“L’affaire Moro”: negli scritti di Sciascia la pena di un uomo disconosciuto dai suoi stessi “amici”

“L’affaire Moro”: negli scritti di Sciascia la pena di un uomo disconosciuto dai suoi stessi “amici”

Titolo : L’affaire Moro: negli scritti di Sciascia la pena di un uomo disconosciuto dai suoi stessi “amici”

Lo statista invia lettere in cui parla delle possibili conseguenze della sua condanna da parte dei brigatisti. Ma non può essere ascoltato…

Il 24 agosto 1978 Leonardo Sciascia firma “L’affaire Moro”, che solo quattro anni dopo verrà arricchito dalla “Relazione di minoranza della commissione parlamentare per il caso Moro”, di cui l’Onorevole Sciascia sarà relatore. Il saggio ripercorre le vicende che vanno dal 16 marzo 1978, giorno del rapimento del presidente della Democrazia cristiana e dell’eccidio della sua scorta, al 9 maggio seguente, giorno del ritrovamento della salma dell’uomo politico pugliese.

Lo scrittore di Racalmuto rilegge le lettere che Moro indirizza ai suoi compagni di partito; le filtra con il suo acume e la sua indefettibile perspicacia, restituendo una immagine impressionante e a tratti mostruosa, della tragica vicenda.

L’aspetto che per primo colpisce alla lettura della piccola opera dell’autore di “Todo modo” è l’analisi di fatti e scritti, compiuti sostanzialmente a caldo, operando necessaria e scrupolosa pulizia della coltre di influenze sparse a piene mani dalla retorica nazionale sullo Stato che “accetta la sfida” che “non si piega al ricatto” che ha unito in quei giorni le forze di quasi tutto l’arco costituzionale.

Una analisi che potrebbe sembrare scontata oggi, ma che allora fu uno sforzo controcorrente, sostrato appunto della relazione di “assoluta” minoranza in Commissione.

Quando viene prelevato dalle Brigate Rosse, Moro si sta recando in Parlamento per la presentazione del governo guidato da Giulio Andreotti, il primo con il sostegno esterno del PCI, soluzione per cui il presidente democristiano si era speso con tenacia. Una acrobazia politica che probabilmente allarma qualche alleato intransigente a occidente, ma indigna anche gli ambienti extraparlamentari di sinistra, quelli più movimentisti almeno.

Dalla prigione Moro scrive una prima lettera al ministro degli affari interni, Francesco Cossiga, dalla quale si ricava il consiglio di riflettere sul da farsi per trarlo dagli impacci, per evitare possibili conseguenze in un processo “con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni”. Quindi: “prendete tempo e trovatemi, prima che le cose vadano per il peggio, per tutti ma soprattutto per me”.

Moro rivolge poi a Benigno Zaccagnini, segretario della DC, un’altra missiva, ricordando al segretario del partito quanta parte avesse avuto nel convincerlo, lui riluttante, ad assumere la carica di presidente. E parla apertamente della perfetta liceità dello “scambio di prigionieri”, scelta che all’uomo politico rapito appare “non solo equa, ma anche politicamente utile”.

Il leader democristiano mette in guardia gli amici dalla “possibile spaccatura con le forze umanitarie che ancora esistono in questo paese” che susseguirebbe al perseguimento della strategia della fermezza.

Le BR dal canto loro avanzano l’ipotesi di uno scambio di prigionieri come unica strada per evitare la condanna dell’uomo che hanno in custodia. La DC è “lacerata dal dubbio”.

Ma, nota Sciascia, più che dal dubbio, il partito è lacerato dalla “certezza di non dover fare nulla”. E mentre la famiglia dello statista (mai come in quei giorni gratificato di questo titolo) chiede che il partito dichiari la propria disponibilità a chiarire quali siano le condizioni reali per il rilascio del proprio presidente, il partito stesso si dichiara in blocco “legato indissolubilmente ai principi di democraticità”, che tradotto vuol dire: “non si tratta”.

E il monolite resisterà per tutto il periodo di cattività del leader cattolico, al punto che anche nell’appello della Santa Sede ai rapitori per la liberazione dell’ostaggio, Paolo VI chiederà di rilasciare Moro “senza nulla chiedere”, senza condizioni, quindi nella linea tracciata dal fronte dei partiti. L’appello rimarrà ovviamente ignorato.

