiungimento di un’autocoscienza di sé, la scrittura come metodo di scavo della propria esistenza.
Umberto Poli, in arte Saba, nasce a Trieste nel 1883, trascorre un’infanzia segnata da fratture: il precoce abbandono del padre, il difficile rapporto con una madre anaffettiva e lo stretto legame con la balia Peppa, a cui la madre probabilmente lo sottrasse per gelosia.
Un senso di estraneità alla cultura ebraica di appartenenza, di distanza dal panorama letterario di spicco, primi tra tutti gli intellettuali de La Voce, oltre che la costante fuga dalle persecuzioni naziste grazie anche all’aiuto di intellettuali quali Montale e Vittorini, alimentano nel poeta quello che lui stesso chiama un “doloroso amore per la vita”. Tormentato da manie di persecuzione, Umberto Saba troverà nella psicanalisi un mezzo di indagine e scavo nel sé, uno strumento per la riemersione del rimosso e il risanamento delle proprie ferite.

Trieste città natale

Per mettere insieme i propri tasselli, Umberto Saba compie un’operazione che seicento anni prima, non diversamente ma scevro di cultura psicanalitica, intraprese Francesco Petrarca: stendere un Canzoniere, un corpus poetico organizzato in nuclei tematici, un tentativo di articolazione compiuta del sé, a più riprese riorganizzato internamente e revisionato linguisticamente, di cui si fa risalire la prima edizione al 1921.
Alla sezione Trieste e una donna appartiene la lirica Trieste, che meglio dipinge il senso di “triestinità” del poeta: una simbiosi fisica e spirituale, che consente a Saba di specchiarsi e di cogliere sé stesso nelle contraddizioni della città natia, attraverso un percorso tanto fisico quanto intellettuale, di identificarsi nella città stessa e trovare un “cantuccio” fatto proprio per lui dove sentirsi davvero immerso in quella che chiama “la mia vita”.

Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.

La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

(Trieste, 1910-12)

Un’occasione qualunque, una passeggiata attraverso una brulicante Trieste porta il poeta a salire un’erta. Il colle, in principio affollato, si fa sempre più deserto. Ormai dispersa la folla, si affaccia in lontananza un muricciolo.
Qui il poeta pronuncia una sorta di dichiarazione d’amore, l’interlocutrice è Trieste.
Trieste come “ragazzaccio aspro e vorace” ha occhi azzurri come il mare che ne bagna le coste e mani grandi, mani buone, per compiere atti gentili, che rivelano della città un carattere di ambivalenza, dapprima scontrosa, poi dolce e accogliente, si dimostra capace di regalare un fiore.
Dall’erta è possibile scorgere l’intera città, affollata e deserta, e ancora una volta contraddittoria. L’aria d’intorno è strana, è “aria natia”, il poeta è a casa, ed è protetto. Qui infatti ha trovato un suo cantuccio, un luogo dove potersi abbandonare alle proprie riflessioni, schivare le sofferenze procurategli dal mondo e dedicarsi alla propria vita “schiva e pensosa”, come “solo e pensoso” Francesco Petrarca percorreva deserti campi per schivare indiscreti sguardi.
La vita ora è “mia”, è sua, è del poeta, gli appartiene, il muricciolo è laddove il poeta si riappropria di sé, raccoglie i tasselli, si identifica esso stesso nella città, con uno sguardo la raccoglie tutta, così come nel cantuccio può raccogliere le proprie contraddizioni, ordinarle e per quanto possibile cercare di sanarle.

La poetica

Quella di Saba è una poesia piana, autobiografica, domestica. Il poeta è consapevole di non essere adeguatamente considerato sul panorama letterario, fa di questo senso di marginalità – la stessa marginalità posseduta da Trieste – il suo centro propulsore, e così si pronuncia in occasione del settantesimo compleanno, nel 1953:

“Comunque, il mondo io l’ho guardato da Trieste: il suo paesaggio, materiale e spirituale, è presente in molte mie poesie e prose, pure in quelle – e sono la grande maggioranza – che parlano di tutt’altro e di Trieste non fanno nemmeno il nome.
Del resto, io non credo né alle parole né alle opere degli uomini che non hanno le radici profondamente radicate nella loro terra: sono sempre opere e parole campate in aria”.

(Discorso di U. Saba presso il Circolo della cultura e delle arti, 1953)

Umberto Saba muore nel 1957, lasciando una traccia, un’opera di scavo interiore volta al risanamento delle proprie ferite, capace di portare al centro, anche a distanza di anni, quella che era considerata una realtà culturale marginale, come Trieste allora, attraverso il ricorso a parole semplici ed esperienze quotidiane.
L’eco della sua voce ancora oggi si sente, riecheggiante dal “cantuccio”, presso il muricciolo.

 

Martina Tamengo

U. Eco una volta disse che leggere, è come aver vissuto cinquemila anni, un’immortalità all’indietro di tutti i personaggi nei quali ci si è imbattuti.

Scrivere per me è restituzione, condivisione di sè e riflessione sulla realtà. Io mi chiamo Martina e sono una studentessa di Lettere Moderne.

Leggo animata dal desiderio di poter riconoscere una parte di me, in tempi e luoghi che mi sono distanti. Scrivo mossa dalla fiducia nella possibilità di condividere temi, che servano da spunto di riflessione poiché trovo nella capacità di pensiero dell’uomo, un dono inestimabile che non varrebbe la pena sprecare.