Per primo “Il Popolo”, quotidiano del partito scudocrociato, ma poi tutti gli altri, si affretteranno a introdurre la seconda lettera come scritta da una persona “sottoposta a condizioni di coercizione”, e quindi moralmente non ascrivibile a detta persona. Ed è qui, nota Sciascia, che invece non si riesce proprio a capire come sia così strano che una persona in condizioni di grave e assoluto pericolo cerchi una strada per evitare la condanna a morte.

La retorica nazionale inonda il paese attraverso TV e giornali; alla moglie del politico rapito viene attribuita la frase: “in nessun caso mio marito deve essere barattato”. Ma la signora Eleonora si affretta a smentire tanto onore: non ha mai detto nulla di simile; e anzi. La frase non le può essere più attribuita, dal momento che l’ha smentita, ma si continua dicendo che comunque la donna “ne sarebbe ben degna”.

È sconveniente sapere che Moro abbia sempre pensato alla possibilità della trattativa, ma la soluzione c’è: i giornali, la televisione e la radio si stanno adoperando per certificare la metamorfosi dell’uomo prigioniero. Moro non è più lui.

Moro invece seguita a dire di “un’opportunità umana e politica”, e, per rafforzare la sua tesi, ricorda come sia sempre stato favorevole alla trattativa. Puntuali scattano i meccanismi di difesa del monolite DC: mentre l’Onorevole Gui conferma, l’Onorevole Taviani smentisce che mai Moro abbia espresso questa posizione.

La successiva lettera dal “carcere” è un piccolo grande esercizio di ironia in merito alla carriera di Taviani, alla sua capacità di zigzagare tra tutte le correnti democristiane e alla segreteria, con scarso successo. Ironia mista sicuramente ad avvilimento: da dove verrà, si chiede sicuramente Moro che ben conosce il suo partito, questo zelo “statolatrico”, come lo definisce Sciascia?

La DC fa quadrato, immobile e imbarazzata di fronte alle lettere, sicura di poter affrontare ogni tempesta chiudendosi a riccio. E Sciascia ricorda come nell’ultimo intervento in Parlamento, proprio Moro da presidente scudocrociato si fosse schierato in difesa dell’Onorevole Gui, accusato di essere beneficiario di un grave illecito, sostenendo pregiudizialmente l’innocenza del blocco dirigente del partito basato sulla grande forza dell’opinione pubblica che sceglieva la DC da trent’anni.

Non si può bollare con marchio di infamia tutta una esperienza politica. Insomma, il richiamo dell’immutato consenso elettorale come dimostrazione di un partito senza colpe, e quindi di un singolo senza colpe.

Dalla difesa in toto di una fase e di una esperienza politica rampolla quindi la morte civile dell’esponente che dalla prigione del popolo invoca un gesto umanitario. Di nuovo il Moro che scrive non è più in sé, e verso la fine di aprile dalla sede di Piazza del Gesù viene diramato un documento che Sciascia definisce “mostruoso” firmato da una cinquantina di amici che certificano che Il Moro che conoscono non è quello delle lettere.

E la vicenda corre ineluttabilmente verso la condanna e l’esecuzione, che Moro attribuisce apertamente ai suoi “amici” prima ancora che ai terroristi. La condanna alla solitudine, prima ancora che alla morte.

Lo scrittore siciliano dedica l’ultima nota alla telefonata del brigatista che informa Franco Tritto, assistente e amico della famiglia Moro su dove ritrovare il corpo dello statista DC. La telefonata dalla stazione Termini dura più di tre minuti, con l’assistente che chiede di ripetere, si commuove e piange, e chi telefona che non fa fretta all’interlocutore, nonostante i rischi che stava correndo.

E che pronuncia le parole “mi dispiace”. “Forse ancora oggi” – conclude Sciascia – “il giovane brigatista crede di credere si possa vivere di odio e contro la pietà: ma quel giorno, in quell’adempimento, la pietà è penetrata in lui come il tradimento in una fortezza. E spero che lo devasti”.

Australian Open 2023: Novak Djokovic torna e mette tutti in fila

Australian Open 2023: Novak Djokovic torna e mette tutti in fila

Australian Open 2023: Novak Djokovic torna e mette tutti in fila

Il campione serbo vince per la decima volta il torneo, torna numero uno del mondo e aggancia Nadal nel numero di Slam vinti. Nel femminile prima gioia per Sabalenka. La pattuglia azzurra stavolta raccoglie poco.

Novak Djokovic ha vinto per la decima volta nella sua carriera l’Australian Open, conclusisi domenica 29 gennaio. In finale ha superato il greco Stefanos Tsitsipas, alla sua seconda finale Slam dopo quella persa al quinto set due anni fa al Roland Garros. Sempre dall’asso serbo.

La capacità del campione di Belgrado di essere più forte di avversari, infortuni e persino di scelte politiche che lo hanno come noto escluso nella stagione passata da tutti gli eventi sportivi in calendario in Australia e negli Stati Uniti, è stupefacente. Non appena rientra in circolazione, riprende a disegnare le sue traiettorie perfette e instancabili. Sempre alla ricerca di un contropiede, di un affondo che rimandi oltre la linea di gioco il rivale di turno che cercava di guadagnare terreno.

Non appena rientra riprende a coprire il campo come solo il miglior Nadal sa fare; è dappertutto e colpisce la pallina sempre con assoluta precisione, con i piedi sempre ben piantati per terra. Ha perso solo un set, al secondo turno dal francese Couacaud. Per il resto solo vittorie, fino alla fine. Novak Djokovic è nuovamente al vertice del ranking mondiale, posizione già ricoperta in passato per ben 374 settimane (record)!

A 35 anni compiuti è ancora in pista per silenziare l’ennesima generazione di giovani speranze che si avvicinano a lui, a Nadal e prima a Federer come a una stella incandescente che scioglie la cera che tiene insieme le loro ali.

Sicuramente il tennis riparte da Alcaraz, Rune, Tsitsipas e altri delle leve più recenti, ma c’è da scommettere che presto si riparlerà della parità di titoli Slam vinti tra Nole e Rafa. I due alieni sono saliti a ventidue ciascuno, e vedremo cosa accadrà a Parigi, tra maggio e giugno.

Nadal ha passato un turno a fatica, per poi cedere al secondo, complice un problema all’anca che lo ha costretto a un mese di stop. Come scritto quindici giorni fa, da qualche mese lo spagnolo soffre di malanni vari che lo hanno costretto a un numero di sconfitte non usuale. Non è certo il primo infortunio della carriera per lui, ma questa volta il naturale logorio di un fisico spinto come in nessun altro caso nel tennis ai suoi limiti sembra avere un ruolo importante.

Speriamo di rivederlo protagonista quanto prima, per lui la stagione sulla terra rossa che inizia a aprile è sempre stata la sua medicina preferita.

Del singolare femminile avevamo scritto 15 giorni fa di un gruppetto di giocatrici che sembrava essersi staccato dal plotone per formare una nuova élite al vertice, importante per sostenere la popolarità del circuito; ebbene, è successo che la vittoria finale ha arriso all’ennesima giocatrice che ancora non aveva sollevato un trofeo Slam. È vero però che la bielorussa Aryna Sabalenka, ventiquattrenne di Minsk, abita stabilmente da alcuni anni le prime posizioni del ranking, e solo un sistema nervoso invero fragile le ha impedito di raccogliere prima di questo Australian Open un alloro che il suo tennis avrebbe meritato.

In una splendida finale, che ha coronato un torneo non troppo spettacolare, ha sconfitto in rimonta per 46 63 64 la kazaka Elena Rybakina, vincitrice dell’ultima edizione di Wimbledon. Quest’ultima non ha affatto demeritato, e durante il torneo ha saputo sconfiggere in due set la numero uno del mondo, la polacca Iga Swiatek.

La polacca ha fatto parlare di sé anche per la pubblicazione su “The players’ tribune”, piattaforma che fornisce uno spazio agli atleti per comunicare di sé ai propri appassionati, della lettera intitolata “The polish introvert”, ovvero “La polacca introversa”. In essa Iga parla dei suoi sogni di bambina, più legati a trovare il modo di socializzare coni propri coetanei che non ai successi nello sport. E anche delle difficoltà di allenarsi in un paese dal clima freddo e con pochi fondi a disposizione, con i campi al coperto in inverno a quattro gradi centigradi!

Il torneo degli italiani non è stato particolarmente brillante, soprattutto per la resa al di sotto delle aspettative di due tra i più importanti alfieri della racchetta azzurra.

Prima di tutti Matteo Berrettini. Protagonista solo dieci giorni prima di un’ottima prestazione alla United Cup, Matteone ha avuto un primo turno non proprio agevole: l’avversario designato dal sorteggio e stato Andy Murray, ex numero uno del mondo che ha subito nel 2018 un intervento chirurgico all’anca che lo ha quasi costretto al ritiro. Sir Andy, due volte vincitore nella sua Wimbledon, si è progressivamente ripreso, ma certo non vale più il campione di alcuni anni fa.

Berrettini ha perso i primi due set, superato dal furore agonistico del britannico; ha rimesso insieme il suo tennis ed ha vinto il terzo e il quarto, per poi subire il ritorno del rivale chi ha vinto il set decisivo al tie-break. L’italiano certamente recriminerà tra sé e sé a lungo per un match point fallito clamorosamente nel decimo gioco, quando ha messo in rete un rovescio facile facile.

John McEnroe, ai microfoni di Eurosport, ha definito “la sua personale kryptonite” il colpo più debole di Matteo; in effetti in questo ultimo anno non è migliorato, ed insieme ad una limitata mobilità negli spostamenti laterali rappresenta il suo limite più importante.

Speriamo sappia reagire presto, soprattutto sul campo da tennis, dal momento che sul lato social è di nuovo attivissimo con una nuova liason in avvio, in coppia con Melissa Satta.

Lorenzo Musetti ha perso anch’esso al quinto set e anch’esso cedendo i primi due, contro Lloyd Harris, sudafricano che non giocava da sei mesi. Risultato deludente che certamente non cancella qualche dubbio sulla consistenza agonistica del giocatore di Carrara.

Meglio ha fatto Jannik Sinner, che è stato eliminato al quarto turno ma dal finalista Stefanos Tsitsipas, e solo dopo una battaglia durata quattro ore. Il resto della pattuglia azzurra, compreso anche il gruppo femminile, non ha ottenuto risultati di particolare spessore.

Finita la stagione in terra australe, ora il circuito fa tappa in sudamerica e in Europa, per poi ritrovare gli appuntamenti di marzo sul cemento nordamericano: Indian Wells e Miami.

 

Danilo Gori

Un giorno per ricordare

Un giorno per ricordare

Un giorno per ricordare

Ne “L’immagine dell’inferno”, 1946, Hannah Arendt scrive: «Non c’è storia più difficile da raccontare in tutta la storia dell’umanità». È vero, ci sono storie che per la loro enormità impoveriscono qualsiasi vocabolario tenti di descriverle.

Ricordare nel silenzio: il silenzio è l’unico sentiero che la narrazione può percorrere ed è solamente nel silenzio che si può pensare a una storia tanto enorme come l’annientamento di un popolo.

La Giornata della Memoria

A partire dal 2005 è stata istituita la giornata del 27 gennaio, ricorrenza dell’entrata da parte dell’esercito alleato nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau per commemorare le vittime dell’Olocausto. Commemorare, ma soprattutto ricordare: è questo l’obbiettivo che ha ogni anno la Giornata della Memoria. Tra il 1939 e il 1945 la Germania nazista, assecondata da molteplici complicità, ha sterminato circa sei milioni di ebrei europei nel silenzio pressoché totale del mondo. In questa pagina nera della storia se la guerra è stata il filo conduttore della “tempesta” (Shoah), la grandezza del crimine è stata la più grande alleata nella sua negazione.  Ecco allora il bisogno di non dimenticare, perché se la memoria istituzionalizzata lascia nell’ombra il problema fondamentale delle responsabilità rischia poi di diventare amnesia ritualizzata, non sulla sciagura stessa, ma su ciò che l’ha resa possibile.

Le tappe dell’esclusione

La storia del genocidio ebraico trova due capisaldi: la guerra e l’antigiudaismo. Così come le sorti di un popolo si intrecciano a quelle di due conflitti mondiali, allo stesso tempo la storia degli ebrei d’Europa è inseparabile dal percorso dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo. La prima tappa del processo di esclusione ebraica risale al XII secolo d.C. e si manifesta in una forma di antigiudaismo cristiano. Se fino al XI secolo la situazione degli ebrei nell’Europa cristiana è caratterizzata da una coesistenza ancora possibile, le prime violenze gravi esplodono con la Prima Crociata nel 1095-1096. Le prediche che la precedono catalizzano il discorso antiebraico in un giudaismo non solo come religione anacronistica e ridicola, ma si orientano verso l’accusa diabolica. L’era della tolleranza è a quel punto finita. Le accuse di profanazione dell’ostia in Germania portano ai massacri del 1298 e durante il IV Concilio Laterano si impone il segno distintivo agli ebrei, le professioni vengono progressivamente proibite e le violenze e umiliazioni portano, a partire dal XIII secolo, l’emigrazione coatta degli ebrei verso l’Europa dell’est.

L’antisemitismo laico

Il XIX secolo apre l’Europa occidentale alla modernità. L’industrializzazione e l’urbanizzazione rapida destrutturano in breve tempo le società tradizionali. È in questo contesto che in Germania e in Francia il nazionalismo cieco della fine del secolo vede nell’ebreo uno sradicato che mina la stabilità sociale. L’antisemitismo laico unisce ovunque la condanna al liberalismo, al capitalismo e al socialismo: alla fine del secolo l’impregnazione razzista è una forma della crisi europea della modernità. L’ebraismo europeo si trova allora all’interno una contraddizione fondamentale di cui non ha coscienza. L’emancipazione lo integra alla cultura nazionale, mentre la nazione che cerca la propria identità si forgia tanto meglio quanto più lo esclude. Questo antisemitismo laico, frutto delle angosce della modernità, si sovrappone al vecchio antigiudaismo cristiano e le due forme di rigetto coesistono in un Europa, luogo in cui progrediscono la secolarizzazione e le prime forme di rigetto “scientifico”. Il darwinismo razziale e l’ideologia eugenista di Galton forniscono la chiave per l’esclusione radicale dell’ebraismo, mentre il nazismo fornirà l’arsenale legislativo per la loro attuazione.

La decisione del genocidio

Fino al mese di dicembre del 1941 l’epilogo degli ebrei d’Europa non è ancora quello che tragicamente conosciamo oggi.  Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, la “questione ebraica” acquisisce un’ampiezza eccezionale. Il primo progetto germanofono della cosiddetta soluzione finale prevede l’emigrazione forzata della popolazione ebraica che si trovava nella Wehrmacht verso le aree del Governatorato Generale. Il progetto Nizko si interrompe di fatto nel marzo 1940. La Germania, dapprima con l’annessione dell’Austria, poi con l’invasione di Boemia, Moravia e Polonia nel 1939, con l’operazione Barbarossa che vede la lenta risalita delle truppe nazionalsocialiste in Unione Sovietica nel 1941, controlla di fatto i più importanti centri vitali dell’ebraismo europeo. Per il numero di ebrei ora nelle mani tedesche, la deportazione fuori dalla Germania diventa impossibile. Il secondo progetto prevede la creazione di riserve ebraiche, i cosiddetti ghetti, dove sarà la “selezione naturale” a compiere l’inevitabile. Il 31 luglio dello stesso anno viene redatto da Adolf Eichman un documento che conferma la volontà di Hitler di ottenere una soluzione totale per la questione ebraica. È a Wannsee il 20 gennaio 1942 che vengono discusse le modalità tecniche dello sterminio e dove il gas Zyklon B usato per uccidere gli ebrei diventerà il contrassegno ontologico dei crimini contro l’umanità.

Il silenzio del mondo

Il 5 dicembre 1938 il console americano a Berlino scrive all’Ambasciata statunitense: “I nazisti hanno il progetto di sterminare gli ebrei”. Nel 1942 Gerhardt Riegner invia un telegramma da Londra all’Ambasciata americana a Ginevra in cui dichiara di essere stato informato in merito alla “soluzione finale” e documenta la retata di Vel d’Hiv a Parigi. In Palestina trapelano le notizie dei massacri e 62 ebrei palestinesi testimoniano riguardo ad Auschwitz. Il mondo sa, ma decide di dare priorità alla guerra e di chiudere ancora una volta le frontiere. Il mondo sa, ma resta in silenzio. Le informazioni sono scambiate per dicerie, il crimine è troppo grande e anche quando le truppe varcano l’ingresso dei campi quel 27 gennaio del 1945, lo scarto tra la percezione del reale e la sua comprensione è troppo grande. Il pericolo che si corre oggi forse è proprio questo: lasciare che questo scarto si dilati, si amplifichi e diventi incolmabile. La Shoah è una crepa insopportabile nel cuore dell’Europa, genera colpevolezza e volontà di voltare pagina. Ma i crimini giudicati a Norimberga non chiudono un’epoca, bensì la aprono. Per la natura stessa dell’evento di cui rende conto, il suo insegnamento deve rimanere una parola aperta che scuote i discorsi convenzionali e chiama in permanenza all’insubordinazione dello spirito.

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Giulia Villani

Giulia, classe ’99, laurea in Comunicazione e un sacco di idee per la testa. “Il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra via che quella di scrivere tutti i libri…”. Molto probabilmente non scriverò tanti libri quanti Calvino, ma ogni storia che merita di essere raccontata.

IoVoceNarrante? La mia penna.

Australian Open 2023: Novak Djokovic a caccia della “decima”

Australian Open 2023: Novak Djokovic a caccia della “decima”

Australian Open 2023: Novak Djokovic a caccia della “decima”

Il campione serbo è il favorito alla vigilia dello Slam australiano; non è ancora al massimo, ma la sua insaziabile voglia di vincere lo sorregge sempre. Il tennis italiano continua a crescere

L’attesa si è conclusa, e come sempre a gennaio il tennis riparte dall’estate australiana. Dopo alcuni tornei giocati anche in Nuova Zelanda e nell’isola di Tasmania, questa notte sono iniziati gli Australian Open prima prova del Grande Slam 2023. Tutti i migliori e le migliori si ritrovano a Melbourne, nel bellissimo impianto di Flinders Park, inaugurato nel 1988 (vinse Mats Wilander, al quinto set contro il padrone di casa Pat Cash). In realtà quasi tutti, perché il torneo maschile ha dovuto registrare l’assenza per infortunio niente meno che del numero uno del mondo: Carlos Alcaraz.

Rispetto allo scorso anno il torneo ritrova però Novak Djokovic, assente nel 2022 per questioni… vaccinali. Il serbo ha già vinto 9 volte la manifestazione, e la prima volta risale al 2008, ben 15 anni fa. Pur non giocando ancora il suo miglior tennis, una settimana fa ha vinto il torneo di Adelaide, lasciando intendere che la prima qualità di un campione è quella di non essere mai stanco di vincere: sono ormai 92 gli allori in carriera per lui.

La sua stagione 2022 giocata a singhiozzo lo ha relegato alla quinta posizione del ranking; gli organizzatori non hanno voluto contraddire la classifica ufficiale egli hanno attribuito la quarta testa di serie. Ma è senza dubbio il favorito numero uno e martedì farà il suo esordio contro lo spagnolo Carballes Baena.

Il suo avversario… naturale, ovvero Rafa Nadal, è la prima testa di serie. Ha avuto un pessimo sorteggio, e quando leggerete questo articolo avrà già giocato il suo primo match contro il giovane (21 anni) mancino inglese Jack Draper, uno dei migliori della nouvelle vague. Lo spagnolo, detentore del titolo, non sembra essere nella sua miglior forma fisica; la sua classe non si discute, ma è difficile immaginarlo arrivare fino in fondo.

Non ce ne voglia il bravo Jack, ma silenziosamente speriamo di vedere Nadal andare avanti.

I nomi subito alle spalle delle due leggende sono quelli del russo Medvedev e del greco Tsitsipas, senza dimenticare i migliori dello scorso autunno, il danese Holger Rune e il canadese Felix Auger-Aliassime. Il talento di casa Nick Kyrgios è pronto a essere il guastafeste dei favoriti e, se non si distrae, nei quarti potrebbe incontrare proprio Djokovic.

Il tabellone femminile propone come naturale favorita la polacca Iga Swiatek, vera protagonista del 2022. Alle sue spalle qualche avversaria in più sembra essersi preparata per impensierirla non poco: pensiamo alla francese Garcia, alla bielorussa Sabalenka e alla tunisina Ons Jabeur. Inoltre, potremo verificare i progressi dell’americana Jessica Pegula, attuale numero tre del mondo. Forse il tennis femminile ha finalmente trovato un piccolo gruppo di tenniste capaci di elevarsi dal gruppo.

Capitolo tennis italiano: per la prima volta nella storia abbiamo tre azzurri nei primi 20 del mondo: Matteo Berrettini numero 14, Jannick Sinner in sedicesima posizione e Lorenzo Musetti in diciannovesima. Matteo in particolare sembra in forma ideale; ha guidato la nazionale italiana nella United Cup fino alla finale, persa contro gli Stati Uniti. Ha affrontato quattro top ten battendone due, Ruud e Hurkacz. È motivato e sente di essere il leader del movimento azzurro.

L’anno scorso ha perso in semifinale da Nadal; al primo turno affronta Andy Murray, campione ridimensionato da gravi infortuni, ma ancora in grado di vincere partite importanti.

Musetti e Sinner si sono recentemente fermati per piccoli malanni fisici, che si spera non condizionino troppo il loro cammino negli Australian Open

Dopo due turni alla portata del loro tennis, il tabellone li metterebbe purtroppo l’uno contro l’altro nel terzo turno.

Tra le donne la numero 1 italiana è Martina Trevisan, capace a giugno di arrivare fino in semifinale al Roland Garros. La superficie e probabilmente un po’ troppo veloce per i suoi gusti, ma nella prima settimana dell’anno si è molto ben difesa nelle United Cup. Se riesce a passare un primo turno non impossibile contro Schmiedlova, al secondo turno potrebbe avere Camila Giorgi, ultimamente caduta piuttosto in basso in classifica (settantesimo posto).

il nome più di tutti à l’affiche in queste torride giornate nella terra dei… koala (facciamo riposare i canguri) è quello di Elisabetta Cocciaretto; la ventunenne di Porto San Giorgio si è qualificata per la finale a Hobart.

Nella notte tra venerdì e sabato non è riuscita a vincere il suo primo torneo WTA, ma si è inserita alla posizione numero 48 della classifica mondiale, suo record personale.

Speriamo che lo sforzo fisico di quest’ultima settimana non la condizioni nel grande torneo; la sua prima avversaria è la kazaka Elena Ribakyna, che ha vinto l’ultima edizione di Wimbledon, ma che successivamente non ha ottenuto altri risultati degni di una campionessa Slam.

Questi sono i nomi di punta della pattuglia azzurra, che complessivamente conta 12 nomi, equamente divisi tra singolare maschile è singolare femminile. A livello quantitativo un dato notevole, che certifica la crescita del movimento nel nostro paese.

Sperando di trovarli numerosi anche all’inizio della seconda settimana, non ci resta che metterci comodi per gustarci una nuova stagione di grande tennis. Buon Australian Open a tutti!

 

Danilo Gori

Nel mondo chiuso di Agatha Christie ognuno porta la propria maschera

Nel mondo chiuso di Agatha Christie ognuno porta la propria maschera

Nel mondo chiuso di Agatha Christie ognuno porta la propria maschera

Nei romanzi della scrittrice inglese i protagonisti vivono in una realtà di perfetta letizia, ma l’inganno è appena sotto la superficie. E parte da un punto remoto nel tempo.

Hercule Poirot detective belga che aveva raggiunto fama internazionale è morto in Inghilterra… ne da l’annuncio Dame Agatha Christie. La sua età era sconosciuta… .”. Il 6 agosto del 1975 il New York Times pubblica questo necrologio senza precedenti; è infatti il primo dedicato ad un personaggio immaginario. Nello stesso annuncio viene anticipata la notizia dell’uscita, poco più di un mese dopo, del suo ultimo caso, intitolato “Curtain”, ossia “Sipario”.

Che tipo era questo Poirot? Molto antipatico. Così lo immaginava l’autrice, che non farà in tempo a vedere l’attore David Suchet, il più assiduo nell’impersonare il piccolo belga, dal 1989 al 2014. Peter Ustinov sarà sei volte il detective al cinema; il suo film più famoso è “Assassinio sul Nilo”. Nella traversata su sul fiume egiziano più famosa di sempre ci appare sicuramente pieno di sé e vanitoso, ma è anche un dolce consigliere con fare paterno nei confronti di Mia Farrow; e in “Delitto sotto il sole” è anche simpatico quando mena vanto delle sue inesistenti qualità di nuotatore.

Prima di lui, Albert Finney interpreterà solo una pellicola nei panni di Poirot, forse la più famosa: “Assassinio sull’Orient-Express” del 1974. Nel cast ricco di stelle di Hollywood, l’attore teatrale inglese non solo non sfigura, ma conquista una nomination agli Academy Awards. Ma soprattutto, piacerà alla “Signora del delitto”, inizialmente tutt’altro che convinta ad approvare il progetto. Finney e certamente giovane per la parte, ma si sottopone a un trucco estenuante, e sul set è veramente pedante, proprio come il Poirot “su carta”.

Comunque sia il suo carattere, l’onore dell’annuncio funebre rende la misura della popolarità dell’autrice, Dame Agatha Christie. E lei la scrittrice di romanzi più famosa al mondo: un miliardo di libri venduti solo in lingua inglese, un altro miliardo nelle 103 lingue in cui sono stati tradotti.

La caratteristica principale di molte sue opere è racchiusa nella costruzione da parte dell’autore di un mondo a parte.

La Christie mette a punto un universo chiuso e a volte claustrofobico dove i protagonisti si muovono, apparentemente in assoluta tranquillità, ma in realtà facendo i conti ognuno con il proprio movente. Tutti i presenti infatti avrebbero un buon motivo per trarre vantaggio dalla morte di uno di loro. Che puntualmente muore.

Il mondo piccolo descritto dall’autrice è come una famiglia, (e a volte l’assassino è un familiare); un mondo fatto di sorrisi di circostanza e di grandi tradimenti; corrotto e cinico. Hercule Poirot e Jane Marple, la versione femminile del detective, riflettono sulle miserie dell’essere umano osservando gli abitanti di questo circolo chiuso agitarsi per sopravvivere.

Non a caso il film che ha più remake è la trasposizione del suo “Dieci piccoli indiani”, dove un gruppo di persone tra loro sconosciute vengono attirate con uno stratagemma nel luogo per eccellenza isolato: un’isola. Nigger Island, per descrivere la quale la Christie si ispira a Burgh Island, situata al largo delle coste del suo Devon.

Una qualità del suo modus operandi che ha saputo portare a livelli di perfezione insuperati il giallo è la capacità di tenere incollato fino alla ultima pagina il lettore. La storia inizia spesso in un normalissimo ambiente casalingo, dove i membri di una famiglia o di una piccola comunità parlano delle loro cose di tutti i giorni. Il minimalismo delle loro chiacchiere, la quotidianità delle loro faccende vengono improvvisamente sconvolti dal ritrovamento di un cadavere.

L’ingresso in scena della morte fa salire la tensione all’improvviso e cade l’ipocrisia del gruppo perfetto. Lentamente e al ritmo delle domande secche di Poirot o di Miss Marple, la piccola comunità deve fare i conti con il proprio lato oscuro, ignoto ai più.

Dopo ogni pagina il lettore intuisce a poco a poco che il tragico accadimento non è altro che la risultante di un mistero molto più grande, che trova la sua origine magari anche diversi anni prima, con protagonisti talvolta già morti nel momento in cui la storia narrata nel romanzo ha inizio: la storia è solo l’atto finale della Storia.

A quel punto non è più possibile smettere di leggere; non si può non giungere fino in fondo al romanzo e ripensare il quieto mondo incontrato nelle prime pagine alla luce dei sordidi eventi avvenuti in precedenza.

Sono illustri esempi di backward writing, letteralmente “scrittura all’indietro”, proprio “Assassinio sull’Orient-Express”, che inizia con la cronaca dell’uccisione della piccola Daisy Armstrong, e “Trappola per topi”, dramma che va in scena ogni giorno a Londra dal 1952, con la sola pausa di 14 mesi dovuta alla pandemia.

Nel settembre del 2022 la illustre storica inglese Lucy Worsley pubblica un’imponente biografia (“Agatha Christie, an elusive woman”, Hodder & Stoughton, 662 pagine) della “regina del delitto”. In essa Dame Christie ci appare come una donna molto più moderna di quanto non dica la sua iconografia più popolare. Agatha Miller, questo il suo cognome da nubile, ha solo 24 anni quando scoppia la Prima guerra mondiale. Presta opera come infermiera ausiliaria in un ospedale da campo approntato in tutta fretta nella sua Torquay.

La Worsley prova a leggere in maniera originale la sua esperienza.  La grande guerra strappa Agatha dal suo destino di ragazza di buona famiglia: diventare presto moglie e madre. Ma soprattutto la porta a contatto con gli orrori del conflitto mondiale: assiste i dottori nelle operazioni, getta nel forno arti amputati. Il ruolo di quelle come lei, così come dei medici, e di essere testimoni di queste atrocità, senza farne però menzione.

Ogni giorno mascherarsi, anche a guerra finita, per celare i terribili segreti dentro di sé e per tenerne lontana la società civile.

E non è forse questo che vediamo nei suoi romanzi? Ogni personaggio ha la sua maschera, dietro la quale nasconde misteri inenarrabili, la parte corrotta di sé. Il ruolo del saggio investigatore è quello di rimuovere, dolorosamente, gli schermi artificiali. È la catarsi finale, in cui la verità trionfa e il male trova il suo castigo.

Il romanzo giallo è il romanzo della convalescenza, dell’uscita dall’infezione; solo sul vagone dell’Orient-Express succede qualcosa di diverso dalla punizione del colpevole, ma solo perché così reclama il senso di giustizia di chi riporta alla luce la verità: il solito, infallibile, insopportabile Hercule Poirot.

 

Danilo Gori